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Autore: WhiteWinterLady2    06/02/2013    1 recensioni
“È strano”.
“Cosa?”.
“Come sia tutto più semplice quando ci sei tu”.
Angela ha fatto una scelta: a vent'anni ha deciso di abbandonare la casa dove ha sempre vissuto per avventurarsi in una città nuova e sconosciuta. Ha inscatolato per bene le sue cose e i suoi sogni e si è lanciata verso l'ignoto.
Il suo tempo scorre uguale e monotono tutti i giorni: sveglia puntata sulla stessa ora, lavoro, affitti da pagare, spese da sostenere, luoghi in cui ambientarsi. La solita routine. La solita vita che si ripete. Le solite scene già viste. Mentre la felicità, quella vera, sembra essere solo un'utopia.
Finché non accade un incidente... Un bell'incidente.
PS: Non siate timidi, fatemi sapere le vostre opinioni ;D
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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La sveglia suonò alle sei. Come sempre.

Mugugnai rumorosamente in segno di protesta – È già ora? –, sentendo avvicinarsi l'inizio di un altro giorno esasperante, e con una mano cercai a tastoni di zittire l'allarme.

Azione sufficiente a risvegliare i dolori in tutto il corpo, e specialmente nella mia caviglia.

Come una valanga, mi tornarono alla mente i ricordi della disavventura del giorno prima e la conversazione notturna con Elena, ogni azione, ogni frase, ogni spaventosa paura, e conclusi, alla fine, che il tempo di separarsi dal letto per me non era ancora arrivato. In altre parole, non sarei dovuta andare al lavoro.

Stimai, però, che era almeno il caso di avvisare il capo. Visto il suo caratteraccio, non si poteva mai sapere.

Non vorrei scatenare l'Apocalisse...

Nonostante le fitte, stesi il corpo il più possibile per raggiungere il cordless sul comodino, composi il numero e aspettai. Ero sicura che avrebbe risposto, a quest'ora era sicuramente già sveglio.

E infatti ci volle solo qualche squillo prima di sentire un: “Pronto?”.

“Giorgio, buongiorno. Sono Angela”.

“Oh, Angela, ciao. Se chiami per il lavoro, non ti devi preoccupare. Mia figlia era a La bella Napoli ieri sera e... mi ha raccontato dell'incidente...”.

Grugnii, sperando che non mi avesse sentita. Oh, bene. Chissà quanti altri l'hanno visto.

“E comunque Elena ha già chiamato e mi ha spiegato tutto”.

“Per cui non ci sono problemi se oggi non vengo?”.

“Assolutamente! Resta a casa per questa settimana. Hai bisogno di rimetterti in sesto”.

Per tutta la settimana?!

Era giovedì, il che significava che fino al lunedì successivo sarei rimasta in malattia. Ero allibita. Questo decisamente non era quello che mi aspettavo dal mio capo, sempre con i nervi a fior di pelle per ogni minima sciocchezza. Suonava tutto molto strano, troppo strano. Per un momento pensai di aver sbattuto forte la testa contro l'asfalto la sera precedente e di essere piombata in un universo parallelo dove il Gigi del Super Market Sempre Pronto era un uomo gentile e che, soprattutto, ti chiamava per nome. Lui che usava sempre e solo l'appellativo signorina, spesse volte decorato da un ehi, tu. Poco importava se eri giovane, vecchia, sposata, vedova, single, fidanzata, separata, sull'orlo di un divorzio, sui cinquant'anni, una bambina di sei mesi, un'adolescente con l'acne o addirittura un uomo. Per Gigi il registro dell'anagrafe era pieno di signorina scritti in colonna in bella grafia.

Mostrai il mio scetticismo. “Ehm... Ne è proprio sicuro? Per tutta la settimana?”.

Ma certo! Pensa a guarire per ora. Ci rivediamo lunedì, Angie”. E riattaccò.

Quell'ultimo Angie mi scosse più di tutto il resto. Una così ampia confidenza non era normale.

Rabbrividii. Sì, decisamente, il mondo si è veramente ribaltato.

