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Autore: Neal C_    13/01/2013    3 recensioni
“Chi è Rebecca?”
Brian per poco non sgranò gli occhi ma mi riservò solo un piccolo guizzo di sorpresa prima di lasciarsi andare in una risata ironica che mi punse sul vivo.
Era ragionevole che io non sapessi niente di questa Rebecca, sarebbe stato ragionevole che Brian, con la pazienza e l’amabilità che lo contraddistingueva nei momenti in cui era di buon umore, mi spiegasse tranquillamente di chi stavamo parlando. Non potevo certo conoscere tutte le frequentazioni di Brian, una rockstar che vedeva più facce in un’ora di quante ne vedessi io in una giornata. Ma allora, se avevo ragione, perché ero arrossito come un peperone e mi vergognavo come un ladro?

[Questa storia è correlata a "Just a perfect man", one-shot prequel, ma è autonoma in quanto può essere letta come una storia a sé stante]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Brian Molko, Nuovo personaggio, Stefan Osdal
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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“Mamma, voglio andare in montagna con papà!”

….


“Io in montagna con papà non ci vengo!”
Cody fece il suo ingresso rumoroso e piagnucolante nella nostra camera da letto mentre io ed Helena concordavamo  quando e dove andare a comprare tutto l’occorrente per la settimana bianca.
Helena parve non sentirlo nemmeno e non si girò mentre il ragazzino rimaneva sulla porta con le braccia incrociate guardandoci entrambi con aria di sfida.
Dovetti attirare io l’attenzione della mia compagna perché si decidesse a chiedere pazientemente e con condiscendenza il perché di tutto quel baccano.
“Ho detto che non voglio andare in montagna con papà!”
“Tesoro, ma non andrai solo con papà. Verremo anche io, Andrew, lo zio Stefan e lo zio Dave. Zio Dave porta suo figlio, te lo ricordi Ian? ”
Lo vidi scuotere il capo confuso ma subito si scurì nuovamente in viso, risoluto a non cedere.
“…e poi vengono anche Rebecca e suo figlio Jordan. Te la ricordi Rebecca?”
Mentre continuava ad elencare la folla che avrebbe partecipato alla nostra avventura vacanziera, aggiungeva alla nostra -già lunga-  lista di cose da comprare,  le calzamaglie di lana e le maschere per il casco da sci.
Io me stavo lì in piedi e annuivo, sbadigliando.
Non che l’idea di accompagnarla per negozi di sport e di abbigliamento mi attirasse più di tanto. Più che altro fremevo al pensiero che lei volesse a tutti costi uscire a comprarmi una tuta da sci e io non le avevo ancora confessato che non avevo mai sciato in vita mia e non avrei mai voluto provare.
“Mamma…”
“E poi forse ci saranno i figli di Caroline…”
“Mamma!”
“Amore?”
“Chi è Rebecca?”
Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Mi chiedevo Helena cosa avrebbe risposto a quella domanda, per così dire, scottante.
La vidi fermarsi e appoggiare il foglietto svolazzante che aveva in mano sul letto, come se potesse ingombrarle le mani e sorridere dolce e rassicurante come solo  Helena sa fare.
“è una cara amica di papà.”
“Anche lei è una troia?”
Il gelo.
Credetti di non aver sentito bene nonostante la vocetta squillante di Cody.
La mia donna se ne stava lì, con gli occhi sbarrati, in un’espressione ammutolita e allo stesso tempo scandalizzata mentre il ragazzino accennava un sorriso, trionfante, ora che aveva la completa attenzione di tutta la sala.
Persino le colonne di maglioni di lana, pile e camicie di flanella sembravano dondolare pericolosamente in avanti verso la figurina gelida di Helena; o forse semplicemente avrei dovuto fare una seconda selezione altrimenti invece che quattro trolley  ne sarebbero usciti fuori anche dodici, materiale da sci escluso.
Mi dissi che non dovevo intervenire;  era una cosa fra Cody e sua madre, assolutamente.
“Cody, cosa vuoi dire? Io e Andrew non abbiamo capito bene…”
Il tono voleva essere minaccioso ma non sortì grande effetto.
Il figlio non sembrò né pentito né vagamente consapevole della volgarità che gli era appena uscita da bocca.
