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Autore: Deathbed    30/01/2013    1 recensioni
Charlotte era nuda, chiusa in camera sua. Si stava guardando allo specchio.
Si stava guardando la pelle bianca, le gambe lunghe e magre, il livido sotto il seno. I capelli neri e lisci che le spiovevano sulle spalle, gli occhi grigi e freddi. I polsi martoriati, da cui stavano ancora uscendo dei rivoletti di sangue.
Distolse lo sguardo dallo specchio.
Era sempre in silenzio, Charlotte. Era sempre fredda.
Non aveva amici, e non ne voleva. Nessuno voleva essere sua amica, ma tutti sapevano chi era. Era una di quelle persone che quando qualcuno vede a scuola, tutti cominciano a bisbigliare, smettendo subito se lei per caso si volta, e ricominciando appena se ne va. Le ragazze le odiavano per la sua bellezza, perché i maschi parlavano sempre di lei. Ma a lei non interessava. Lei li odiava, gli uomini.
Tutti sapevano chi era, ma nessuno la conosceva.
Nessuno poteva immaginare cosa c'era dietro quell'aria sempre così strafottente, disinteressata, di chi pensa di vivere mille metri più in alto rispetto agli altri. Nessuno era mai stato a casa sua.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Axl Rose
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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AAAAAAAAAAAH SCUSATE IL RITARDOOOOO! E' che mi si è rotto il caricatore del pc e non ho potuto più fare niente, e mi sento stra in colpa :c spero di non aver perso tutti i lettori! D: giuro che mi farò perdonare vnrfhhgh buona lettura!
-April




Bring me to life.



All this time I can't believe I couldn't see
Kept in the dark but you were there in front of me
I’ve been sleeping a thousand years it seems
Go to open my eyes to everything
Without a thought, without a voice, without a soul
Don't let me die here
There must be something more
Bring me to life
{Evanescence-Bring me to life}




Tornando a casa da scuola, Charlotte si rese lentamente conto di quello che le era appena successo. Un ragazzo l'aveva appena invitata ad uscire. Un ragazzo! E non un ragazzo qualsiasi, uno...bello!
Uno che non le aveva fatto venire voglia di vomitare appena l'aveva toccata. No, okay, un po' di nausea le era venuta, ma non per colpa sua.
Aveva sempre odiato gli uomini, e li odiava ancora, ma lui... Charlotte dovette fermarsi e appoggiarsi contro un tronco per riprendere fiato. Chiuse gli occhi. Tentò di figurarselo. E il cuore cominciò a battere più forte. Si portò una mano sotto il vestito e contò i battiti. Sorrise.
Poi si riprese e ricominciò a camminare.
Se qualcuno l'avesse vista, quel giorno, mentre tornava a casa piena di libri come al solito, con la sua aria scontrosa e selvatica, probabilmente non ci avrebbe fatto molto caso. Eppure qualcosa c'era.
Si poteva notare dai suoi occhi, di solito sempre cupi, spenti. Quel giorno invece sembravano brillare di una luce propria, forse per la prima volta da quando era nata. E dalle sue labbra, di solito sempre strette, quelle di qualcuno che sta facendo di tutto per tenersi dentro qualcosa che vorrebbe tanto poter dire, ma che il mondo non deve sentire. Quel giorno erano lievemente arricciate, come se la ragazza fosse costantemente sul punto di scoppiare a ridere.
Non si accorgeva di essere diversa dal solito, Charlotte. Pensava di sembrare, almeno agli occhi degli altri, sempre la stessa.
Ed era così. Perché nessuno se ne accorgeva, a casa sua nessuno ci avrebbe fatto caso. E quello...quello non sarebbe cambiato mai.

Doveva proprio essere il suo giorno fortunato, suo padre non era ancora tornato.
-Dov'è papà?- chiese alla madre, cominciando ad apparecchiare.
-Ha chiamato prima, ha detto che non riesce a tornare a pranzare a casa...- rispose la donna, con il suo solito tono vago e trasognato.