Tornai dunque ad accoccolarmi sotto le coperte, con il piumone tirato fin sopra la testa e le lenzuola ben strette intorno, e non passò molto tempo prima che la mia mente cominciasse a fare strampalati ragionamenti su un possibile rapimento alieno di cui il mio capo era stato probabilmente vittima, segno che il senno mi stava abbandonando e che mi sarei presto riaddormentata.

 

Fu una mattinata lunga e difficile.

Tanto per cominciare fui svegliata dal suono del campanello, che mi annunciava che qualcuno mi voleva alla porta. In realtà in un primo momento neanche me ne accorsi, tanto ero ancora lontana dal mondo reale. Ma quando fui abbastanza cosciente, lamentai che mi ci sarebbe voluto un secolo per fare soltanto qualche metro.

Un minuto, arrivo!”, avvisai allora urlando. Poi, con movimenti studiati, uscii dal letto e, un'eternità dopo, un po' saltellando, un po' sostenendomi alle pareti, riuscii a raggiungere l'ingresso.

La vista della padrona della casa di cui io ero solo un'affittuaria, la signora Rosalba, da tutti detta Alba, mi spiazzò.

Ciao, Angie”, mi salutò. “Ti ho portato questo”, e mi mise tra le braccia qualcosa di bianco e pesante, che, capii un secondo più tardi, era una pirofila coperta da stagnola. Mi prese talmente in contropiede che non fui in grado di farfugliare altro che un: “Grazie”.

Be', ho pensato che magari ti avrebbe fatto piacere qualcosa di caldo da mangiare... Dato che, sì, insomma, non puoi muoverti molto”. Notai che il suo sguardo si era spostato sulla mia gamba fasciata e, contemporaneamente, mi domandai come poteva conoscere tutte quelle informazioni, dato che erano trascorse neanche dodici ore dall'accaduto. Certo, non potei non ricordare che la signora in questione adorava le notizie fresche fresche... L'incidente doveva aver fatto scoppiare un bel casino. Contornato da un bel boom di pettegolezzi.

Sì, grazie. In effetti è un gran sollievo. Sarà un pranzo ottimo”. Qualunque cosa sia.

La signora Alba sembrò soddisfatta di aver compiuto il suo dovere di ospite. “Bene, allora... Buon appetito”. Ridacchiò impacciata, tra il divertito e il nervoso. “E se hai bisogno di me, sai dove trovarmi”.

Certamente, al piano di sopra, dove non potrò arrivare coi miei piedi.

Senz'altro. Be', allora la ringrazio di tutto”.

Mi sorrise con il suo sorriso cavallino. “Di niente, cara”.

Richiusi la porta alle mie spalle, stranita per la seconda volta in poche ore. Non che la signora Rosalba non fosse una persona disponibile, questo no, però... Ecco, le gentilezze erano veramente una rarità. Era molto più propensa a squadrare gli inquilini del suo appartamento come se fossero dei potenziali criminali e a non fidarsi di nessuno. Evidentemente, la mia quasi morte doveva avermi fatto guadagnare qualche punto.

Scossi la testa. “Tra poco mi diranno che gli asini volano e i procioni ballano la macarena”.

All'improvviso mi preoccupai di sapere che ore fossero. Le lancette mi risposero che erano le nove passate. Convenni, allora, che era inutile rimettersi a letto e che ora la giornata era veramente iniziata.

Sospirai, le mani sui fianchi. “A noi due, nuovo giorno”.

 

In piedi, davanti allo specchio dell'armadio, completamente nuda, tranne che per la caviglia fasciata, e con l'accappatoio sulle spalle, la mia immagine riflessa era peggio di quanto pensassi.

Un'ispezione veloce mi informò che le mani, i polsi e le ginocchia erano ricoperti di macchie – rosse per le abrasioni, blu per le ecchimosi –, più un taglio lungo ma poco profondo, di cui non mi spiegai l'origine, sul polpaccio sinistro. In generale era da dire che, tutto il mio lato sinistro, quello che evidentemente aveva toccato l'asfalto per primo, era un disastro, a cominciare dal livido enorme sul fianco, che faceva male solo a guardarlo, figuriamoci a metterci le dita. L'aspetto peggiore, tuttavia, era in assoluto quello della mia faccia.

