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Autore: Glirnardir    21/01/2013    0 recensioni
Quel famoso scontro all'ultimo sangue tra Éomer e Uglúk, visto dalla prospettiva di Uglúk.
Storia completa.
Questa storia non è mia. Io l'ho semplicemente tradotta per farvi conoscere la meravigliosa autrice Soledad. Per chi fosse interessato alla versione originale, la trovate qui: http://www.fanfiction.net/s/2326629/1/Last-Stand
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eomer, Uruk-hai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte 3

     Non dovettero aspettare molto a lungo. Presto, grida improvvise provenienti dalla parte orientale del colle li avvertirono che qualcosa non andava. Uglúk dovette precipitarsi per vedere che cosa fosse accaduto… e lanciò una violenta imprecazione. Una mezza dozzina di Orchi della marmaglia di Grishnákh giacevano sull’erba in un cumulo sanguinolento.
     “Pare che le ‘sentinelle’ abbiano preferito riposare piacevolmente, anziché montare di sentinella,” commentò Bagdreg con sguardo accigliato.
     “E parrebbe anche, comunque, che i luridi Pellebianchi non si accontentino di aspettare l’alba lasciandoci riposare,” soggiunse fosco Thraknazh. “Alcuni di loro devono essersi avvicinati al colle e, smontando dalle loro bestie, aver strisciato sino all’orlo del nostro campo e ucciso parecchi di quei maledetti idioti. Che razza di sentinelle.”
     “Ebbene, ormai non ci si può fare più niente,” disse Uglúk con un’alzata di spalle. “Comunque sarebbe meglio prepararsi per un attacco.”
     Thraknazh si allontanò di corsa, elargendo frustate a destra e a manca, non badando a ciò che gli capitava di colpire con le cinghie crudeli. Un po’ di dolore andava sempre bene per tenere i ragazzi sul chi vive. In un lasso di tempo incredibilmente breve, riuscì a disporre le truppe in una formazione accettabile, perfino quegli stramaledetti ratti di Lugbúrz. Quindi si guardò intorno con aria sospettosa, rendendosi conto di aver incontrato molta meno opposizione del previsto.
     “Dov’è Grishnákh?” domandò.
     Seguì un momento d’impacciato silenzio, ma subito dopo si poté udire un orribile urlo roco - l’ultimo grido di un Orco morente, se mai ne avevano udito uno. Dopodiché il silenzio tornò a regnare incontrastato - finché qualcuno si mise a strillare.
     “I prigionieri! Sono scomparsi!”
     Uglúk si precipitò verso il luogo ove aveva lasciato i prigionieri in custodia di Bâshdhul. Con suo totale sgomento, i Mezzuomini erano davvero scomparsi, e quell’inutile femmina giaceva a terra, morta. Uccisa da un pugnale di Lugbúrz, a giudicare dalla foggia.
     “Questa è opera di Grishnákh.” Uglúk digrignò i denti. “Quel dannato ratto li ha portati via. E noi non possiamo seguirlo e ucciderlo.”
     “Non sarà necessario,” disse Azdreg. “L’hanno ammazzato i Pellebianchi. Quell’urlo di prima era suo. È stato messo sotto da un cavallo e ucciso da una lancia, poco lontano dall’accampamento.”
     “E i prigionieri?” domandò cupamente Uglúk.
     Azdreg scosse la testa. “Scomparsi senza lasciare traccia. Forse li hanno presi i Pellebianchi; in ogni caso non saprebbero che farsene.”
     No, pensò Uglúk, i cavalieri non avrebbero saputo che cosa cercare. Non lo sapeva nessuno, eccetto lo stregone. E Uglúk, beninteso, che era al corrente dei segreti di Saruman più di quanto lo stregone potesse immaginare. Saruman era astuto, ma non così astuto come pensava. Non certo astuto al punto di tenere i propri segreti celati a un Uruk-hai curioso.
     Ahimè, quella consapevolezza lo aiutava ben poco in quel momento, poiché era appena riuscito a perdere esattamente ciò di cui lo stregone aveva tentato d’impossessarsi. Per non parlare del fatto che erano ancora in trappola. Una trappola priva di scampo, a meno che non fosse sopraggiunto un aiuto esterno.
     Nuove urla e strilli, provenienti da destra, da oltre il cerchio di falò dei Pellebianchi, in direzione della minacciosa foresta, lo riscossero dalle sue cupe riflessioni. Thraknazh tornò indietro a gran carriera, gli occhi gialli che rilucevano di eccitazione.
