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Autore: JeremySpoken    17/01/2013    1 recensioni
"Il mio nome è Jeremy dal Vault 101, sto cercando mio padre. Hai per caso sentito parlare di un certo James?" Raccolta di capitoli riguardanti il viaggio, più o meno attinente all'originale nel videogioco, di Jeremy, il vagabondo reietto del Vault.
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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-BREEZE OF NUKA-

Chapter Two.

Megaton. Pt.1

 

 

 

 

La zona contaminata non era niente male, non proprio come me l'aspettavo, in effetti. Non che la polvere per aria non mi desse fastidio, ragazzi, la odiavo, ma fino a quel momento non avevo trovato neanche uno di quei mutanti di cui tanto si parlava nel Vault. Lì, ora che ci penso, Amata mi aveva detto qualcosa riguardo enormi creature verdognole, brute, che sarebbero state capaci di freddarti con due colpi di fucile. Fino a quel giorno, ad ogni modo, incontrai solo cani feroci e ratti-talpa, e questo non sarebbe un problema se avessi saputo maneggiare una pistola come si deve. Mi resi conto solo a breve di quanto quelle cose fossero difficili da usare, per Dio. Forse papà avrebbe dovuto addestrarmi con vera 10mm, e non con un cazzo di fucile a pressione. Non ci uccidi neanche le mosche con un fucile a pressione.

Il mio primo colpo l'ho sparato ad un ratto-talpa, per il quale ebbi a lungo il braccio sinistro menomato. Era arrivato di fretta, quello schifo di animale, con gli occhi iniettati di sangue. Era di un color roseo, come un se a venirmi incontro fosse stato un feto mutante, ancora imbrattato di liquido amniotico biancastro e sangue ormai rappreso, che creava una solida crosta sulla maggior parte del corpo; il sangue delle creature che uccideva brutalmente costituiva la sua corazza. Li uccideva a morsi e a graffi, e dopo averli ammazzati come si deve, quando ormai l'altro era disteso in una pozza cremisi, si prendeva ciò che era suo, come un bottino di guerra, la giusta ricompensa per un ottimo omicidio; da lontano potevo veder affondare gli artigli nelle corazze dei predatori e, dopo aver loro strappato gli abiti di dosso, avventarsi sui loro petti straziati dalle ferite, sudati e lerci, ricoperti da uno strato di polvere e fango, e avvinghiarsi ad essi coi denti, lacerando quella stessa carne, sradicandola letteralmente dai muscoli tesi. E poi masticavano, masticavano per interi minuti: enormi bocconi di deliziosa carne umana impregnata di sangue denso e scuro, che rimaneva impigliata, tra un morso e l'altro, nei giganteschi canini della bestia, che oramai grondavano, anch'essi, sangue.

Da lontano, per la prima volta, vidi il primo di una lunga serie di corpi morti e squarciati. Il torace aperto in due, come una sacca, con un taglio impreciso, come se da quella sacca avessero distrattamente tolto una toppa. Potevo vedere muscoli, carne e costole giacere sotto lo sguardo feroce di un ratto-talpa radioattivo, e brandelli di organi vitali a terra, senza vita, inutili, in vaste pozze di sangue pronto a coagularsi da un momento all'altro.
Vomitai. Non piansi, vomitai. Da lì a poco avrei ignorato le decine di busti aperti in due sulla mia strada, dando loro solo un'occhiata distratta, per poi derubarli altrettanto distrattamente. Ne avrei guadagnato poco, tutto sommato. Una dozzina di munizioni, un paio di tappi, di volta in volta qualche coltello, niente di interessante, ma pur sempre qualcosa di utile.