Innanzitutto un bel bernoccolo dolorante sulla fronte mi confermò che in effetti avevo sbattuto la testa, ma la cosa che più mi inquietava erano le occhiaie: nonostante le beate ore di sonno, sembrava che non avessi dormito per niente.

Sospirai malinconica. Mi mancavano solo un paio di cenci maleodoranti e la bava alla bocca e poi sarei stata perfetta per un film sugli zombie. L'andatura claudicante già ce l'avevo.

Accidente, faccio proprio schifo sui tacchi, mi dissi, e, allo stesso tempo, giurai solennemente a me stessa che non avrei più rimesso delle scarpe alte in vita mia, mai più, nemmeno sotto tortura.

Mi buttai sul letto, sovrappensiero, riflettendo su come avrei potuto riempire la giornata. È assurdo come quanto una persona speri di avere del tempo libero e come poi non sappia che farsene, è un controsenso. Considerando la mia scarsa possibilità di deambulare, poi, non avevo molte scelte.

Finora ero riuscita soltanto, e non senza fatica, a mettermi sotto la doccia, il che mi aveva costretto ad una delle cose più imbarazzanti della mia vita: cellofanare la caviglia. Il mio tentativo di cambiare la fasciatura, infatti, era miseramente fallito: una volta constatato che non sarei riuscita a riprodurla, lasciai perdere e, dato che non si doveva bagnare, la ricoprii come potei.

Adesso, però, la questione si faceva più pressante. Se dovevo guarire in tempo per lunedì, era necessario che la caviglia venisse medicata.

Mi dedicai, per un buon pezzo, alle mie ferite di guerra, armeggiando con cerotti, pomate, disinfettante, garze e l'apposito nastro adesivo. Poi mi concentrai sulle fasce sulla gamba: con delicatezza, tolsi il fermaglio che le teneva strette intorno alla caviglia e le sciolsi lentamente, cercando di memorizzare a ritroso tutti i passaggi che il dottore aveva fatto, fino a quando non incontrai la mia pelle nuda.

Ma non ero pronta per quello spettacolo.

Mi sfuggì un gemito per il dolore.

Tutto il piede era un miscuglio di colori, ognuno dei quali indicava l'anomalia della situazione. Si passava da un rosso paonazzo al nero-bluastro, toccando tutte le tonalità intermedie. Io stessa non pensavo che il corpo umano potesse colorarsi di una così vasta gamma di sfumature, e quasi me ne spaventai. Per non parlare del gonfiore: la caviglia sana era grande almeno la metà.

Questo sì che fa male solo a guardarlo. E stavolta non era uno scherzo.

Agguantai la pomata e la spalmai dall'estremità inferiore della tibia in giù con massaggi leggeri, attenta a non premere troppo. Subito il contatto del gel fresco sulla pelle in fiamme mi fece stare meglio. Poi toccò alla garza: ne presi un lembo e incominciai ad attorcigliarlo intorno al piede. Il segreto, mi dissi, è fasciarla stretta ma non troppo, quel che basta per immobilizzare la caviglia. E devo ammettere che il risultato finale non fu niente male.

Finite le medicazioni, non mi restava altro da fare. Di cimentarsi in lavori casalinghi non se ne parlava neanche. Non che la casa non ne avesse bisogno, anzi, la signora Alba mi avrebbe rifilato una super ramanzina se avesse scoperto in che stato era. C'era roba da lavare, altra da stirare, mensole e mobili impolverati, le lenzuola da cambiare, la cucina in disordine ed era rimasta nell'aria un vago sentore del fumo delle sigarette di Elena; per non parlare del pavimento del bagno, completamente allagato dopo il mio tentativo di sistemarmi. Dovevo rimboccarmi le maniche, non avevo scuse, ma l'esperienza sotto la doccia mi era bastata per capire che non ero autosufficiente nei movimenti.