     “Mauhúr è arrivato,” riferì, “e sta attaccando i Pellebianchi. Ecco la nostra occasione per contrattaccare! Ora!”
     Uglúk annuì, perfettamente d’accordo, e sbraitò qualche ordine ben piazzato, ma i suoi sforzi furono vani. Tutti imbracciarono le armi e si gettarono all’attacco, disorganizzati e del tutto privi di disciplina. Eccezion fatta per la ventina di Uruk-hai bene addestrati, beninteso. O in ogni caso, di quel che ne restava.
     Tuttavia, per breve tempo, Uglúk sperò che sarebbero riusciti ad aprirsi un varco. Fin quando non udì uno scalpitio di zoccoli al galoppo. A quanto pareva i Pellebianchi non avevano la benché minima intenzione di lasciare sopravvissuti, e pur di conseguire questo fine si arrischiavano addirittura a farsi colpire dalle frecce degli Orchi.
     “Stanno stringendo il cerchio sempre di più,” disse Azdreg. “Non riusciremo ad allontanarci… quei maledetti cavalli sono veloci. Anche più veloci di noi.”
     “Che fine hanno fatto Mauhúr e i suoi ragazzi?” chiese Uglúk, mentre un senso di terrore cresceva sempre più nel suo stomaco.
     “Una compagnia di cavalieri si è distaccata per affrontarli,” rispose Azdreg in tono tetro. “Non mi piace, Uglúk.”
     “Non piace neanche a me,” replicò Uglúk, “ma pare che al momento non sia possibile sferrare un attacco. Quanti imbecilli di Grishnákh si sono fatti ammazzare?”
     “Una dozzina, più o meno. E quando si alzerà il Sole…” Azdreg tacque. Non era necessario aggiungere altro. Sapevano entrambi che cosa dovevano aspettarsi. La notte si stava già facendo vecchia. Non sarebbe durata ancora a lungo. A Oriente il cielo che le nubi avevano lasciato limpido incominciava a impallidire.
     “Che silenzio,” ringhiò Uglúk dopo un certo tempo. “Non sento più il rumore dei combattimenti.”
     “Io neanche,” rispose Thraknazh, abbattuto. “A quanto pare Mauhúr e i suoi ragazzi si sono fatti uccidere o mettere in fuga.”
     “Lui non ordinerebbe mai una ritirata.” Uglúk chiuse gli occhi per un istante; la perdita di un alleato così prezioso era devastante. “Se gli scontri sono finiti, vuol dire che sono morti.”
     “E lo saremo anche noi, molto presto,” disse Thraknazh. “Quando spunterà il Sole, i vermiciattoli e i ratti di Lugbúrz perderanno ogni loro utilità. E noi non siamo più in numero sufficiente da respingere una così gran compagnia di cavalieri. Lo sai anche tu.”
     “Certo,” disse Uglúk annuendo. “Ma ci batteremo strenuamente. Dobbiamo tenerli occupati il più a lungo possibile, ucciderne quanti possiamo. Le femmine hanno bisogno di un buon vantaggio. Domani saranno tutto ciò che rimarrà di noi. Loro, e i cuccioli che si portano nel ventre.”
 
 
     In quel preciso istante, al di là del Grande Fiume e delle Terre Brune, sorse il rosso bagliore dell’alba, simile al fuoco delle più profonde fornaci. Tutt’intorno all’altura, suonarono i grandi corni dei cavalieri, chiamandosi e rispondendosi, e vi fu un improvviso movimento al di là dei falò. Si udì un nitrito di cavalli da guerra, e all’improvviso i cavalieri intonarono un canto nel loro idioma - una lingua lenta e morbida che gli Orchi inferiori non comprendevano, a differenza degli Uruk-hai, istruiti dallo Stregone Bianco, che aveva insegnato loro tutto ciò che poteva essere utile.
 
                   Dal dubbio e dalle tenebre verso il giorno galoppai,
                   E cantando al sole la spada sguainai,
                   Svanita ogni speme, lacero è il cuore:
                   Ci attende la collera, la rovina e il notturno bagliore!
 
     Così cantavano i cavalieri, lo stesso canto che i loro antenati avevano intonato per anni e anni, risalendo sino all’epoca in cui dimoravano presso le sorgenti dell’Anduin, nel lontano Nord. Erano un popolo crudele, e la furia della battaglia ardeva incandescente nei loro cuori, così come ardeva in quelli dei loro avi sin dagli albori della loro razza.
