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Autore: Stateira    20/08/2007    11 recensioni
Raccolta di shots varie ed eventuali, a tema romantico. Parings per tutti i gusti, yaoi e non, canon caparbi e crack stratosferici.
Mi scuso per non accennare alla trama, ma una trama, disgraziatamente, non c'è.
Genere: Generale, Romantico, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
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Raindrops

NOTA: Come avrete avuto modo di capire, la fic tratta di incesto. Mi sento quindi in dovere di avvertire che il contenuto è piuttosto forte.

La tematica sessuale è presente, anche se rigorosamente solo per accenni.

 

 

 

 

Raindrops (Itachi/Sasuke)

 

 

Continuava a piovere, a Konoha.

 

Da giorni pioveva, pioveva sempre, sempre, maledettamente sempre.

La pioggia non ha bisogno di giustificarsi con niente e nessuno, lei viene e tocca tutto ciò che le pare, bagna cose, case, capelli, bocche, non è un problema, per lei, non ha altra preoccupazione che il sole, che prima o poi verrà e la porterà via, l’asciugherà lasciando sparse in giro tante tracce, onde di polvere bianca che macchieranno muri, panchine, finché non se ne svaniranno in silenzio anche loro, e allora non resterà che attendere la prossima pioggia.

 

Sasuke si chiedeva come facesse la pioggia, ogni volta che veniva e cadeva, a dare l’impressione che non sarebbe finita mai. Era incredibile, era così sempre, e quando l’acquazzone immancabilmente finiva lui si dava dello stupido, del bambino, ma la volta dopo era daccapo, a guardare fuori dalla finestra e a dirsi, sussurrandolo appena perché nessuno potesse sentirlo, che forse quella volta, quella volta non si sarebbe fermata mai più, avrebbe continuato a cadere da quella nuvola infinita e livida che copriva il villaggio, il bosco, ogni cosa.

 

Itachi.

 

Anche Itachi gli era piovuto addosso, la notte prima.

 

Sasuke non provava alcun interesse particolare per la pioggia, ma quando la vedeva scendere non cercava mai di proteggersene, come facevano tutti. Non allungava il passo per arrivare a casa prima, non si tirava la giacca sulla testa, non si preoccupava nemmeno di evitare le pozzanghere che si formavano nelle irregolarità della strada.

 

Anche Itachi aveva la curiosa peculiarità di accumularsi nelle pieghe, proprio come gocce di pioggia, si annidava nelle ferite e lentamente sedimentava, facendo marcire tutto quanto.

E come la pioggia, aveva l’abitudine di macchiargli i vestiti. Anche se la sostanza con cui lui lo macchiava non era propriamente acqua, non del tutto. Ma anche quella, quando si seccava, produceva tracce rifrangenti, come acqua piena di calcare. Sasuke le osservava sempre per parecchio tempo, quelle macchie, registrava con cura il loro evolversi, prima di trovare la forza, il coraggio, la disperazione di buttare la sua roba in un catino e lavare tutto quanto, furiosamente, lavare le tracce di suo fratello, almeno quelle fuori di lui.

 

Itachi filtrava come pioggia in quella che era stata la sua stessa casa fino a pochi anni prima. Scivolava oltre le guardie che controllavano i cancelli di Konoha senza farsi notare, una goccia mescolata ad un’infinità di gemelle, indistinguibile, inafferrabile. Lo faceva senza uccidere, lo faceva quando più gli andava, giungendo da chissà dove, e scomparendo chissà dove qualche ora dopo, con il primissimo albeggiare.

 

Sasuke non lo sentiva quasi mai arrivare, se lo trovava davanti all’improvviso, stagliato immobile contro il muro, nella penombra, che lo osservava in silenzio, come se fosse stato lì da sempre, una statua guardiana e solenne.

 

Anche se da qualche tempo le cose erano un po’ cambiate.

Da tre o forse quattro volte a quella parte, Itachi era stato un po’ più rumoroso nell’entrare, e lui aveva sempre fatto in modo di essere davanti alla porta, per guardarlo levarsi le scarpe e liberarsi del mantello.

Si sarebbe quasi potuto dire che avesse cominciato ad aspettarlo. Con la gola annodata, con le mani sudate e fredde, con il cuore che, da solo, rimbombava nell’ingresso ampio e spoglio, pulsando talmente forte da scuotere il paravento e la porta di carta di riso che dava sulla cucina, lui se ne stava lì ad aspettarlo sulla soglia.