Elleanor, la madre di Charlotte, non era sempre stata così. Vent'anni prima, quando aveva appena conosciuto il marito, era una bella ragazza, di aspetto simile a come sarebbe poi diventata sua figlia, con tanta voglia di vivere, e innamorata. Innamorata di quell'uomo più grande di lui che di seducente non aveva assolutamente niente. Ma lei era fatta così...vedeva un uomo e puff! Innamorata. Henry non era del tutto stupido. Aveva capito com'era fatta quella donna, aveva capito che era debole, che non avrebbe mai avuto il coraggio di ribellarsi, che aveva bisogno di qualcuno accanto, che la facesse sentire amata. Henry a volte pensava a lei come a quei cani che puoi prendere a calci, e che mezz'ora dopo sono di nuovo tutti scodinzolanti e pronti a servirti. E aveva ragione. Lei era così.
Charlotte non la odiava del tutto. È vero, non aveva mai fatto niente per proteggerla dal mostro, ma Charlotte un po' capiva che era perché non ne aveva la forza. Non aveva la forza di difendere sé stessa, figurarsi qualcun'altro. Figurarsi la figlia. Non aveva neanche la forza di lasciare il marito, andarsene via, trovarsi un lavoro, ricostruirsi una vita...non ce l'aveva a vent'anni come non ce l'aveva adesso. Non ce l'aveva neanche prima di rimanere incinta e partorire.
Mangiarono, in religioso silenzio come sempre, poi Charlotte si chiuse in camera sua. Si buttò sul letto e guardò la sveglia sul comodino. Le due e mezza. Alle quattro doveva vedersi con...oddio, non gli aveva neanche chiesto come si chiamava. Un vago rossore le colorò le guance, quando pensò che stava per uscire con un ragazzo di cui non sapeva neanche il nome. Però dopo diciotto anni di castità poteva anche andare.
E poi non era vero che non sapeva il suo nome. Frequentavano i corsi di fisica e chimica assieme, e lui era...Bill! Sì, Bill Bailey. Uno dei ragazzi più popolari della scuola, il classico puttaniere, il classico bello e maledetto, che riusciva a mettersi nei casini un giorno sì e l'altro pure. E lei era una delle sue tante puttane...
No. Lei era Charlotte.
Mentre continuava a rimuginare su questi pensieri, e su Bill, cominciò a provare una strana sensazione. Una sensazione che tutte le sue coetanee avevano provato anni prima. Ma loro non avevano la pelle piena di lividi viola, non avevano gli occhi spenti.E quella sensazione le faceva chiudere lo stomaco, e seccare la gola. Si alzò, e prese a svuotare gli armadi.
Dunque...cosa mettere?
Si provò tutti i vestiti che aveva, senza riuscire a decidere. Passò mezz'ora buona chiusa in bagno, a truccarsi. Non lo faceva spesso, e non era sicura di essere davvero capace.
Alle quattro meno un quarto era finalmente pronta. Si guardò allo specchio e sorrise; un sorriso pieno di tutti quei suoi denti dritti e bianchi. Un sorriso raro come un raggio di sole durante un temporale. E, guardandosi allo specchio mentre sorrideva, per un secondo provò qualcosa di simile alla felicità, e qualcos'altro simile alla tristezza. Perché, finalmente, almeno per un pomeriggio, poteva essere una persona normale. Neanche nei suoi sogni più sfrenati e inconfessabili aveva mai immaginato una scena del genere. E adesso si stava realizzando! Però, per essere perfetta, quella scena aveva bisogno di qualcos'altro...qualcosa tipo una persona, una ragazza. Alta, magra, bassa, grassa, bella o brutta, bionda, castana, mora, rossa, ricciolina, con gli occhi grandi e belli e vivi, quella persona sulla quale sai di poter sempre contare, quella a cui puoi dire tutto...un'amica. Uguale ed opposta.
Charlotte non aveva mai incontrato nessuno del genere, e per un attimo, solo per un attimo, desiderò avere qualcuno accanto a se, che la stringesse e le dicesse di non preoccuparsi, che sarebbe andato tutto bene, che era bellissima. Ma fu il pensiero di un attimo. Anche perché lì non c'era nessuno.
Charlotte si riscosse, guardò l'orologio. Si diede un'ultima occhiata, si aggiustò i capelli, afferrò la borsa ed uscì.
