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Autore: annabettaquinnsws    26/12/2012    1 recensioni
Ricominciare.
Con una nuova scuola, con una nuova realtà, con gli stessi genitori, ma con nuovi amici.
Ricominciare.
Con la speranza di una nuova vita, dove nessuno indicherà più quel ragazzo come assassino.
Quel ragazzo di soli sedici anni, che nel tentativo di scappare dal suo passato,
ci finirà ancora più dentro.
Ma si può davvero sfuggire al passato? O tornerà sempre, beffardo?
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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In quel momento, un paio di tacchi riecheggiarono per il corridoio, alle nostre spalle. Non mi ero accorto di essermi avvicinato col mio viso a quello di Kathy, ma quando la mia nuova professoressa entrò, ci vide che praticamente avevamo i nasi che si sfioravano. Quasi inavvertitamente mi ero avvicinato a lei, come se mi attraesse, due calamite dello stesso polo. Appena una donna entrò nella stanza, ci allontanammo. Avevo un concerto rock nello stomaco. Era possibile? Santo Dio, non la conoscevo nemmeno!
«Buongiorno. Tu devi essere Christopher, giusto? Mi hanno parlato di te.» mi strinse la mano con vigore. Era una donna più sui quaranta che sui trenta, capelli legati in una coda bassa, castani, con un fermaglio blu. Portava una giacca nera e un vestito bianco sotto, che le arrivava sotto il ginocchio. Era una bella donna. Il viso era scavato da piccole rughe, gli occhi d’un verde che sembrava sprizzar luce. Da giovane, doveva esser stata bellissima, quasi splendida, anche. Le poche rughe che aveva ai lati degli occhi, indicavano che rideva spesso, ma la sua espressione indecifrabile dimostrava tutto il contrario.
Ho sempre odiato i professori. Qualsiasi tipo. L’unico che mi aveva colpito, era il professor Mertelli, un italiano trasferitosi in America e venuto ad insegnar nella mia scuola, quando facevo le medie. La settimana prima delle vacanze ci faceva giocare in classe. Potevamo usare il telefono a patto che fosse in silenzioso. E durante i temi di italiano, potevamo sentire la musica con le cuffie, a patto che non fosse oltre il volume quindici. Sennò, sai che concerti, in trenta alunni. A parte lui, tutti gli altri professori che io abbia mai conosciuto, eran indecifrabili. Però magari, fuori dal contesto della scuola, se la ridevano e andavano a ballare le sera. Mi ha sempre infastidito la storia del “io-qui-sono-il-professore-e-devo-fare-il-duro.”
«Ehm, sì. - balbettai. - Piacere.» Lasciò la mia mano, e si voltò verso Kath.
«Ciao, Kath. Come va?» I suoi occhi parvero addolcirsi un po’.
«Tutto bene, più o meno. Grazie, Miss Purr.»
Miss Purr era una di quelle persone che o ti stanno subito simpatiche, o non ti stanno simpatiche affatto. Notai che lei e Kathy dovevano conoscersi già. Appena guardò di nuovo me, gli occhi verdi si indurirono severi.
“Oh, perfetto. Già mi ha capito.”
Non ci voleva molto per scartarmi come futuro studente modello. Alle medie avevo la media del sette, e a comportamento avevo un sei tirato per miracolo. Ma, ehi, non era colpa mia. Il primo anno, quel tizio il pugno se l’era cercato, non avevo idea che la preside fosse dietro la porta. E poi, l’anno dopo, in seconda, non è stata colpa mia se per sbaglio ho spinto la bidella nel bagno dei ragazzi, beccando un ragazzo della terza media a... Fare i propri bisognini. E il terzo anno... Non fui io a far entrare i dieci cani del canile di fianco perché mi facevan pena nella scuola!