Anzi, più strafottente che mai, mi gettò un’occhiataccia come se fossi io il principale colpevole dei suoi problemi. Non volevo essere immischiato in questa storia!
“Quello che ho detto ma’. Io in vacanza con quella troia non ci vado.”
“Cosa ti fa pensare che sia una troia?”
argomentai pacatamente. Non che fossi d’accordo con lui beninteso, ma era ragionevole che ci rivelasse cosa gli frullava nel cervello, dove aveva sentito quelle cose e perché le pensava.
“Andrew!”  mi attirai un’occhiata furibonda di Helena ma almeno guadagnai la considerazione di Cody che si fece serio in viso, stringendo le labbra in una smorfia  e spostando lo sguardo da sua madre a me.
In quei momenti aveva un’aria molto adulta, terribilmente seria, un portamento eretto e quasi regale nonostante il suo fisico sottile e magro promettesse un’altezza decisamente sotto la media – d’altra parte anche il corredo genetico parlava chiaro-.
E poi c’erano quegli intensi occhi nocciola, gli stessi occhi di lei, ma erano due pozzi in cui si poteva affogare e non riemergere. Non era certo lo sguardo tenero, calmo e riflessivo di Helena che avevo davanti. Anzi, era piuttosto inquieto e inquietante allo stesso tempo, misterioso con un sapore beffardo e malizioso come un bambino di undici anni non dovrebbe essere.
“Non sta con mio padre solo per i suoi soldi?”  accusò il ragazzino ma se avesse avuto ragione o torto non avrei potuto confermarlo o smentirlo. Semplicemente non lo sapevo.
“Cody…”  vidi Helena che gli si avvicinava minacciosa ma Cody era troppo concentrato su di me per badare a ciò che succedeva al suo fianco.
Si era fatto avanti stringendo il pugnetto in un atto ostile e ciabattando con le sue pantofole di pelo sul parquet di camera nostra.
Avevo sempre apprezzato il fatto che Helena non avesse voluto rivestire tutti i pavimenti della casa con la terribile moquette blu scuro che invece troneggia nella cosiddetta “stanza del bambino” ;  poi avevo scoperto che era stato Brian a proporlo, diceva che la moquette gli ricordava troppo quelle enormi stanze d’albergo in cui era costretto a dormire per almeno tre mesi l’anno – in media - .
 In quel momento –irragionevolmente - ricordo che lo avevo apprezzato un po’ meno.   
“E mio padre poi… quello che ha fatto lo ha fatto tutto per soldi… anche lui era una put- ” lo vidi arrivare fulmineo e rumoroso ma non suonò violento.
Fu solo umiliante come un qualunque schiaffo che schiocca sulle guance e arrossa la pelle.
Gli occhi del piccolo persero tutta la loro baldanza, rimasero lì liquidi e smarriti, come quelli dei un  cucciolo ferito nell’orgoglio mentre Helena gli gridava che non si azzardasse neanche a pensare una cosa del genere.
Se ne filò via, dritto in camera, con la promessa di una bella punizione che lo avrebbe tenuto in casa questi ultimi due giorni di vacanza prima di partire.
Sapevo che Helena si sarebbe ammorbidita in qualche ora, d’altra parte rinchiudere un figlio in casa non ha mai ottenuto altro risultato se non quello di farsi odiare profondamente. Specie quando si tratta di un bambino di undici anni che vorrebbe giocare con i suoi amichetti ai giardini, a pallone o in bicicletta, o pattinare sul ghiaccio al centro di Hyde Park.
Tornai a concentrarmi sui pantaloni di maglina che Helena aveva cacciato fuori da chissà quale eccentrico guardaroba invernale degli anni Novanta quando lei colpì rapida, stampandomi sulla guancia tre delle sue cinque dita.
“Come diavolo ti è venuto in mente di incoraggiarlo?! Ripetere le stesse parole che ha usato lui per… Oh Dio!”
Il braccio di Helena si abbatté rabbiosamente sul copriletto del matrimoniale e le colonne di vestiti, camicie e magliette crollarono miseramente, in parte sul pavimento, in parte sul cumolo di biancheria da uomo –la mia – che era stata disposta proprio lì accanto.
Mi massaggiai la guancia sbattendo le palpebre, semi sconvolto e tentati – inutilmente- di replicare:
“Helen…”
“Non so cosa ti sia saltato in mente prima ma per piacere sparisci. Va a fare la spesa, prepara la cena, fai qualcosa ma fallo lontano da qui. E domani vieni con me a comprare la tuta da sci. FUORI! ”