Comunque, quel giorno faceva particolarmente caldo, giravo a vuoto da qualcosa come due giorni, o tre (non che tenessi il conto del tempo, che fosse stato sabato o mercoledì, non sarebbe cambiato un accidenti), ed in borsa non avevo assolutamente nulla, eccetto qualche boccone di carne radioattiva di cane, o di ratto-talpa. Una cena da signori, insomma. Avevo anche una dozzina di tappi, li avevo trovati da quelle parti, sfilati furtivamente dalle tasche di cadaveri qua e là. Solo una 10mm in mano, ancora un paio di ricariche. Ero un uomo morto, un cadavere che camminava per le vie distrutte della zona contaminata, l'odore della morte giungeva denso e reale alle mie narici, le infestava, mi faceva assaporare giorno dopo giorno l'acre sapore del mio decesso. Non ci sarebbero stati funerali, per me, il mio corpo non sarebbe stato né bruciato né tanto meno sepolto. Sarebbe stato lasciato a terra, divorato dalla polvere, costellato di morsi di strane bestie radioattive, decine di predatori avrebbero frugato nelle mie tasche in cerca di tappi, ami o munizioni, e a nessuno sarebbe importato di innalzare una lapide alle mie spalle, costruire una croce con miseri rametti di cespugli semi-bruciati.

Pregustavo già le conseguenze del mio errore, la giusta punizione per aver lasciato il Vault. Sì, era così, me lo meritavo, mi meritavo la fame e la sete, mi meritavo l'odore della putrefazione nelle narici, mi meritavo i sassi negli anfibi che mi tagliavano e graffiavano le piante dei piedi. Ero stato solo un idiota, in realtà. “Eroe della zona contaminata” un cazzo, ero solo un profugo fuggiasco, che aspettava solo il giusto momento per venire ammazzato da chissà chi, con solo una 10mm e un pezzo insanguinato di carne di cane strappato dalla carcassa con le mie stesse mani ed avvolto in un brandello di stoffa color indaco dalla mia tuta del Vault.

Quando vidi da lontano quel cartello di metallo arrugginito su cui era stato scritto qualcosa, a caratteri rossi e imprecisi, ero al culmine della spossatezza. Sentivo i muscoli pulsare tesi sotto la pelle, e la gola non era certo meno asciutta di quella terra arrida su cui ora camminavo. Avevo dormito sì e no tre ore in due giorni, ed il mio braccio sinistro , quasi insensibile, era gravemente ferito. Non avevo nulla di dolce con me, e se avessi avuto un calo di zuccheri -o peggio, se fossi svenuto- sarei diventato la cena di qualche cane feroce. Mi avvicinai a quel cartello con passo stanco, e lessi l'insegna: “MEGATON”. Mai sentito in vita mia, in realtà. Un nome in codice, forse? Accanto al cartello giaceva immobile una carcassa definitivamente decomposta di un animale che a colpo d'occhio non avrei saputo riconoscere, ma avvicinandomi allo scheletro -da cui pendeva ancora qualche striscia di carne grigiastra e qualche brandello di abito- misi a fuoco che quello non era né un cane, né un ratto-talpa, niente del genere: le proporzioni tra le ossa rimanenti della vittima fecero emergere i miei più lontani ricordi da studente del Vault, qualcosa che aveva a che fare con l'anatomia, evidentemente; quella cosa era un uomo, o almeno lo era stato, un tempo. Posai lo sguardo sulla scritta, le cui lettere erano state scritte ad inchiostro rosso, che andava via via sbiadendosi. Improvvisamente capii che neanche quello era inchiostro, ma semplicemente sangue. Sangue che probabilmente proveniva dal corpo dell'uomo (o della donna) ai piedi dell'insegna. Un brivido mi percosse la schiena, ed ebbi come l'istinto di impugnare la pistola tra le mie dita tremanti. Quindi era così che sarei diventato, pensai. Potrei essere io tra qualche mese. Sarò io, tra qualche mese.