     Per quanto improbabile potesse sembrare, il fuoco di questo canto toccò qualcosa di profondamente sepolto nell’animo di Uglúk. Egli discendeva da una stirpe mescolatasi al sangue dei cavalieri, quando Saruman aveva incominciato a creare le nuove generazioni di Uruk-hai. Non sentiva alcuna affinità di sangue nei confronti dei luridi Pellebianchi, non più di quanta sentisse di averne con i maledetti Elfi - eppure, assai stranamente, lo sfacciato canto dei suoi nemici gli infuse un vigore decisamente necessario. Lo riempì di un fuoco ch’egli credeva ormai estinto.
     Il Sole strisciò sempre più alto nel cielo orientale, e i suoi raggi s’innalzarono sopra le loro teste come un arco di fuoco - come un cattivo auspicio, un presagio di morte. Le note della canzone si spensero, e una voce possente si levò dai cavalieri, gridando nella loro antica lingua:
 
                   Arísath nú Rídend míne!
                   Théodnes thegnas thindath on orde!
                   Féond oferswithath! Forth Eorlingas!
                   
     Con quest’ultimo grido risonante, i cavalieri si gettarono alla carica da Est. La luce rossa dell’alba sfavillava sulle punte di lancia e sulle cotte di maglia come sangue appena versato. Uglúk trasse un profondo respiro, e il suo ampio petto si riempì di trepidazione. Se questa doveva essere la sua ultima battaglia, era pronto a cadere combattendo - e portando con sé tutti i Pellebianchi che fosse riuscito a uccidere.
     I vermiciattoli delle montagne e i ratti di Lugbúrz, naturalmente, impazzirono dal terrore nell’istante in cui venne sferrato l’attacco, scoccando a casaccio le ultime frecce rimaste. E non colpendo altro che le cotte di maglia degli Uomini, sulle quali tutti i dardi scagliati da lontano rimbalzavano innocui.
     Gli arcieri degli Uruk-hai, capeggiati da Ashluk, il migliore arciere fra loro, aspettarono gli ordini, tendendo i grandi archi con le frecce incoccate.
     “Uccidete prima i cavalli,” ordinò Uglúk, “così non potranno travolgerci. In uno scontro corpo a corpo il vantaggio è nostro. Siamo più forti di loro.”
     Gli arcieri annuirono e scoccarono le frecce dalla punta di ferro. Parecchi di quei magnifici cavalli furono colpiti; s’impennarono e caddero, stramazzando nel fango e disarcionando i cavalieri. Altri non riuscirono a fermarsi in tempo e inciamparono su di essi, spezzandosi le gambe. Alcuni cavalieri caddero di sella; le frecce dell’abile Ashluk trovavano sempre il loro bersaglio tra l’elmo e la cotta di maglia, andando a conficcarsi infallibili nella gola di un Uomo dopo l’altro.
     Eppure la schiera si mantenne in perfetta formazione, galoppando sino alla vetta del colle, scendendo dal lato opposto, incrollabili tanto i cavalli quanto i cavalieri, che quindi voltarono su se stessi e ripartirono all’assalto. La maggior parte dei Nordiani e dei codardi di Lugbúrz - quelli ancora vivi, beninteso - cedettero alla vista del muro vivente, costituito da armature e da punte di lancia, che muoveva rapido verso di loro. Compirono un vano tentativo di fuga, correndo in direzioni diverse, ma quasi tutti allontanandosi dalla foresta ove Mauhúr e le sue truppe avevano trovato la morte. I cavalieri, tuttavia, parevano decisi a non permettere loro la fuga. Ruppero la formazione, mettendosi in tre o in quattro alle calcagna di ciascun gruppetto degli Orchi fuggitivi, inseguendoli uno per uno sino alla morte.
 
 
     “Forse questa è la nostra occasione,” disse Uglúk. “Sono soltanto in tre che ci sbarrano la strada. Muovetevi, mentre gli altri sono impegnati a dar la caccia a quei vermi!”
     Il gruppo ridotto degli Uruk-hai si era mantenuto unito a forma di cuneo nero, spingendosi risoluto in direzione della foresta. Ora si lanciarono alla carica, precipitandosi su per il pendio e avventandosi contro le sentinelle. I Pellebianchi avevano una vista sensibilissima e un buon udito, ma gli Uruk-hai si muovevano con le ombre che ancora ammantavano il terreno, e quando una delle sentinelle li scorse, ormai era troppo tardi.