************



“Non ho parole! Semplicemente non so cosa pensare…”
“Hai ragione. Ti sta davvero un incanto.”
“è stato così…”
“insolito ma elegante”
“spaventoso!”
“mostruosamente bello!”
“STEFAN OLSDAL, METTI GIU QUELLA ROBA!”
Lo svedese appoggiò il vestito di lana grossa color panna a collo alto che sventolava davanti allo specchio cercando di provarlo sulla figura longilinea e sconvolta di Helena che passava in rassegna una decina di guanti da sci di colori diversi.
“Punto primo, siamo qui solo per la collezione da neve e poi non ho bisogno di  un altro stupido vestito.”
Lei lanciò un’occhiata di disapprovazione alla pila di maglioni che lui aveva ammassato, tutti con disegni equivoci –abeti di natale, fiocchi di neve, renne e cappelli di babbo natale decisamente fuori stagione - , un paio di felpe grigio e verde di stampa militare che lo facevano assomigliare ad un marines, e due sciarpe di lanona grossa color senape e magenta. Non poteva credere di aver chiesto a Stefan di accompagnarla a comprare le ultime cose per la montagna.
Anzi, se il bassista non l’avesse chiamata in mattinata chiedendole qualche indirizzo utile per rifornire il suo guardaroba montanaro forse non lo avrebbe nemmeno invitato.
Doveva assolutamente sbollire in qualche modo la rabbia e soprattutto aveva bisogno di un consiglio.  Essendo il migliore amico del suo ex-compagno sembrava assolutamente la persona adatta per darle qualche consiglio.
D’altra parte Brian non era a casa sua né da Stefan e il cellulare era staccato –e lei non aveva nessuna intenzione di chiamare a casa di Rebecca-.
“Cosa vuoi che ti dica, Lena?”
Era solo Stefan a chiamarla così ormai.
Lo aveva fatto Brian per un brevissimo periodo, forse quei sei mesi che lei era ufficialmente incinta e in quanto tale andava coccolata e strapazzata fino alla nausea. Almeno quando erano a casa, oppure  ogni volta che si sentivano a telefono, per chiamate brevi e frequenti. Era stato l’unico periodo della sua vita che aveva sentito Brian più di una volta al giorno.
“Dove le ha sentite quelle cose?”
“Andiamo, non essere ingenua. Tuo figlio ha undici anni, ha degli amici, è più che normale che ogni tanto ripeta qualche parolaccia.”
E lo svedese liquidò la questione passando in rassegna i guanti che erano sopravvissuti alla selezione di Helena.
Alle loro spalle una commessa borbottava con la sua collega indicando lo spilungone biondo, ridacchiavano e si gingillavano sospingendosi a vicenda.
Erano quanto mai irritati agli occhi di Helena mentre due o tre clienti si aggiravano disperate per le sale del grande magazzino in cerca della taglia o del colore giusto.
Tentò di ignorarle afferrando Stefan per la giacca e trascinandolo verso il reparto delle calzamaglie. Ma quelle non accennavano a smettere e non si degnavano di fingere disinteresse.
“Capisco che mio figlio ogni tanto possa dire  ‘cazzo’ in un’esclamazione spontanea, oppure che magari quando litighiamo possa scappagli un ‘vaffanculo’ . In quel caso saprei che è semplicemente una cattiva influenza. ”
“Ne parli come se te lo augurassi”  ridacchiò Stefan, andando ad afferrare le calze da neve più vistose in mezzo a quelle esposte.
“…ma nel momento in cui insulta Rebecca e poi suo padre cosa dovrei pensare?!”
“Che non ha torto. In nessuno dei due casi” Replicò ironico concedendole un sorrisetto rilassato che fece sperare le commesse pettegole.
“Stefan!” lei gli sferrò una gomitata sul polso e lui di tutta risposta le arrotolò  in vita una sciarpa lunga a maglia per poi tirarla  contro di sé giocondo, cingendole i fianchi con le lunghe braccia nervose.
Helena resistette per un po’ e infine si lasciò abbracciare appoggiando il capo sul suo petto –o sulla sua pancia? Nonostante i tacchi di Helena c’erano ben quindici centimetri di distanza fra gli occhi di lui e di lei- con un sospiro desolato e si lasciò persino accarezzare una guancia con affetto.
Poi Stefan si chinò su di lei sussurrandole nell’orecchio con fare cospiratore:
“quelle due continuano a seguirci?”
“lo sai che seguono te vero?” ribattè lei imbronciata.
“Si…ma non penso che mi abbiano riconosciuto. Altrimenti mi avrebbero chiesto subito un autografo.”
“Già, chissà che vogliono.” Rispose lei ironica indicandole con un cenno del capo.
“Che vogliono?”
“Portarti a letto”
“Ma come pensi male!” esclamò –fintamente-  scandalizzato Stefan mentre la donna scioglieva l’abbraccio, scrollandoselo di dosso burbera e calpestando la sciarpa che era scivolata a terra .
“Come pensi di scollartele di dosso?” domandò Helena a voce abbastanza alta perché tutto il reparto, camerini inclusi fosse messo al corrente della cosa.
Afferrò cinque paia di guanti, sei calzamaglie, tre fasce da neve, un paio di passamontagna e un cappellino con un pon pon arancio dirigendosi alla cassa.
“Spiacente, sono gay” annunciò altrettanto platealmente Stefan con le mani a mo’ di megafono per poi seguirla ciondolando e sogghignando fra sé e sé.
 