Dunque desistetti e, sbuffando e brontolando, mi portai con lentezza sul divano del salotto.

Bene, se non posso rendermi utile, che posso fare? Vagliai varie alternative, ma nessuna mi entusiasmava.

Poi mi tornò alla mente quello che Elena aveva esclamato appena il giorno prima – mi sembrava passata un'eternità. Stai diventando uno zombie a furia di lavorare e basta. Guardati! Sei un essere umano anche tu, santo cielo; prima o poi cederai se non ti concedi un attimo di svago!

Hai ragione tu, Elena”, dissi mesta a me stessa. “Ci vuole un po' di tempo solo per me”.

Ricordai l'espressione decisa della mia collega, determinata a staccarmi a qualunque costo dal mio mondo fatto di casa e lavoro almeno per una sera; riaffiorò alla memoria il viso tondo e preoccupato di Rossella, la macellaia del Sempre Pronto, alla vista della mia faccia da morta vivente; mi risuonò nella testa la voce allegra e incoraggiante della signora Esposito quando le avevo telefonato la mattina precedente.

Sì, oggi mi sarei dedicata a me soltanto.

Mi alzai di scatto, stranamente felice della mia scelta, e corsi, si fa per dire, in camera mia: sul comodino c'era un bel libro che mi attendeva e che non aprivo da settimane. Lo presi. Presi anche una coperta e un paio di cuscini dall'armadio. Poi ritornai al divano, dove posai il mio piccolo tesoro, ma non ero ancora soddisfatta. C'era ancora una cosa di cui avevo bisogno.

Mi fiondai in cucina. Presi l'occorrente. Accesi il gas.

L'odore del caffè si diffuse nell'aria in un battibaleno.

Ah, ora sì che posso morire contenta”.

Mentre aspettavo che la mia dose di caffeina fosse pronta, sbirciai sotto la stagnola della signora Alba.

Nella pirofila erano adagiate delle meravigliose lasagne. Mi vennero le lacrime agli occhi. Era una vita che non ne mangiavo, almeno da... dal trasferimento, e infatti il mio stomaco brontolò rumorosamente, avvisandomi che ne esigeva una porzione. Tuttavia l'ora di pranzo era ancora piuttosto lontana, per cui mi imposi di resistere. E poi la mia tazza di caffè quotidiana non me la toglieva nessuno.

La caffettiera gorgogliò, segno che dava ufficialmente inizio alla mia fase relax.

Con la tazzina in mano, ritornai adagio al divano. Sotto braccio tenevo un paio di siberini che sarebbero sicuramente stati una manna dal cielo per la caviglia dolorante. Mi preoccupai, inoltre, di rendere il mio giaciglio il più confortevole possibile, ragion per cui sistemai con cura i cuscini e disposi gli oggetti in modo che, nel caso in cui ne avessi avuto bisogno, fossero raggiungibili anche senza dovermi alzare.

Bene. Tutto era pronto.

Mi apparve strano, ma tutto questo mi rendeva euforica.

Mi accoccolai con calma sul divano. I cuscini erano perfetti là dove li avevo posti. Uno di essi, piccolo e morbido, mi sosteneva il piede malato, su cui poggiai i siberini freschi. La coperta completava il tutto. Ora non mi restava che appropriarmi del caffè e immergermi nella lettura.

Con la tazza in mano, recuperai il romanzo – I pilastri della terra, un libro leggero leggero –, lo aprii, tolsi il segnalibro, e...

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin

e mi chiamarono al citofono.

In tutta sincerità, in un primo momento mi spaventai. Da quando mi ero trasferita lì due mesi prima non l’avevo mai sentito suonare: per me era qualcosa di nuovo. Un attimo dopo, comunque, compresi quello che implicava: mi sarei dovuta alzare.

Non riuscii a trattenere un’imprecazione.

Quando potrò avere un attimo di pace?

Zampettai fino al citofono. Ringraziando il cielo, non c'era nessuno nei paraggi, perché lo spettacolo doveva essere veramente patetico.