Mi avvicinai per la seconda volta al cartello, e deglutii. Sotto la scritta “MEGATON” v'era un secondo simbolo quasi del tutto sbiadito, una freccia che mi avrebbe condotto a sud-ovest. Potevo rischiare o starmene là, aspettando di essere ammazzato da una qualsiasi creatura. “Un proiettile fa meno male di uno squarcio sullo sterno”, pensai subito. E poi, lì avrei potuto almeno sapere qualcosa riguardo papà. Forse era una città, e non un covo di predatori. Forse, però, “Megaton” potrebbe essere qualche nome in codice, potrebbe significare qualcosa come “Stai alla larga da qui”, o “Pericolo”. Tanto valeva tentare.
Iniziai a camminare in quella direzione, e in una dozzina di minuti mi ritrovai in cima all'ennesimo pendio; da lì potevo vedere qualcosa, e quella cosa assomigliava vagamente a un recinto metallico, come un campo di concentramento, come un covo di schiavisti, o chissà che altro. Impugnai saldamente la pistola, e furtivamente mi avvicinai ancora e ancora.
disse una voce alle mie spalle. Mi voltai puntando la pistola a quello che -nella mia testa- era un predatore, uno schiavista, un assassino, un pazzo criminale pronto a farmi saltare la testa con un colpo di fucile a doppia canna, o a spezzarmi tutte le ossa con una mazza da baseball. Ma alle mie spalle non c'era niente. Un gemito attirò la mia attenzione, ed abbassai al testa verso il luogo da dove provenivano i versi. Appoggiato a una roccia, vestito di cenci e con una folta barba grigiastra incrostata di sangue e fango, un uomo ricoperto di ferite, croste e graffi, magro e pallido, le cui palpebre sembravano più pesanti della mia borsa, quando la riempivo di carne radioattiva.
fu l'unica risposta che riuscii a dare, sudando, sempre tenendo ben salda la pistola, puntandola ora verso la fronte del vecchio, ora verso ovest, dove sorgeva il recinto metallico.
La sua voce usciva con rancore da un paio di labbra sottili e screpolate, secche più di una duna di sabbia in pieno deserto. Ebbi pietà, per un istante, e gli credetti, eccome se gli credetti. Non sembrava certo uno pronto a sfoderare un'arma ad energia e farti fuori, tutt'altro.
Abbassai la pistola, ma non dissi nulla.



tutte le mie bottiglie vuote di Nuka-Cola, da cui era stato sottratto ogni singolo tappo. Scongiurai Simms di farmi restare da lui, o per lo meno nella Common House, eravamo grandi amici, e lui sarebbe stato consenziente, se solo Moriarty non lo avesse convinto che tutto quello avrebbe portato scompiglio, che per aiutare un misero stronzo come me avrebbe mandato a repentaglio la salvezza di tutta la città: lo persuase che se mi avesse lasciato stare gratuitamente alla Common House, o peggio in casa sua, tutti i suoi clienti avrebbero lasciato le proprie stanze, e avrebbero preteso lo stesso trattamento, ovvero vitto e alloggio senza sborsare un tappo. Simms sapeva che Moriarty era un bastardo, eccome se lo sapeva, ma la salute della sua amata cittadina gli stava a cuore più di qualsiasi altra cosa. “Meglio non rischiare”, pensò, e mi cacciò da Megaton. ..Ed eccomi qua.>

Alla sua storia seguì un momento di incessante ed imbarazzante silenzio. Avrei voluto dire qualcosa di appropriato, un “mi dispiace” o “vorrei poterti aiutare”,ma non dissi niente. Forse per vergogna, forse per pietà.

chiesi d'un tratto, poiché dalle vicende avevo appreso solo che quest'uomo era il proprietario di un Saloon, ed affittava stanze ai cittadini.

A quel racconto seguì l'ennesima imbarazzante pausa silenziosa, interrotta solo dal tintinnio di quella dozzina di tappi che tenevo in tasca. Ancora più imbarazzante, dal momento che innanzi a me c'era un nullatenente, ed io non avevo certo l'intenzione di lasciare una mancia per le sue storielle.
conclusi infine
domandò lui appena interessato, allungando il collo come per sentirmi meglio
Annuii sinceramente grato, e agitai automaticamente la mano, dicendo “ciao”.
mi interruppe lui
Sorrisi meccanicamente. L'informazione non mi avrebbe fruttato niente, solo tempo perso, pensai. mi limitai a rispondere. .
Neanche un paio di minuti, e mi ritrovai davanti alle due grandi porte di metallo arrugginito, che cigolavano solo a sfiorarle. Feci per bussare inutilmente, ed abbastanza scioccamente, quando un robot d'acciaio con una luce viola in cima al capo si avvicinò, iniziando a borbottare qualcosa come “Puoi bere”, “Moriarty”, “Armeria”. ordinai seccato, tentato dallo sprecare i miei ultimi colpi per trasformare quel robot in uno scolapasta.

Un cigolio prolungato ed acutissimo anticipò l'apertura dell'enorme cancello.