***********



Cody non riemergeva da camera sua.

Erano passate almeno un paio d’ore da quando Helena si era precipitata fuori di casa furibonda, sventolando in aria le chiavi della macchina, e promettendo di investire qualunque cosa le si parasse davanti.
L’acqua bolliva, era tempo di calare la pasta ma nessuno era pronto per il pranzo.
In più lei non rispondeva al cellulare né aveva avvertito che non sarebbe tornata a pranzo, decisamente non era da lei.
Lasciai l’acqua ribollire sotto il coperchio e salii al secondo piano, deciso a scoprire che ne era stato di quella piccola peste.
Già sulle scale si sentiva un gran fracasso provenire da camera sua, uno stereo assordante scoraggiava i visitatori ma la porta della sua camera non era sbarrata come pensavo.
Bussai e attesi stupidamente almeno cinque minuti lì fuori.
Quando realizzai che non avrebbe mai potuto sentirmi mi congratulai con me stesso per la mia idiozia e spalancai la porta con un moto di stizza.
Cody era buttato sul suo lettone ad una piazza e mezzo, le lenzuola mezze disfatte mentre dall’altro lato della stanza, dal mobile televisione una musica assordante rimbombava nella stanza e fuori alla finestra spalancata.
La stanza era gelida e c’era una corrente tremenda.
Ma cosa diavolo si era messo in testa quel moccioso?
Lui continuò ad ignorarmi, raggomitolato sotto una copertona di pile, avvolto in una delle felpone lunghissime che tanto si usavano fra i suoi amici.
Aveva in mano un joystick e osservava come ipnotizzato lo schermo della Tv dove si susseguivano immagini di creature sanguinolente, uomini o zombie , fotogrammi che cambiavano a velocità record sotto i suoi piccoli e misurati gesti, e contemporaneamente si susseguivano dei clic fastidiosi che dopo neanche cinque minuti promettevano un’emicrania garantita.
Fortunatamente dallo stereo si diffuse una litania cadenzata, una di quelle ballate strappalacrime sull’ingiustizia dell’amore non corrisposto, tutta acustica e ogni tanto qualche aggiunta elettrica che però tutto sommato non assordavano più di tanto, anzi erano quasi piacevoli.
Mentre mi precipitavo a chiudere la finestra, inciampai nelle bretelle del suo zaino e mi dovetti appoggiare alla scrivania per non cadere lungo disteso.
Sul pavimento era l’anarchia:  fogli, quaderni, libri sparsi, un portapenne con i pastelli disseminati intorno alle rotelle della sedia, c’erano un paio di camicie che pendevano dalla scrivania,  tre paia di jeans diversi ammonticchiati sulla comoda poltroncina che faceva da spola fra la scrivania e il televisore, una colonna di CD che si era riversata tutta sotto la poltroncina e nell’angolo, nascosto a chiunque si affacciasse dalla porta, c’era un vero e proprio laboratorio del caos.
Fogli di giornale sparsi per terra proteggevano la moquette dalla pittura che colava dai bordi di cinque barattoli di acrilico dai colori arcobaleno. Seguivano tre quattro pennelli grossi, un rullo impiastricciato di verde limone e infine un catino d’acqua dal colore indefinito in cui galleggiavano dei panni un tempo bianchi.
Dov’ero io  mentre questo ragazzino trasformava camera sua in una tintoria-laboratorio da imbianchino?
Ma La mia priorità, in quel momento, era la finestra.  
Nel chiuderla, mi misi davanti allo schermo cosa che infastidì parecchio Cody che si sporgeva a sinistra e a destra per non perdere la partita.
Lo sentii sbottare un “e levati!” e solo quando mi sedetti sulla poltrona quello si acquietò, tornando ad osservare assorto una marea di bestie che assalivano il suo personaggio sfortunatamente in fin di vita dopo il mio maldestro intervento.