Giunta alla cornetta, però, indugiai per un momento, fantasticando su chi, in strada, aspettava di essere ricevuto. In tutta probabilità si trattava soltanto di pubblicità o venditori ambulanti, tuttavia mi fermai lo stesso a pensare. Forse… Forse poteva essere… No, non era credibile, non lo avrebbero mai fatto. Scossi in fretta la testa per togliermi quel pensiero, per impedire che si insinuasse troppo a fondo dentro di me e diventasse una speranza. Alzai decisa la cornetta.

“Sì?”.

Una voce femminile, tanto stridula quanto snervante, rispose dall’altro capo. “Angela Savier?”.

“Sì, sono io”.

“Buongiorno, sono Tessa Arrigoni, giornalista del quotidiano locale”.

Mi impietrii. Una giornalista?! Che vuole una giornalista da me?

Come se mi avesse letto nel pensiero, Tessa chiese: “Posso rivolgerle alcune domande?”.

Lì per lì rimasi interdetta. Perché mai una giornalista voleva porre delle domande a me? Non potevo credere che fosse a causa dell’incidente. Insomma, alla fin fine non era successo nulla, io stavo bene, tutti stavano bene, la tizia che quasi mi aveva investito non aveva dovuto andare in galera e il mio salvatore, a quanto pareva, si era volatilizzato. Non c’erano morti da piangere, famiglie da consolare, particolari commoventi su cui ricamare, non c’era niente.

Allora perché diavolo avevo una giornalista sotto casa, ansiosa di intervistarmi?

Poteva essere che…

Ma sì, poteva darsi che fosse a causa del misterioso barbone. In fondo, era lui la componente più intrigante di tutta la faccenda: la comparsa tempestiva, il salvataggio, la sparizione improvvisa… Qualcosa mi diceva che lui era la chiave di tutto.

Ma allora che c’entravo io? Ne sapevo meno di quella Tessa laggiù, dato che la sera precedente a malapena mi rendevo conto di essere al mondo, figuriamoci se potevo raccontarle qualcosa. No, non le ero di nessuna utilità e le avrei soltanto fatto perdere tempo. E, inoltre, non ci tenevo a far conoscere me e la mia vicenda a tutta la città. Già era abbastanza fastidioso che la sapesse tutto il condominio.

Eppure…

Eppure perché no? Dopo tutto, quanto spazio avrebbe occupato una notizia come quella? Un piccolo trafiletto, in fondo, tra le ultime pagine. Niente di importante. Ed era probabile che Tessa fosse una ragazza con problemi economici che avrebbe tentato qualunque cosa, persino intervistare una persona insignificante come me, pur di racimolare un po’ di denaro per sopravvivere. In altre parole, poteva benissimo trovarsi nella mia stessa situazione. Come potevo abbandonarla?

, decisi, buttiamoci!

“Angela? È ancora lì?”.

Dovevo essere rimasta a riflettere un po’ troppo a lungo. “Sì, ci sono. Può salire”, dissi in fretta.

Qualche minuto più tardi, Tessa comparve alla mia porta. Era piccola e bassa, all’incirca della mia età, con capelli corti e corvini e un paio di occhiali dalla montatura spessa poggiato sul nasino alla francese. Il suo viso, per un momento, tradì sorpresa nello scoprire che eravamo quasi coetanee; anzi, che ero più giovane di lei. Non so chi si aspettasse, ma di certo non me. Un’espressione affabile e professionale, tuttavia, sostituì immediatamente lo sgomento; mi allungò un braccio nell’atto di presentarsi.

“Tessa Arrigoni, molto piacere”.

Strinsi la sua mano piccola e molliccia nella mia. “Angela Savier. Prego, entra”. A questo punto dare del lei non aveva senso. La condussi nella stanza che faceva da salotto zoppicando; volevo conservare un minimo di dignità e, anziché saltellare, cercavo di poggiare il piede malato per terra, stringendo i denti.

Il salotto era un disastro. Mi ero totalmente dimenticata di aver lasciato roba sparsa ovunque, il che non dava sicuramente una buona impressione di me; Tessa, però, simulando cortesia, faceva finta di non accorgersene e si guardava in giro.