Mi addentrai lentamente nella città, nella quale aleggiava un acre odore di acqua sporca e carne putrefatta. A primo impatto quel paesaggio mi ricordò quello delle antiche palafitte, ove le case erano collegate da sistemi di ponti e sentieri metallici che mi parevano assai precari rispetto all'avanzata tecnologia vault-tec. Per le strade vedevo tante, forse troppe persone per un posto così piccolo. Scesi lentamente la discesa ripidissima ai piedi del cancello, che portava al centro di Megaton. Un uomo di colore abbastanza maturo, con un enorme cappello da cow-boy in testa mi si avvicinò radiante, quasi euforico, e, quando fummo a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro , mi porse la mano.
cominciò

dovuto lasciarlo subito dopo di lui, perchè il sovrintendente mi stava, ecco, dando la caccia. Non ho che una decina di tappi e un paio di pezzi semi putrefatti di carne radioattiva delle bestie che ho trovato qui fuori. Non chiedo una fissa dimora, solo di poter essere curato. Sono disposto a vendere tutto ciò che ho pur di racimolare qualche tappo.>


lo interruppi subito avrei continuato per interi minuti, se qualcosa non mi avesse distratto. Scostai la testa, osservando ciò che c'era dietro l'enorme cappello di Lucas Simms: un'enorme bomba nucleare al centro della città, dentro a un fosso di uno o due metri al massimo, completamente pieno d'acqua, ed un uomo vestito di cenci ai piedi dell'ordigno, intento a.. inginocchiarsi, e dire cose che al momento non capii, qualcosa come “Chiesa dell'atomo”, “Bambini”, “Splendente”. Nulla di riconducibile alla bomba, comunque.
mi domandò confuso il cow-boy, voltandosi anch'egli verso la bomba. Eppure lui non pareva né particolarmente sorpreso, né tanto meno spaventato.


accennò ad una risata sinceramente divertita, mentre io lo guardavo sconcertato: come poteva tutto quello sembrargli normale? continuò


Si interruppe di colpo, e deglutii. Si fece avanti, avvicinandosi ulteriormente a me, per poi poggiarmi una mano sulla spalla, con fare da padre apprensivo.
Non fidarti, per nessunissima ragione al mondo devi fidarti di quella carogna. Potrai vedere tu stesso come quel pazzo ubriacone tratta i suoi dipendenti, Nova e Gob. Povere anime, soffro solo a pensare che due abitanti della mia città possano patire certi dolori. Ma non posso fare nulla a riguardo: Moriartry è seriamente convinto di avere il potere, qui, solo per il suo giro di armi, puttane e droghe. Lo lascerò nella sua convinzione fino a che non me ne stancherò, perchè se c'è un capo, qui a Megaton, quel capo sono io, lo Sceriffo Lucas Simms.> Concluse con un sorriso radiante, da vero leader, e mi diede un'altra pacca sulla spalla, come per incoraggiarmi. Ci salutammo a dovere, con una stretta di mano ed un “ci vediamo”, quindi mi incamminai verso i piedi della discesa. Avevo le gambe a pezzi, e l'unica cosa che desideravo era sedermi o coricarmi in un vero letto. Se ben ricordavo, per scopare con quella Nova ci volevano 120 tappi. Assaporai piano con l'immaginazione la prospettiva di una serata con la donna: sesso e sonno, tutto per 120 tappi, un affare, se solo li avessi avuti, tutti quei soldi. Mi ripromisi di andare da lei, non appena avessi guadagnato abbastanza. Mentre nella mia testa figuravo la donna -che immaginai con lunghi capelli rossi ed una divisa da mercenario strappata, utile a coprire solo il minimo indispensabile-sbottonarsi la camicetta color cachi e slacciarsi la cintura di cuoio, arrivai ai pendii di quella che ormai, alle mie spalle, era diventata una salita, e scorsi subito l'insegna “La Lanterna D' Ottone”, ed il bramino rossastro dall'altro lato della piazzetta, ai piedi di una piccola baracca metallica ornata di un cartello: “Clinica”.

 

 

Lentamente, superate le due casupole, mi avvicinai ad una rampa d'acciaio, che mi avrebbe -secondo le indicazioni di un colono- portato al “Saloon di Moriartry”.

 

  
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