Al comparire della scritta GAME OVER a caratteri cubitali, Cody mi fulminò lasciando cadere sul materasso il joystick con uno sbuffo irritato.
Ne approfittai per sporgermi verso lo schermo e spegnere, sicuro che avrebbe protestato ferocemente.
Ma lui si limitò a dare un calcio a quel congegno di plastica lasciando che cadesse sullo zaino, atterrando sul morbido con un soffio.
La sua manina corse subito alla tasca dei jeans da cui cacciò fuori l’iPhone e si mise a giocherellare con quello, muovendo agilmente le piccole dita come le zampette di una tipula in fuga.
“Cody?”
“Mhm…”
“Quello che hai detto prima…”
“Mhm…”
“Ti va di parlarne?”
Dopo pochi secondi di silenzio, nell’intervallo fra una canzone e l’altra, partì un frastornante duetto di chitarra e batteria che per poco non mi rintronarono facendomi fare un salto sulla poltrona.
Velocemente misi in pausa lo stereo e tirai un sospiro di sollievo quando il silenzio invase la stanza, intervallato dai rumori della strada, attutiti dal vetro.
“Che palle, rimetti la musica.”
Lo ignorai ; mi bruciavano le mani tanto era forte la tentazione di strappargli di mano quel dannato aggeggio.
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Dove le hai sentite quelle cose?”
“Quali cose?” rispose con un tono ingenuo che avrebbe facilmente convinto chiunque non lo conoscesse bene come me o Helena
“Quelle che hai detto prima.”
“Cos’è che ho detto prima?” si ostinava a rispondere, evitando il discorso e non alzava gli occhi da quel dannato schermetto.
E io cominciavo seriamente ad averne abbastanza.
“Rispondimi prima che ti tolga quel coso di mano. E guardami quando parlo.”
Mi uscì un tono talmente severo che per poco non mi convinsi di essere il suo legittimo genitore e di star parlando con mio figlio.
Cody alzò lo sguardo,  quello sfoggio di autorità doveva averlo sorpreso non poco.
In fondo io ero sempre molto remissivo, non mi ero mai arrogato il diritto di entrare nella sua vita, non avevo mai cercato di avvicinarmi a lui facendo l’amicone, non ne avevo avuto bisogno per farmi accettare dalla famiglia e soprattutto non avevo mai osato dargli ordini o lezioni d’educazione.
Ero di quanto più lontano da un padre  ci fosse nel suo immaginario, ma non ero né un amico, né un rivale. Semplicemente una presenza “altra” come la signora delle pulizie o uno zio che si aggira per la casa spesso ma sempre per i fatti suoi.
Non ne vado fiero ma non avevo mai speso troppo tempo con Cody, almeno da quando era cresciuto. A sette anni, quando lo avevo conosciuto per la prima volta, era ancora assolutamente adorabile, tenero e disponibile con tutti.
In due anni e mezzo era cambiato in maniera incredibile: non si faceva più accompagnare al parco, preparare la colazione o aiutare a fare i compiti né si poteva più giocare con lui a scarabeo. Andava a scuola in autobus con il suo migliore amico e se intravedeva me o Helena da lontano faceva finta di non vederci, evitando di incontrarci a tutti i costi. Si vergognava terribilmente di qualunque cosa e si incazzava per qualunque sciocchezza.
Era semplicemente diventato un lunatico, irritante, noioso e annoiato adolescente.
Eppure sembrava sempre più giovane, più piccolo, più fragile dei ragazzini della sua età cosa che rendeva tutto più difficile; ed era decisamente poco credibile mentre cercava di fare l’adulto.
“Dove le hai sentite quelle cose?” mia aggiustai sulla poltrona, ribadendo il concetto
“Non sono vere?”  replicò lui laconico e provocatorio
 “Non lo so. Tu perché pensi che siano vere?”
“Perché mio padre ha un mucchio di soldi. E c’è sempre gente che ronza intorno a quelli che hanno i soldi. Specialmente le troi...”