“È molto accogliente, qui”, commentò mostrando interesse per alcuni quadri appesi alle pareti.

Ne approfittai per nascondere i siberini sotto il divano. “Sì, abbastanza”, replicai con una vocetta isterica. Intanto chiusi a malincuore I pilastri della terra. “Però non è proprio casa mia”.

Tessa si girò di scatto. “Ah no?”. La luce che improvvisamente si accese nei suoi occhi mi fece paura. Tutta la sua curiosità era viva, adesso, come se dietro quello che avevo appena detto si nascondesse di più. Mi pentii di avere accettato di riceverla. Questa non era una giornalista alle prime armi: era una fredda cacciatrice di notizie.

“È in affitto”, mi affrettai a spiegare con le guance in fiamme.

Se la risposta la deluse, non lo diede a vedere. Ma ancora prendeva tempo, passeggiando per il salotto come se fosse in un museo, senza arrivare al nocciolo della questione: che voleva sapere da me? Mi sentivo sulle spine.

“Posso offrirti qualcosa? Ho fatto il caffè poco fa”, proposi allora.

“Oh, no, non disturbarti”. Mi sorrise. Aveva un sorriso bruttissimo, uno di quelli che deformano le facce della gente e le rendono grottesche anziché graziose. Mi piaceva sempre meno. Ma per lo meno l’invito la indusse a sedersi sul divano. Era ora.

Persino il suo modo di sedere non mi andava a genio: teneva la schiena rigida e le gambe serrate, cosa che dava al suo atteggiamento un che di borioso. Tirò fuori un blocnotes dalla borsetta, lo sfogliò con cura; si munì di penna; prima di aprir bocca, spinse gli occhiali verso la radice del naso con la punta dell’anulare, con un gesto talmente teatrale da far ridere; poi, finalmente, attaccò a parlare.

“Angela, sai già perché sono qui”.

Non ne ho la più pallida idea.

“Sì, posso immaginare”.

“Ieri notte”, proseguì con tono quasi cerimonioso, “sei stata vittima di un terribile incidente, che sarebbe certamente finito in tragedia se non fosse stato per l’intervento di qualcuno…”.

Fin qui nulla di nuovo, era il riepilogo delle mie ultime dodici ore circa. Non dissi nulla. Fremevo mentre attendevo il resto.

“Come ti sei sentita quando hai capito che saresti morta?”.

Involontariamente tirai su un sopracciglio: tutto qui? Mi aspettavo domande più spinose e insidiose, poste con l’intento far vacillare e cadere, di scoprire cose segrete, qualche intrigo, alcuni scoop eclatanti. Poteva darsi che la stessi sottovalutando, ma, be’, vista la situazione, per ora non avevo niente da temere. Risposi con sincerità. “Veramente non lo so dire: ero sotto shock, ho dei ricordi davvero frammentati di quel che è successo. Rammento solo che la macchina mi stava venendo incontro, coi suoi enormi fari gialli, e tutto a un tratto ho visto solo nero e non sentivo più nulla. Mi sono ripresa molto più tardi”.

“E del barbone…”. Si schiarì la voce. “Perdonami, del clochard, ti ricordi?”.

La domanda mi imbarazzò. Sperai che non si notasse. Sì, mi ricordavo di lui, era uno dei particolari più vividi nella mia memoria. Non l’avevo guardato in viso, non conoscevo i lineamenti del suo volto, ma a volte, ripensando all’accaduto, quando meno me lo aspettavo, nella testa mi riecheggiava la sua voce, con il suo timbro, il suo tono preoccupato, e riascoltavo quello che mi aveva detto – Andrà tutto bene. Calmati, andrà tutto bene – quasi fosse una registrazione nel mio cervello. Avvertivo il respiro affannato come se fosse presente, e il velo di paura che permeava le sue parole. Certo, anche lui doveva essersi spaventato a morte: aveva rischiato la sua vita per salvare la mia. Quando ci pensavo mi si scaldava il cuore. Era stato molto coraggioso.