 

Forse Sasuke lo faceva soltanto per riuscire a sfidare gli occhi di Itachi, per cercare di tenergli testa almeno con la dimostrazione che non aveva paura di lui, che c’era, che non scappava.

O forse lo faceva perché quegli occhi, li voleva vedere il prima possibile.

 

Non aveva idea del perché suo fratello venisse di tanto in tanto a fargli questo. Aveva smesso da parecchio di illudersi di conoscerlo, ma nonostante tutto non era mai stata una questione di violenza, nulla che potesse essere classificata univocamente.

Itachi lo spogliava, si spogliava, lo avvicinava ad un letto, il primo che c’era, e lo prendeva senza essere brutale, con calma e attenzione, lo toccava senza permettergli troppe confidenze con il suo corpo, imponendogli il suo dominio con naturalezza, gentile e gelido, zitto, e più lo riempiva, più lui si sentiva vuoto, disperatamente, esaltantemente vuoto.

 

Semplicemente, non aveva senso.

 

Itachi non gli parlava quasi mai. Anche se quel poco che diceva lo colpiva dritto al cuore, al cervello, alla faccia, sferzandolo come pioggia mista a grandine gelida, dopo aver odiato il mio nome, Sasuke, ti ritroverai ad odiare persino la parola “fratello”.

 

Una profezia, avveratasi la volta in cui Sasuke aveva visto sé stesso strisciare più vicino ad Itachi, avvolto dal sonno, e in silenzio, piangendo, rannicchiarsi su di lui, così adulto e grande, così lontano, maledetto, così bello da fare tanto, tanto male.

Quella volta, quando, cercando fra i risvolti disordinati di vestiti e coperte, aveva trovato la mano di suo fratello e l’aveva stretta, cercando di guadagnare un po’ di calore, Sasuke aveva capito di essere perduto.

 

Chissà se quella sarebbe stata la volta buona. La volta in cui davvero la pioggia non avrebbe mai più smesso di cadere.

 

Sasuke uscì sotto l’acquazzone che colorava di nerastro i muretti sporchi e i tronchi degli alberi disseminati qua e là, mischiandosi al rumore ostinato dello scrosciare, e lasciando che i suoi vestiti, i suoi capelli, ogni cosa di lui diventasse un po’ più scura, inzuppandosi. La pelle del suo viso invece era diventata più simile al colore di una perla bacata, tutta tracciata da piste d’acqua che rilucevano e brillavano ad ogni passo, ma niente di tutto ciò aveva grande importanza, adesso che la pioggia c’era e lui no, lui era chissà dove, irraggiungibile, indifferente al richiamo flebile del suo fratellino spento.

 

Itachi lo aveva sempre lasciato solo a cercare di capirci qualcosa, a macerarsi lentamente nell’incapacità di comprendere fino in fondo la consistenza di ciò che erano, di ciò che facevano, così invischiati l’uno con l’altro, nell’altro, così privi di freni e di vergogne per momenti che sembravano immensi, e poi di nuovo zitti, lontanissimi, quasi smarriti.

A Itachi piaceva illuderlo, evidentemente, come la pioggia, e a lui piaceva sperare che come lei, anche suo fratello sarebbe durato per sempre, trasformandosi giorno dopo giorno da pozzanghera a lago, a mare, coprendo ogni altra cosa, persino nomi, simboli, occhi, diventando tanto immenso da non essere più suo fratello, in modo da liberarlo dal peso di quel titolo così agghiacciante.

 

Ma invece Itachi finiva, dopo lunghe ore di buio inevitabilmente finiva, ed ansimando ancora si rialzava, raccoglieva le sue cose e spariva, oppure, si sdraiava, se era ancora presto, si buttava un braccio sull’addome e dormiva qualche ora nella sua vecchia casa stuprata, con suo fratello di fianco che lo guardava con gli stessi occhi di quando era bambino, gonfi di lacrime e di ammirazione sgomenta, di paura e rispetto, e di un orgoglio malato e geloso.

 

Sasuke tese una mano in avanti, verso il niente, verso tutte le gocce di pioggia che scolavano impietose, fredde, amarognole, dal cielo grigio bluastro. Pioveva su di lui, pioveva dappertutto, e così anche lui si mise a piovere.