“Non preoccuparti” si disse “andrà tutto bene.”

Bill le aveva dato appuntamento alle quattro, al parco. E adesso era lì, seduto su una panchina, la stessa su cui aveva dormito quella notte, e per ingannare il tempo si era messo a scribacchiare delle frasi su un foglio. Frasi che aveva in mente già da un po', ma che non aveva mai avuto il coraggio di mettere su carta.
Quando era tornato a casa dopo scuola, suo padre non si era incazzato neanche tanto. Gli aveva semplicemente detto di non farsi vedere, se non voleva prenderle, e Bill l'aveva accontentato volentieri. Era così immerso nei suoi pensieri che non si accorse neanche che Charlotte era finalmente arrivata, e adesso era lì davanti a lui. Alzò lo sguardo e vide la ragazza davanti a se, che sorrideva timidamente. Sembrava una bambina nel suo primo giorno di scuola. Ma, anche con quell'aria innocente, Charlotte appariva sempre buia, cupa. Perché quel piccolo sorriso non si estendeva anche agli occhi grigi? Bill voleva saperlo.
Si alzò in piedi, chiedendosi un po' preoccupato di che accidente avrebbero parlato.
-Stai bene così- disse, tanto per attaccare bottone.
Lei arrossì un po' -Grazie- rispose -che si fa?-
-Non dovevo offrirti un gelato, io?- rispose lui, sorridendo.
Bill ci sapeva fare con le ragazze. Perché, oltre a essere impossibilmente figo (almeno così credeva lui), sapeva come comportarsi. Sapeva che non con tutte le ragazze bastava fare la parte del duro per riuscire a conquistarle. Sapeva che con alcune ti beccheresti solo qualche insulto, o nei casi peggiori uno schiaffo. E sapeva che Charlotte era una di quelle. Però, neanche lui, così intelligente, così bravo a capire le persone, riusciva a leggere del tutto quegli occhi, che non intercettavano mai lo sguardo di nessuno, se non per poco. A volte gli veniva la smania di prendere il viso della ragazza fra le mani e costringerla a guardarlo, guardarlo negli occhi. Ma cercò di trattenersi.
Si incamminarono verso il “centro”, si fa per dire, di Lafayette. Erano le quattro di pomeriggio ed era gennaio. Tipica ora in cui non c'è nessuno in giro, e per fortuna. Mancano solo le balle di fieno spazzate dal vento per far sembrare quel posto un deserto, il peggiore che ci possa essere. Entrarono in una piccola gelateria, un posto così triste che i due preferirono sedersi fuori sui gradini a mangiare, anche se faceva freddo e non c'era un cane. Però era anche bello, vedere il cielo rosso sangue all'orizzonte, e respirare l'aria fresca, e stare da soli.
Mangiarono i loro coni in silenzio, parlando per lo più di niente. Charlotte si sentiva a disagio. Non era brava con le persone lei, e anche per questo preferiva stare per i fatti suoi. Le sembravano tutti così complicati. Per esempio, adesso io sono qui con il primo ragazzo della mia vita, e siamo in silenzio assoluto, come due idioti, allora tanto vale rimanere a casa, no?
-Che hai fatto ai polsi?- Bill interruppe il silenzio improvvisamente, nel peggiore dei modi.
Si era accorto, infatti, osservando la ragazza, che aveva i polsi pieni di tagli, da poco rimarginati. E sommandoli al fatto che quella ragazza stava sempre da sola, non usciva mai, non aveva amici, e sembrava sempre di una tristezza infinita, non era difficile immaginare come doveva essere la sua vita. E Bill non era stupido, sapeva cosa si provava a soffrire.
La ragazza lo guardò con gli occhi sgranati, poi si guardò i polsi. Come se non sapesse di averli in quelle condizioni. Poi fece una smorfia.
-Niente- rispose, fredda. Ecco, era tornata sé stessa, la solita Charlotte, che vive un gradino sopra gli altri, che non può convivere con i comuni mortali.
