-BREEZE OF NUKA- Megaton. Pt.1
La zona contaminata non era niente male, non proprio come me l'aspettavo, in effetti. Non che la polvere per aria non mi desse fastidio, ragazzi, la odiavo, ma fino a quel momento non avevo trovato neanche uno di quei mutanti di cui tanto si parlava nel Vault. Lì, ora che ci penso, Amata mi aveva detto qualcosa riguardo enormi creature verdognole, brute, che sarebbero state capaci di freddarti con due colpi di fucile. Fino a quel giorno, ad ogni modo, incontrai solo cani feroci e ratti-talpa, e questo non sarebbe un problema se avessi saputo maneggiare una pistola come si deve. Mi resi conto solo a breve di quanto quelle cose fossero difficili da usare, per Dio. Forse papà avrebbe dovuto addestrarmi con vera 10mm, e non con un cazzo di fucile a pressione. Non ci uccidi neanche le mosche con un fucile a pressione. Il mio primo colpo l'ho sparato ad un ratto-talpa, per il quale ebbi a lungo il braccio sinistro menomato. Era arrivato di fretta, quello schifo di animale, con gli occhi iniettati di sangue. Era di un color roseo, come un se a venirmi incontro fosse stato un feto mutante, ancora imbrattato di liquido amniotico biancastro e sangue ormai rappreso, che creava una solida crosta sulla maggior parte del corpo; il sangue delle creature che uccideva brutalmente costituiva la sua corazza. Li uccideva a morsi e a graffi, e dopo averli ammazzati come si deve, quando ormai l'altro era disteso in una pozza cremisi, si prendeva ciò che era suo, come un bottino di guerra, la giusta ricompensa per un ottimo omicidio; da lontano potevo veder affondare gli artigli nelle corazze dei predatori e, dopo aver loro strappato gli abiti di dosso, avventarsi sui loro petti straziati dalle ferite, sudati e lerci, ricoperti da uno strato di polvere e fango, e avvinghiarsi ad essi coi denti, lacerando quella stessa carne, sradicandola letteralmente dai muscoli tesi. E poi masticavano, masticavano per interi minuti: enormi bocconi di deliziosa carne umana impregnata di sangue denso e scuro, che rimaneva impigliata, tra un morso e l'altro, nei giganteschi canini della bestia, che oramai grondavano, anch'essi, sangue.
Da lontano, per la prima volta, vidi il primo di una lunga serie di corpi morti e squarciati. Il torace aperto in due, come una sacca, con un taglio impreciso, come se da quella sacca avessero distrattamente tolto una toppa. Potevo vedere muscoli, carne e costole giacere sotto lo sguardo feroce di un ratto-talpa radioattivo, e brandelli di organi vitali a terra, senza vita, inutili, in vaste pozze di sangue pronto a coagularsi da un momento all'altro. Comunque, quel giorno faceva particolarmente caldo, giravo a vuoto da qualcosa come due giorni, o tre (non che tenessi il conto del tempo, che fosse stato sabato o mercoledì, non sarebbe cambiato un accidenti), ed in borsa non avevo assolutamente nulla, eccetto qualche boccone di carne radioattiva di cane, o di ratto-talpa. Una cena da signori, insomma. Avevo anche una dozzina di tappi, li avevo trovati da quelle parti, sfilati furtivamente dalle tasche di cadaveri qua e là. Solo una 10mm in mano, ancora un paio di ricariche. Ero un uomo morto, un cadavere che camminava per le vie distrutte della zona contaminata, l'odore della morte giungeva denso e reale alle mie narici, le infestava, mi faceva assaporare giorno dopo giorno l'acre sapore del mio decesso. Non ci sarebbero stati funerali, per me, il mio corpo non sarebbe stato né bruciato né tanto meno sepolto. Sarebbe stato lasciato a terra, divorato dalla polvere, costellato di morsi di strane bestie radioattive, decine di predatori avrebbero frugato nelle mie tasche in cerca di tappi, ami o munizioni, e a nessuno sarebbe importato di innalzare una lapide alle mie spalle, costruire una croce con miseri rametti di cespugli semi-bruciati. Pregustavo già le conseguenze del mio errore, la giusta punizione per aver lasciato il Vault. Sì, era così, me lo meritavo, mi meritavo la fame e la sete, mi meritavo l'odore della putrefazione nelle narici, mi meritavo i sassi