«Bene. – disse, a un certo punto, Miss Purr. Interruppe la mia sequela di ricordi a dir poco imbarazzanti. - Sedetevi pure, intanto aspettiamo gli altri, quando si decideranno ad entrare.»
Prendemmo posto a un banco in mezzo, né troppo vicini né troppo lontani dalla cattedra e dalla professoressa. Lei non obbiettò.
Quanto al fatto che posai lo zaino sullo stesso banco doppio dove aveva posato il suo Kathy, non ci pensai nemmeno. Non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello di sedermi da solo e di lasciarla sola.
“Ora lei dipende un po’ anche da te. Devi proteggerla.”Mi diceva il cervello.
I miei compagni di classe sbucarono a gruppetti di due o tre dalla porta e in pochi secondi la classe fu piena di respiri e di petti che si alzavano ed abbassavano nello stesso istante.
Si fece silenzio, tra tutte quelle facce nuove destinate a star insieme per cinque anni. Tutti si ispezionavano a vicenda, chi più curioso, chi meno, chi dormiva sul banco. Suonò anche l’ultima campanella delle otto e dieci. La professoressa si alzò e cominciò a fare l’appello.
«Emma Allenn.»
«Presente!» era una ragazza dai capelli biondi e lisci, le arrivavano fino alla vita. Portava un abbigliamento semplice, un vestitino bianco e dei sandali, e uno zaino che aveva l’aria di non contenere nulla. Sedeva nella prima fila di banchi a fianco alla porta, Al primo banco, il più vicino alla prof. Io ero nella terza fila, a fianco alla finestra, al secondo banco.
«Cathlin Buur.»
«Presente.» gracchiò una voce profondamente scocciata. Sedeva all’ultimo banco della fila di Emma. Era decisamente robusta, coi capelli color carota tagliati cortissimi, una maglia taglia XXXL nera e un giacchetto buttato sulle spalle, gli occhi piccoli, come quelli dei maiali. Comunque, aveva un bel viso. Più o meno. Piercing a parte. E dei tatuaggi strani che si intravedevano sulle braccia...
L’appello continuò. La prof snocciolò un altro po’ di nomi, finché...
«Kathy Morgan Deliè.»
Ma Kathy non rispose. Guardai la classe: si era fatto un silenzio carico di curiosità, non appena la professoressa aveva pronunciato quel nome. Forse anche qualcosa in più della sola curiosità, forse anche un po’ di paura. Mi voltai a guardare Kathy. Aveva i gomiti posati sul banco, le mani serrate a pugno, la fronte aggrottata e gli occhi chiusi, come per calmarsi. Capii che non aveva neanche sentito il suo nome. Mi avvicinai all’orecchio e le sussurrai:  «So che è difficile. Ma se non dici presente, beh...»
Lei aprì gli occhi di scatto e si rilassò. «Presente.» Mi guardò di sfuggita, ringraziandomi con gli occhi.
Altri nomi, altri visi, altre facce, altre risposte stanche da primo giorno di scuola.
Ma tutto quello che successe dopo, i nomi, i visi, le facce, le risposte, io non le vidi, né le sentii. Stavo guardando Kathy. Lei anche guardava me, ma si limitava a occhiate furtive, mentre faceva finta di leggere  pagina 1 del libro di storia. Le sue occhiate non duravano più di tre secondi. Mi sorpresi a pensare più cose contemporaneamente: aveva una sfumatura di bianco negli occhi color cielo; un ciuffo di capelli le ricadeva sul lato destro del viso ogni volta che si chinava; aveva le lentiggini.
«Christopher Reeborn.»
Mi ci volle la gomitata di Kathy per tornare alla realtà. Stavo ancora guardando lei.
«Oh, ahm, sì, presente.» balbettai.
«Da quando “presente” significa “imbambolato”?» esclamò Emma Allenn.
Risata generale.
Diventai rosso come un pomodoro, e mi nascosi nello scaldacollo, abbassando la testa. Kathy al mio fianco, rideva, rossa anche lei in viso. La guardai di sottecchi.
“E’ bellissima quando ride, vero?” Pensò il mio stupido cervello.
 