“Non usare quella parola per favore.”
“Quale parola? Troie?”
Si divertiva a stuzzicarmi con palese divertimento mentre aveva ripreso a battere assiduamente sullo schermo touch dell’ iPhone.
“Quella. E quindi…” cambiai di nuovo posizione e raddrizzai la schiena per darmi un minimo di contegno  “quindi tutte le ragazze di tuo padre secondo te stanno con lui solo per i suoi soldi?”
“Si.”
“Non ti sembra di esagerare?”
“No. Tanto anche lui lo fa.”
Mi si accese una spia. Cosa significava quella frase detta così, con amarezza e delusione? Era solo un capriccio dettato dalla sua natura infantile e lunatica come sembrava sostenere Helena che sorvolava con nonchalance sul cattivo umore di Cody?  Oppure c’era veramente qualcosa che non andava, qualcosa che lo inquietava e che non aveva il coraggio di raccontare a nessuno di noi?
“Cosa vuoi dire?” dovevo andarci piano se volevo saperne di più e conquistare la sua fiducia in un colpo solo.
“Non è così? Anche mio padre ha fatto lo stesso per diventare famoso.”
“Cody, tuo padre fa il musicista, mica… la prostituta d’alto borgo.”
Quando ero ragazzo avevo sempre trovato ridicolo come gli adulti “addolcissero” le parole a scopo educativo facendo sembrare tutto più grottesco.
Evidentemente dovette pensarlo anche Cody perché si lasciò sfuggire una risatina acuta e derisoria e scosse il capo quasi lezioso.
Osservai per un attimo le sue dita che danzavano toccando con leggerezza lo schermo dell’ iPhone e dopo qualche istante mi porse il telefono facendomi segno di guardare.
Scorsi le immagini su Google dapprima curioso e poi raggelato.
La maggior parte era abbastanza innocua, inquadrature stratosferiche del servizio fotografico per il nuovo album, altre erano prese a tradimento in pose che non gli donavano molto e poi c’erano quelle, disseminate silenziosamente per la pagina.
Foto di lui in vasca da bagno, avvolto da una schiuma vaporosa che sfrigolava fra le sue gambe aperte, che non lasciava molto all’immaginazione; foto di lui vestito da donna,  in giarrettiera abbandonato languidamente su un materasso, lui avvinghiato ad un altro uomo mezzo pelato e biondo che con grande orrore mi parve addirittura di riconoscere in Stefan, lui – nudo-  in un mare di lenzuola nere e lucide simili a petrolio, e poi tante altre. Non erano scandalose in sé ma quel suo sguardo lanciato di sottecchi dietro una nuvola di fumo, quel modo lezioso e femminile di tenere in mano una sigaretta, le spalle strette e la schiena eretta, e la camicia sbottonata sul petto erano terribilmente allusive.
Non sapevo cosa dire. Non mi ero mai preoccupato di cercare la voce “Brian Molko” su Google ma sicuramente se lo avessi fatto ancor prima di conoscerlo avrei avuto non pochi pregiudizi.
“Allora? Non ho ragione?” incalzava il ragazzino petulante mentre abilmente mi sfilava il telefono di mano.
Dovevo dire qualcosa, maledizione.
“Sai” esitai un attimo, sentendo la bocca pastosa e inaridita “da giovani per farsi notare si fanno tante cose. In queste foto poi tuo padre sembra solo un ragazzino.
Non è poi così grave no? Non è mica porno!”
Non suonai molto convincente ma mi appigliai all’unico argomento che avevo:  poteva effettivamente andare peggio.
Cody sembrò capire ma non toccava a lui essere comprensivo.
 Lui faceva la parte dell’adolescente deluso e questo era il copione.
Lo vidi di nuovo rabbuiarsi e commentare piccato:
“e tu immagina che uno di questi giorni quel coglione di Tom Gilligam venga da te sventolando questa pagina di internet. O che cominci a taggarti su facebook in queste foto facendo commenti tipo ‘frocio’ o ‘trans’ o ‘succhiam’… ”
“Ok, ok ho capito.”