negli anfibi che mi tagliavano e graffiavano le piante dei piedi. Ero stato solo un idiota, in realtà. “Eroe della zona contaminata” un cazzo, ero solo un profugo fuggiasco, che aspettava solo il giusto momento per venire ammazzato da chissà chi, con solo una 10mm e un pezzo insanguinato di carne di cane strappato dalla carcassa con le mie stesse mani ed avvolto in un brandello di stoffa color indaco dalla mia tuta del Vault. Quando vidi da lontano quel cartello di metallo arrugginito su cui era stato scritto qualcosa, a caratteri rossi e imprecisi, ero al culmine della spossatezza. Sentivo i muscoli pulsare tesi sotto la pelle, e la gola non era certo meno asciutta di quella terra arrida su cui ora camminavo. Avevo dormito sì e no tre ore in due giorni, ed il mio braccio sinistro , quasi insensibile, era gravemente ferito. Non avevo nulla di dolce con me, e se avessi avuto un calo di zuccheri -o peggio, se fossi svenuto- sarei diventato la cena di qualche cane feroce. Mi avvicinai a quel cartello con passo stanco, e lessi l'insegna: “MEGATON”. Mai sentito in vita mia, in realtà. Un nome in codice, forse? Accanto al cartello giaceva immobile una carcassa definitivamente decomposta di un animale che a colpo d'occhio non avrei saputo riconoscere, ma avvicinandomi allo scheletro -da cui pendeva ancora qualche striscia di carne grigiastra e qualche brandello di abito- misi a fuoco che quello non era né un cane, né un ratto-talpa, niente del genere: le proporzioni tra le ossa rimanenti della vittima fecero emergere i miei più lontani ricordi da studente del Vault, qualcosa che aveva a che fare con l'anatomia, evidentemente; quella cosa era un uomo, o almeno lo era stato, un tempo. Posai lo sguardo sulla scritta, le cui lettere erano state scritte ad inchiostro rosso, che andava via via sbiadendosi. Improvvisamente capii che neanche quello era inchiostro, ma semplicemente sangue. Sangue che probabilmente proveniva dal corpo dell'uomo (o della donna) ai piedi dell'insegna. Un brivido mi percosse la schiena, ed ebbi come l'istinto di impugnare la pistola tra le mie dita tremanti. Quindi era così che sarei diventato, pensai. Potrei essere io tra qualche mese. Sarò io, tra qualche mese.
Mi avvicinai per la seconda volta al cartello, e deglutii. Sotto la scritta “MEGATON” v'era un secondo simbolo quasi del tutto sbiadito, una freccia che mi avrebbe condotto a sud-ovest. Potevo rischiare o starmene là, aspettando di essere ammazzato da una qualsiasi creatura. “Un proiettile fa meno male di uno squarcio sullo sterno”, pensai subito. E poi, lì avrei potuto almeno sapere qualcosa riguardo papà. Forse era una città, e non un covo di predatori. Forse, però, “Megaton” potrebbe essere qualche nome in codice, potrebbe significare qualcosa come “Stai alla larga da qui”, o “Pericolo”. Tanto valeva tentare.
Alla sua storia seguì un momento di incessante ed imbarazzante silenzio. Avrei voluto dire qualcosa di appropriato, un “mi dispiace” o “vorrei poterti aiutare”,ma non dissi niente. Forse per vergogna, forse per pietà.
Un cigolio prolungato ed acutissimo anticipò l'apertura dell'enorme cancello.
Mi addentrai lentamente nella città, nella quale aleggiava un acre odore di acqua sporca e carne putrefatta. A primo impatto quel paesaggio mi ricordò quello delle antiche palafitte, ove le case erano collegate da sistemi di ponti e sentieri metallici che mi parevano assai precari rispetto all'avanzata tecnologia vault-tec. Per le strade vedevo tante, forse troppe persone per un posto così piccolo. Scesi lentamente la discesa ripidissima ai piedi del cancello, che portava al centro di Megaton. Un uomo di colore abbastanza maturo, con un enorme cappello da cow-boy in testa mi si avvicinò radiante, quasi euforico, e, quando fummo a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro , mi porse la mano.
Lentamente, superate le due casupole, mi avvicinai ad una rampa d'acciaio, che mi avrebbe -secondo le indicazioni di un colono- portato al “Saloon di Moriartry”. |
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