Si mise a piovere dalle punte delle dita, dalle ciocche di capelli appiccicate alla fronte, dagli orli zuppi dei calzoni. Si mise a piovere dagli occhi, da quelli soprattutto.

 

Sasuke chiuse gli occhi, e immaginò di toccare.

 

Fantasticò in silenzio, chiuso in un angolo d’ombra di una strada anonima, come un mendicante, fra l’indifferenza di chi scappava dal temporale.

 

Il corpo di suo fratello.

 

Sognò di toccarlo ancora, e ancora, sognò di poter mangiare quelle parti di lui che non se ne andavano mai dalla sua testa. I suoi occhi, le sue labbra fini, i suoi capelli sfuggevoli e sottilissimi, e il suo sesso, spaventoso e irresistibile allo stesso tempo, come un peccato talmente osceno da non poter uscire dalla sua bocca che se ne sta lì a gonfiarsi nella sua gola, volta dopo volta, vomitando di tanto in tanto piacere e rancore, e confusione, e paura, una paura cosmica di tutto e di niente, una paura che se ne andava soltanto quando Itachi compariva a casa, in quel luogo così naturale per lui. Chissà se Itachi si rendeva conto di quanto fosse bello vederlo sdraiato nel suo letto, circondato dalle mura della sua camera, con la sua scrivania, il suo armadio, le sue mensole, com’era sempre stato, come un dejà vu, la fotografia dolcissima di un passato disperato che Sasuke avrebbe soltanto voluto riavere indietro, tutto per sé.

 

Il corpo di suo fratello, ancora un po’ di più, ancora più dentro, ancora più sporco. Simile a lui, troppo simile per non fare paura almeno un po’, come la proiezione di un futuro indefinibile. Tantissime volte Sasuke si era chiesto, mentre suo fratello spingeva senza sforzo, ansimando dolcemente fra i suoi capelli, se un giorno sarebbe diventato come lui fisicamente, se sarebbe riuscito a raggiungerlo almeno in questo, se c’era qualche speranza di vedere un giorno la stessa bellezza assassina di Itachi riflessa in uno specchio, e quel giorno impazzire definitivamente, gridare il suo nome, quello di suo fratello, e poi morire, morire e basta, dimenticando ogni altra cosa per potersene restare un po’ da solo con i suoi pensieri.

 

Il corpo di suo fratello.

 

Dio, se solo non fosse così tanto simile alla pioggia.

 

 

 

ANGOLINO!

 

Ok, questa è uscita da sola, a tradimento, nel giro di una mezz’ora. Non pensavo che scrivere una incest facesse così male, giuro, mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Passo ai ringraziamenti, va, se no mi viene la tentazione di ributtarmi sul testo e non finirlo mai.

 

 

Tinebrella: felicissima che l’idea abbia funzionato, in effetti quando si va sull’introspezione è sempre questione di opinioni. Meno male che la mia non è troppo sgangherata!

 

Bambi88: guarda, la rassegnazione di Hinata è proprio la cosa che non me la fa digerire, perciò ho voluto evitarla a tutti i costi per renderle almeno un po’ di giustizia.

 

Dark: Hinata/Neji è una cosa che mi fa soffrire dal profondo del cuore… Argh, persino il mio portachiavi è un Sasuke/Neji! XDDD

 

Kamusa: ti ringrazio moltissimo, sono contenta che l’idea di base sia stata buona. Hanabi è un personaggio molto, molto interessante, secondo, me, andrebbe approfondito a tutti i costi, e personalmente spero di vederlo sviluppato nel manga.

 

Artemisia: forse ci ho messo convinzione proprio perché l’Hinata che vedo e che leggo non mi piace. Era un modo tutto mio per salvarla, chi lo sa, per salvarla dalla sua stessa rassegnazione. Per quanto riguarda la famiglia, hai perfettamente ragione, e in fondo anche Neji è un tumore, è una cellula impazzita perché non sta al suo posto, perchè cerca di sgomitare per ottenere qualcosa che non gli spetta. La situazione della famiglia Hyuga, dai padri in su, è una delle più belle da analizzare, credo che si potrebbero davvero scrivere libri su quel clan.

  
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