“A che cazzo serve chiamarsi  ‘Berg’ se queste stronzate mi perseguitano comunque? ”
“E tu cosa fai?”
“Rimuovo il tag, segnalo all’amministrazione, ignoro, che cazzo dovrei fare?!”
Per poco non mi urlò addosso e tirò un pugno al materasso con veemenza facendo rimbalzare l’iPhone pericolosamente.
“Cody, tutti fanno gli errori. Dobbiamo solo fare in modo che tu non ne soffra. Questo è tutto.”
Si arrotolò ancora di più nel pile addossandosi alla parete, le ginocchia al petto lo facevano sembrare ancora più piccolo e i ricci castano scuro gli coprivano gli occhi lucidi, sembrava un piccolo barboncino con quella capigliatura scompigliata.
Mi venne quasi l’impulso di accarezzargli la testa ma qualunque gesto in quel momento mi sembrava invadente e inopportuno, tanto più che io ero solo un estraneo per lui.
“E Will che dice?”
“Will dice che dovrei mandarli a fanculo.”
“Uhm… perché non inviti anche Will in montagna?  Tu, Will e Gill vi prendete una stanza, sciate per conto vostro e tu ti prendi un po’ di tempo per pensare a questa cosa?”
Sollevò il capo come folgorato e mi guardò per un attimo perplesso come se stesse osservando un animale strano.
“Ma così… all’ultimo momento… non so se la madre li lascia venire…”
“Ci parlo io con la mamma. Chiamalo subito e passami la mamma.”
Non fu difficile convincere la signora Foster. In fondo era una settimana di vacanza per tutti e lei non aveva ancora fatto programmi.
Vedevo lo sguardo speranzoso di Cody, la sua aspettativa mentre si mordicchiava il labbro in attesa e gli feci l’occhiolino, complice, quando ricevetti la conferma dei nostri programmi.
Lui mi riservò un sorriso luminoso e per l’eccitazione prese a saltare sul materasso del letto, rischiando di sfondarlo.
Con un urlo, si precipitò verso l’armadio e comincio a buttare in maniera disordinata pullover, camicie e magliette sul letto, blaterando a più non posso e lamentando la scomparsa del suo trolley.
Ebbi appena il tempo di gridargli che avvertisse la mamma e non facesse troppo disordine, poi la valigia l’avrebbero fatta insieme loro due.
Annuì distrattamente mentre io, fiero di me stesso, mi avviavo in cucina serafico, e orgoglioso come un padre che ha riacquistato la fiducia del figlio.
Non mi era mai  capitato di sentirmi così bene.
Chi l’avrebbe mai detto che avere “figli” desse tante soddisfazioni?
Quando rimisi piede in cucina il coperchio dell’acqua era sul pavimento, i fornelli erano zuppi e sul pavimento c’era un lago.
Sulla segreteria Helena minacciava rappresaglie se non l’avessi richiamata, il mio cellulare emetteva dei bip intermittenti, segno che mi la mia casella di posta era piena e il gatto miagolava, aggirandosi intorno alla sua ciotola, palesemente affamato.
Ma non me importava niente, e mentre versavo a Junior i suoi croccantini al filetto di salmone sorridevo come un ebete.



***************




Angolo dell'autrice

Si, lo so, scado terribilmente nella fiction.  Ma non mi pento, pfui.
E poi volevo affrontare questo tema da un casino di tempo.
Come ci si sente ad essere il figlio di uno che ha una nomea ”compromettente”?
E nel caso di Brian oserei dire che è il minimo.
Pensate ai figli di Michael Jackson quando sono uscite le denunce per pedofilia…
Oppure a quelli di Rocco Siffredi (non ridete – non viene in mente altro ù.ù)  se per caso si imbattessero in uno dei film del padre…
Insomma c’è decisamente di peggio <.<
Così come chissà che colpo si prenderebbero se provassero a leggere le fiction a luci rosse che affollano i nostri fandom.
Aggiornamenti lumaca come sempre, non mi smentisco.

Neal C.


  
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