Dopo un po’, un bigliettino sbatté sul mio braccio, rimbalzò e cadde per terra.
Jeremia. Ci lanciavamo sempre bigliettini.
Lo raccolsi mentre la prof aveva già finito di parlare di sé, e cominciava già a parlare di storia. Era girata di schiena e scriveva alla lavagna, con un pennarello blu che funzionava a tratti.
Srotolai la pallina di foglio di quaderno.
 
“E così, abbandoni un amico per una ragazza pazza il primo giorno di scuola, dopo che te e il tuo amico, non vi vedete per cinque mesi. Bella roba, Chris! Guarda vicino a chi sto seduto!
 
Mi voltai a cercarlo. Non lo trovavo. Ispezionai tutta la classe.
Alla fine, intravidi il suo zaino. Lui era seppellito dietro quella montagna di Cathlin Buur. Quella ragazza era un colosso. Si vedevano a malapena i capelli neri di Jere.
Scrissi un biglietto di risposta, strappando un pezzetto dell’ultimo foglio del quaderno di biologia.
 
 “Sei seppellito da una montagna, amico. E comunque scusa, non ci ho pensato, davvero. E’ stato tutto così veloce. Va bene, dai, ci rifaremo domani. A me questa (la prof) già sta antipatica. A te?”
 
Non feci in tempo a scrivere “prof” che mi arrivò un altro bigliettino, stavolta dalla mia sinistra, sul mio banco. Kathy. Aveva strappato un foglio dalla risma e me lo passava, un sorrisetto ironico sotto i baffi. Aveva una calligrafia rotonda e piccola, e scriveva in corsivo.  Si voltò a sinistra, per guardare alla finestra le case dall’altra parte della strada, facendo finta di niente.
 
 “Vi scrivete i bigliettini come i bimbi delle elementari? Dolci! :3”
 
Lei si voltò di nuovo e mi guardò, trattenendo a stento una risata. Le risposi con una linguaccia e le scrissi “Mi pare che anche tu stia scrivendo su foglietti. Quindi, ssh.”, rovinando con la mia calligrafia piena di scarabocchi il foglio.
Lei rise piano.
Rispose con un cuore, sul foglio bianco.
«Giusto, ragazzi? - stava dicendo la prof. Mi venne un colpo e la smisi di fissare quel cuore stilizzato, prestando attenzione a quegli occhi verdi contornati da rughe. - Jeremia, ho ragione? Visto che sei così tanto concentrato a scrivere, immagino tu stia prendendo appunti. Sì, come no.»
Altra risatina generale.
Le prime ore passarono così. Professore o professoressa nuovo o nuova, bigliettini, sorrisetti, risate generali. Un altro professore, il signor Talmin, insegnante di tecnica (la materia esprime quanto mi stesse simpatico, ovvero l’equivalente di un numero negativo) mi beccò mentre fissavo imbambolato il secondo cuore che Kath mi disegnò sul quaderno.
Pennarello indelebile.
Un cuore disegnato da lei per me, con un pennarello indelebile.
La cosa mi piaceva, e tanto.
Mi preoccupai che mi piacesse.
Mi preoccupai che anche a lei evidentemente piaceva.
Mi preoccupai che magari a lei invece non piacessi.
Mi preoccupai di essere troppo sdolcinato.
Mi preoccupai di preoccuparmi.
E il prof mi beccò che non stavo ascoltando.
 
La ricreazione.
La benedetta ricreazione.
L’atmosfera pesante da primo giorno di scuola si sciolse.
Passai il tempo a parlare con Kathy, Jere e feci amicizia con un paio di ragazzi e ragazze. Sono sempre stato un tipo tranquillo, non mi faccio mai problemi con le persone. Quando una persona mi sta simpatica d’impatto, mi viene naturale  parlarle, come se ci conoscessimo da sempre.
 
Quando suonò l’ultima campanella delle lezioni, avevo parlato già con tutta la classe, ricevuto qualche contatto di Facebook e qualche numero di telefono.
“Alla fine”, pensai, “non è male ogni tanto cambiare.”
Accompagnai Kathy anche in pullman. Jere andava a casa con i suoi, io mi sarei dovuto arrangiare.
«Non ti viene a prendere nessuno?» mi chiese Kath.
«No.» risposi. Mi aspettavo la prossima domanda. “Perché?” Ma Kathy non la fece. Ci guardammo. E in qualche modo ci capimmo.
«Anche io. - disse, mentre occupava il posto al finestrino e tirava fuori un I-Pod dallo zaino. - Anche io non sto messa bene, a famiglia.»
«Oh. Mi spiace.» La guardai, accomodandomi di fianco a lei,e lasciando cadere lo zaino ai miei piedi.
«Anche a me. Per te.»
Ci sorridemmo, un po’ imbarazzati.
E quello fu il primo giorno che passai con Kathy Morgan Deliè. 
Il primo di una lunga serie.
 
 
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Buonasera a tutti, ecco finalmente il secondo capitolo.
Spero vi piaccia. <3
Annabeth.
  
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