     “Gárulf! Attento!” gridò il giovane Uomo, prima che una freccia di Ashluk lo centrasse in piena gola.
     L’Uomo al centro non esitò più a lungo di un battito cardiaco, ma fu sufficiente perché Grothrásh si scagliasse contro il cavallo della terza sentinella, quella a destra, investendolo con tutto il peso della sua enorme massa. Il cavallo - più piccolo e leggero dei tipici destrieri da guerra del Mark, benché di temperamento focoso - non riuscì a reggere l’impatto. Perse l’equilibrio e s’impennò, disarcionando il suo giovanissimo cavaliere. Il Massacratore superò il cavallo con un balzo e spaccò in due la testa del giovane Uomo, ossa ed elmo in un sol colpo.
     L’Uomo di nome Gárulf, reso folle e disperato dal proprio fallimento nel salvare il giovane compagno, incitò il destriero da guerra con un grido strozzato. “Avanti, Hasufel!”
     Come comprendendo le parole, la grande bestia color grigio scuro s’impennò sulle zampe posteriori emettendo un possente nitrito, quindi si lasciò ricadere sull’Uruk-hai che aveva Uruk-hai davanti a sé. Gli zoccoli colpirono Grothrásh in pieno torace, spezzandogli le costole con un tonfo impressionante. L’Uomo si chinò sul collo del cavallo, girando la lancia affinché la punta fosse rivolta verso il basso, e afferrando l’impugnatura con ambedue le mani, vibrò un violento affondo. Seguì un grido aspro e presto concluso, e un istante più tardi il fedele, ottuso Massacratore era morto.
     Uglúk lanciò un ululato inferocito. Prima Mauhúr e tutti i suoi ragazzi, e adesso Grothrásh, il suo più vicino alleato e sostenitore… quand’anche fosse riuscito miracolosamente a fuggire, non avrebbe mai riottenuto i suoi antichi poteri. Ma non era quello il momento di rimpiangere l’autorità perduta. In quel momento non avevano che un semplice obiettivo: sopravvivere. Afferrando la lancia di un cavaliere caduto, Uglúk la piantò nel petto dell’Uomo di nome Gárulf, trafiggendo cotta di maglia, carne e osso con forza talmente brutale da far uscire nuovamente la punta attraverso le scapole del cavaliere.
     L’Uomo cadde di sella, e il cavallo, spaventato dall’odore del sangue, fuggì nitrendo di terrore, seguito dal destriero più piccolo e leggero. Uglúk abbassò lo sguardo sul corpo spezzato che giaceva ai suoi piedi e osservò l’Uomo morire.
     Fu una sensazione indescrivibilmente piacevole.
     Ma il grido dell’Uomo più giovane aveva ormai allertato gli altri Pellebianchi che qualcosa non andava presso i margini della foresta. Già gli zoccoli delle grandi bestie tuonavano intorno a loro, e presto furono raggiunti e privati di scampo proprio al limitare dei tetri boschi incombenti, la loro unica possibile via di fuga.
     Ma ormai non era più possibile fuggire. Tutti i suoi ragazzi, eccetto tre, erano già morti, e pochi fortunati erano riusciti a superare il cerchio dei cavalieri e stavano ora tentando disperatamente di fuggire. Riconobbe tra essi il fido Azdreg, e anche Thraknazh, il mastro aguzzino. L’istinto di sopravvivenza aveva finalmente soverchiato la loro radicata lealtà nei confronti del capo.
     Uglúk non li biasimava. Avrebbe fatto lo stesso, se si fosse trovato al posto loro. E se fosse riuscito a tenere occupati i Pellebianchi ancora per qualche tempo, se fosse riuscito a dar loro un buon vantaggio di partenza, forse ce l’avrebbero fatta.
     Affiancato da Krumghash e Skarburz, i due soli rimasti a guardargli le spalle, Uglúk si voltò a fronteggiare i nemici, cercando un modo per ritardare l’inevitabile, per guadagnare tempo affinché i suoi ragazzi fuggiti riuscissero a fuggire. Decise di affidarsi al bizzarro concetto che i Pellebianchi chiamavano ‘onore’.