Grazie…

Tessa simulò un colpetto di tosse. “Angela?”. Il suo sguardo interrogativo comunicava una certa perplessità.

Mi riscossi, come se fossi uscita da un sogno. Ancora una volta, le mie riflessioni mi avevano portato più lontano del dovuto. Non mi sarei sorpresa se la giornalista avesse creduto che non avevo tutte le rotelle a posto.

“Sì, mi ricordo”, replicai con slancio, dimostrando di non aver perso il filo del discorso. “Ma non ho idea di che faccia abbia”.

Stavolta il volto della reporter si tinse chiaramente di delusione. Non potei fare a meno di chiedermi cosa si aspettasse che le dicessi, ma, già qualche istante dopo, la fredda determinazione da giornalista si ripresentò, e non ci ragionai più su.

Si sistemò gli occhiali. “Secondo alcuni testimoni, assistere alla scena è stato terribile. Sembrava di essere in un film. Cosa hanno pensato i tuoi conoscenti?”.

Come quesito mi pareva alquanto ridicolo – E io cosa ne so?! Vallo a chiedere a loro! –, ma tenni per me le mie opinioni. “Non ne so molto”, risposi, “però la mia amica, che mi stava aspettando dall’altra parte della strada, era così scossa che per poco non è morta di spavento”. Risi nervosamente. “Ho idea che all’obitorio ci stava finendo lei”.

La ragazza mi guardò con una freddezza tale da farmi rimpicciolire nel divano. Era chiaro che non la trovava una battuta divertente. Si limitò a regalarmi un sorriso accondiscendente, giusto per darmi il contentino, e scribacchiò qualcosa sul notes come se la mia dichiarazione fosse molto importante.

Un attimo dopo, rialzò il mento. I suoi occhi incontrarono il piede fasciato, gonfio e livido sotto le bende, risalirono fino alle mani, i cui palmi, decorati con cerotti e garze, si erano scartavetrati contro l’asfalto, e si soffermarono sul bernoccolo sulla fronte. “Vedo che l’incidente ti ha conciato un po’ male”, giudicò.

“Be’, abbastanza. Ma, al confronto con le ferite di un incidente vero, questi sono solo graffi”.

“Uhm, raccontami”.

Cominciavo a spazientirmi. “Davvero, sono soltanto due tagli, niente che non possa guarire in fretta”.

“E la caviglia?”.

Ma certo, sibilai a me stessa tra i denti. La caviglia. “Il dottore dice che è una slogatura, un po’ brutta ma passerà”. Il realtà non sapevo assolutamente nulla di quello che il dottore aveva detto, riportai semplicemente le informazioni datemi da Elena. Leggermente distorte. “Entro lunedì dovrei essere di nuovo in forma”.

“Sembra molto gonfia per essere solo una slogatura”, mi fece notare Tessa.

Tagliai corto. “Mi fido delle parole del medico”.

Non replicò.

“Passiamo ad altro. Se in questo preciso istante avessi davanti la persona che per poco non ti ha investita, cosa le diresti?”.

Oh, finalmente una domanda con un senso.

Mi concentrai. Confesso che, in tutta quella faccenda, non avevo mai pensato prima alla guidatrice che quasi mi aveva spedito all’altro mondo. Forse perché la vera minaccia, per me, era stata l’auto in sé – con gli occhi gialli ed enormi, che si avvicinavano annunciando la mia morte –, non chi la guidava. Il ruolo del conducente mi sembrava inconsistente, un fantasma, un personaggio ai margini della scena, visto che, di fatto, non ci eravamo mai incontrati – e, fortunatamente, scontrati. Cosa le avrei detto? Di stare più attenta la prossima volta? Di comprarsi una utilitaria se non era capace di governare un SUV? Non sapevo. La verità è che non avevo niente da dirle. Anzi, più in fretta dimenticavo questa storia e meglio era.

“Probabilmente chiederei che stava facendo mentre guidava, dato che non mi ha visto”.

Tessa annotò in fretta, il volto imperturbabile.