-Niente? Ti sei quasi tagliata da una parte all'altra, come fai a dire “niente”?-
“E tu come fai a non riuscire a farti i cazzi tuoi?” pensò la ragazza. Non voleva che nessuno sapesse niente della sua vita. Se ne vergognava infinitamente. E poi non voleva la pietà degli altri, non voleva vedere le loro facce sconvolte se mai l'avrebbero saputo, non voleva sentire i balbettii imbarazzati, non voleva sentire “Oh, ti capisco..” ma cosa cazzo vuoi capire?

Bill, però, non si arrendeva facilmente. Così tentò di afferrarle un polso, ma l'unico effetto fu quello che Charlotte riuscì a rovesciarsi addosso il gelato.
Splat, sul vestito.
Bill guardò prima il volto della ragazza, poi il casino che aveva combinato.
-Scusami, sono un'idiota...- disse.
-Non fa niente- disse lei automaticamente. Tirò fuori un fazzoletto dalla borsa e tentò di ripulirsi alla bell'e meglio.
Bill però glielo tolse di mano -Vieni in bagno, forse è meglio-
Rientrarono nella minuscola gelateria, e Charlotte entrò nel bagno delle donne, mentre Bill l'aspettava fuori.
Dopo un quarto d'ora, però, cominciò a scalpitare. Che cazzo starà facendo?
Si avvicinò alla porta, la aprì quel che bastava per vedere dentro. E attraverso quello spiraglio vide che Charlotte si era tolta il vestito a fiori, e adesso lo teneva sotto il getto d'acqua del lavandino e lo strofinava, tentando di far andare via la macchia. Bill però non resistette all'impulso di entrare. Ma non spalancò la porta e balzò dentro, no. Entrò lentamente, senza farsi sentire, tanto che Charlotte non se ne accorse neppure. Lui, però, se ne accorse. Se ne accorse, quando fu abbastanza vicino da poter vedere tutti i lividi, quelle macchie violacee che ricoprivano la pelle bianca della ragazza, tanto che sembrava avesse una strana malattia.
Charlotte alzò la testa, e lo vide riflesso nello specchio. Fece un salto di mezzo metro e cacciò un urlo.
-Bill!- disse, solo. Si guardarono per alcuni secondi. Però il ragazzo non la guardava in faccia, negli occhi, come avrebbe tanto voluto, guardava il suo corpo. E Charlotte si accorse che non era perché era mezza nuda e lui stava pensando che avrebbe voluto saltarle addosso. Esaminò ogni centimetro del suo corpo, dalla testa alle dita dei piedi, e risalì di nuovo, fino a guardarla in faccia.
Lei gli restituì lo sguardo. Era un sguardo triste, come a dire “Eh, lo so...ma cosa ci posso fare?”
Bill capì voleva dirgli, guardandolo così. Allora si sfilò la maglietta e i pantaloni con dita lievi. Adesso aveva anche lui lo stesso sguardo. Charlotte spalancò gli occhi. Lui era...era come lei! Ma come poteva un ragazzo bello e sicuro di sé come quello, uno che sembra abbia il mondo a portata di mano...a essere come lei?
Bill le si avvicinò e d'impulso l'abbracciò. E lei non si ritrasse, come avrebbe potuto farlo? Gli restituì l'abbraccio. Senza piangere. Semplicemente restarono lì, ad abbracciarsi, come due idioti. Quando finalmente si staccarono, Bill la guardò. Era la prima volta che qualcuno la guardava davvero.
-Da quanto?- chiese.
Lei fece un sorriso amaro -Da quando sono nata...-
-Anche io...-
Charlotte si sedette per terra, con la schiena appoggiata al muro di quel cesso schifoso, e si prese la testa fra le mani. Bill si sedette accanto a lei.
Non sapeva cosa dire per aiutarla, e d'altronde cosa si può dire in casi del genere? Però non ci fu bisogno di dire niente, perché cominciò Charlotte a parlare. Gli raccontò tutta la sua vita, di suo padre, di quanto lo odiasse, della paura che aveva di diventare come sua madre, del desiderio che aveva di essere, almeno ogni tanto, una persona normale. E Bill, dopo un po', prese coraggio, e fece lo stesso. E rimasero così per più di un'ora, a parlare, a sfogarsi e a piangere, a rievocare e cercare di esorcizzare i fantasmi e gli spiriti che da troppo tempo ormai portavano con loro. E per un attimo si sentirono quasi riportare in vita
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