     Osservando gli Uomini dall’aspetto fastidiosamente simile - tutti alti, dalle lunghe membra e dai capelli biondi, con occhi azzurri come il ghiaccio e volti pallidi, vestiti di cotte di maglia brunite, le lunghe ciocche coperte da elmi leggeri - distinse fra essi quello che doveva essere il capo. L’Uomo era alto più di tutti gli altri, e una bianca coda di cavallo spioveva dal suo elmetto dorato a guisa di criniera.
     “Tu,” ringhiò nella lingua dei cavalieri, “sei tu il capo di questa banda di ribelli e assassini?”
     Per quanto gli Uomini fossero meravigliati di udire il loro idioma nella bocca di quello che ai loro occhi non era altro che un mostro orrendo e malvagio, il loro stupore si tramutò presto in collera davanti alla formulazione della domanda. Ma il loro presunto capo li mise a tacere con una mano alzata.
     “E quand’anche lo fossi?” chiese, e Uglúk riconobbe la voce forte e limpida che aveva lanciato il possente grido di battaglia all’inizio della carica. Era un magnifico esemplare maschio, secondo i canoni degli Uomini - di costituzione robusta quasi quanto quella di un Uruk-hai, e di statura perfino un po’ più alta.
     “In quel caso ti sfiderei a duello, spada contro spada,” disse Uglúk. “Soltanto tu e io - o forse non sei provvisto dell’onore di cui si vanta la tua gente, e non hai il coraggio di scontrati con il capo dei tuoi nemici?”
     Esprimersi nella lingua ampollosa dei Pellebianchi era difficile per Uglúk, abituato com’era allo stile aspro e alla rapida cadenza della propria razza. Ma ne era capace, in caso di necessità, ed era l’unico modo per far sì che l’Uomo lo ascoltasse. Dubitava che in seguito avrebbe avuto modo di preoccuparsi per un possibile mal di testa.
     “Perché dovrei volerlo fare?” domandò l’Uomo. “Ormai vi abbiamo sconfitti, e potremmo comodamente abbattervi con le nostre frecce. Perché sprecare il mio tempo e correre un simile rischio?”
     Uglúk scrollò le spalle possenti. “Pensavo che i cavalieri del Mark fossero tenuti ad accettare una sfida onorevole.”
     A queste parole, gli Uomini scoppiarono a ridere e gli rivolsero sguardi pregni di disgusto.
     “Non vorrai certo accettare una sfida da questa… questa immonda creatura, mio Signore, vero?” domandò il cavaliere alla destra del capo. “Desidera solo far guadagnare tempo alla sua banda - che in questo momento noi dovremmo inseguire.”
     “È possibile,” disse il capo, “ma questa è una sfida al mio onore, Éothain. Non posso sottrarmi.”
     “Onore,” sbuffò l’altro Uomo, e nei suoi occhi avvampò una scintilla di odio. “Gli Orchi non hanno alcun onore, mio Signore! Sono canaglie, vermi, nient’altro.”
     “Forse è vero che non hanno onore,” replicò il capo. “Ma noi sì  - o perlomeno dovremmo averne. Persino nei confronti d’un Orco.”
     “Io non sono un Orco qualsiasi,” grugnì Uglúk, sentendosi giustamente insultato. “Sono Uglúk, capo degli Uruk-hai lottatori, Capitano di Isengard e Primo Guerriero della Bianca Mano.”
     “Vedo che al giorno d’oggi vi date titoli altisonanti,” disse il capo degli Uomini, scuotendo la testa con aria divertita. “Molto bene, allora, sia pure come desideri. Io, Éomer figlio di Éomund, Terzo Maresciallo del Riddermark, accetto la tua sfida.”
     Con queste parole smontò di sella, consegnò le redini del suo grande stallone da guerra nelle mani dell’altro Uomo, quell’Éothain, e sguainò la spada.
     Uglúk era un po’ stordito. Non aveva certo immaginato di trovarsi davanti a un parente del vecchio Re in persona. Inoltre il nome di Éomer era ben noto a Isengard, e di lui si diceva che fosse un feroce guerriero. Ma Uglúk non aveva alcuna preoccupazione riguardo al proprio destino. Sapeva che né lui né Krumghash né Skarburz si sarebbero allontanati vivi. Gli Uomini non li avrebbero lasciati fuggire, anche se fosse riuscito ad avere la meglio su Éomer. Tutto ciò che poteva fare era guadagnare tempo per gli altri.
     “Dovremmo catturarli, mio Signore,” disse l’Uomo di nome Éothain. “Conosceranno certo molte cose su Isengard e sulle sue forze che potrebbe tornarci utili.”
     “No,” rispose Éomer, “non ci direbbero niente. Forse non conoscono l’onore come lo intendiamo noi, ma ritengo che sentano comunque dei vincoli. E in caso contrario, lo stregone avrà certo gettato su di loro un incantesimo.” Si rivolse a Uglúk con la sua lunga spada splendente. “Bene, Uglúk - facciamola finita.”
     Uglúk impugnò lo spadone e si tuffò all’attacco senza alcun preavviso. Se voleva far sì che il duello fosse il più lungo possibile, doveva ottenere l’iniziativa. Ciò si rivelò presto un vantaggio, poiché gli permise di guadagnare sempre più terreno sull’Uomo, costringendolo a compiere mezzo giro nello spazio aperto vicino ai boschi sul quale si battevano. Il cerchio dei cavalieri non si mosse, sorvegliando il perimetro e la preda, affinché Krumghash e Skarburz non potessero fuggire.
     Uglúk ed Éomer lottavano costantemente per avere la schiena rivolta verso il Sole sorgente, di modo che l’astro abbagliasse gli occhi dell’avversario; e così compirono numerose giravolte per conquistare la posizione più vantaggiosa. Uglúk aveva il vantaggio di una forza superiore e di braccia più lunghe, ma anche l’Uomo era forte e abile, e inoltre molto più veloce di lui. L’Uruk cominciò a stancarsi, e nel suo stomaco riprese a formarsi lo spaventoso presagio di una morte incombente.
     Lo scontro fu lungo e spietato. I disperati affondi, frequentemente mirati da entrambe le parti, avrebbero rivelato persino al più inesperto degli spettatori che i due combattenti desideravano una sola cosa: uccidersi. Dapprima i cavalieri tentarono d’incitare Éomer, ma uno dopo l’altro ricaddero nel silenzio, come ipnotizzati dalla dura lotta senza quartiere che si svolgeva innanzi ai loro occhi. Uglúk sentiva il braccio destro farsi sempre più pesante, e capì che presto sarebbe finita.
     Tutt’a un tratto, Éomer si scagliò in un affondo; Uglúk riuscì a stento ad alzare la spada per opporsi all’attacco. Arretrò con un balzo per la prima volta dall’inizio dello scontro, per ottenere qualche attimo di tregua. Ma in quel momento il suo piede scivolò sull’erba pregna di sangue, ed egli inciampò in avanti, verso l’Uomo, che prontamente sollevò la spada e gli trafisse il petto, passandolo da parte a parte. Il tutto accadde così velocemente che il dolore fu quasi impercettibile.
     Uglúk ebbe un’unica, flebile convulsione, tentando come di alzarsi in piedi, ma sapeva che era finita. Ricadde sull’erba, ormai intrisa del suo stesso sangue che sgorgava copioso dalle ferite, e per un fugace momento si domandò che cosa aspettava gli Orchi dopo la morte.
     Avvertì un freddo contatto sulla fronte, e aprendo un’ultima volta gli occhi offuscati, vide il volto del nemico che si protendeva verso di lui.
     “Hai combattuto bene,” disse l’Uomo, e nella sua voce si percepiva qualcosa di simile al rispetto. Uglúk lasciò ricadere le palpebre, fattesi di piombo.
     “Finiscimi,” ringhiò, non volendo assistere alla morte dei suoi ultimi due ragazzi, gli unici rimasti con lui sino alla fine.
     Pensò a Lugdush e al cucciolo nel suo ventre che forse, un giorno, avrebbe mandato avanti la sua stirpe; pensò a Krumkû e alle altre due femmine che, con un po’ di fortuna, a quel punto si erano messe in salvo. E infine pensò ad Azdreg e a Thraknazh, che nonostante tutto sarebbero forse riusciti a fuggire, e proteggere le femmine e i cuccioli, una volta che questi ultimi fossero venuti al mondo.
     Non avvertì nemmeno il secondo colpo che lo liberò dal suo guscio spezzato.

...............
 
     Poi, dopo aver eretto un tumulo sui corpi dei compagni caduti e cantato le loro lodi, i Cavalieri fecero un grande fuoco e sparpagliarono al vento le ceneri dei nemici. Tale fu la fine della scorreria, e mai nessuna notizia di essa giunse a Mordor o a Isengard; ma il fumo s'innalzò nel cielo e fu visto da molti occhi vigili.
Le Due Torri (Capitolo 3: Gli Uruk-hai)
  
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