Poi si fece serissima, e nelle pupille brillò una scintilla che mi mise i brividi. Si stava preparando a qualcosa di grosso.

E infatti…

“Torniamo un attimo al clochard. Ti va?”.

Annuii senza convinzione.

Si schiarì la voce. L'anulare spinse gli occhiali verso la fronte. “Se lo dovessi rincontrare”, disse, “come pensi che lo ricompenseresti?”.

Sgranai gli occhi e per poco la bocca non si spalancò per lo stupore. Odiai ammetterlo, ma questa volta mi aveva colto del tutto alla sprovvista. Finora, tutto quello che mi ero immaginata era di trovarmelo di fronte, un giorno, per caso, e di presentaci l'uno all'altra, di stringergli la mano e di ringraziarlo dal più profondo dell'animo, di guardarlo dritto negli occhi e di promettermi di riservargli uno spazio nei miei ricordi, nei miei pensieri, nel mio cuore, persino nelle preghiere che sarei potuta tornare a recitare, fino a che avessi avuto respiro. Ma, su una ricompensa, proprio non ci avevo ragionato. In fin dei conti era una cosa giusta, una persona che ti salva la vita se lo aspetterebbe. Eppure come si può ricompensare un senza tetto? Dandogli un tetto? Io ne avevo solamente uno, e non era neanche di mia proprietà. Cedendogli del denaro? Anche di quello ero a corto; già bastava a malapena, figuriamoci se avessi dovuto donarne una parte. E poi non ero sicura che fosse la cosa giusta da fare; non conoscevo nulla della vita dell'uomo in questione, del suo passato, e, per quello che ne sapevo, poteva benissimo essere caduto in disgrazia per motivi economici: un affare andato male, un divorzio costato molto caro, un investimento sbagliato, un tenace vizio del gioco... Oppure poteva essere stato un tossicodipendente, eroinomane, alcolista, fumatore di crack o consumatore di altri stupefacenti, che a causa della dipendenza aveva abbandonato tutto, vivendo per strada.

Il problema era che poteva essere qualunque cosa. I soldi potenzialmente risultavano tanto utili quanto dannosi. E, nel caso più spiacevole, di sicuro la mia coscienza non sarebbe stata a posto con se stessa...

Però volevo aiutarlo. Davvero. Sinceramente.

Con qualunque mezzo avessi a disposizione.

Presi un respiro.

“Se solo potessi”, mormorai a Tessa, “gli offrirei tutto quello che ho”.

 

“Allora, ti sei goduta la pacchia, eh?”

Era sera, le otto passate. Elena mi rimproverava dall'altra parte della cornetta, ma ero certa che sul viso avesse stampato uno dei suoi soliti sorrisi felini.

“Anche tu non sei andata al lavoro oggi, o sbaglio?”, la provocai.

“Io ho una famiglia da gestire, cara mia. Non hai idea di quanta energia ci voglia per mandare avanti una casa e stare dietro ad una figlia adolescente, e non ho neanche la scusa di una gamba infortunata”, sospirò stanca, ma si avvertiva la sfumatura di affetto nella sua voce. “Per non parlare del terzo grado di mia madre stamattina. Non ne potevo più!”

Risi di cuore. Per fortuna che c'era Elena.

“Perché? Che ti ha detto?”.

“In poche parole mi ha ricordato come si fanno i bambini”.

“Non ci credo!”.

“Lo giuro! Un discorso molto dettagliato. Oddio, quanto è stato imbarazzante! Mi sembrava di avere di nuovo dodici anni”.

Scoppiammo a ridere contemporaneamente. Mi sentivo sempre meglio.

“Le ho persino raccontato di ieri sera, per filo e per segno, del mancato incidente, di quello che ti è successo, tutto, ma non mi ha creduto. Pazzesco”.

Sorrisi tra me e me. Non volevo farle notare che, in quanto a testardaggine, neanche lei scherzava. Mi morsi la lingua.

“Vabe'. Ma, piuttosto, dimmi un po', come va la caviglia?”

Sospirai rassegnata. La mia caviglia: l'argomento del secolo.

“Sei la milionesima persona che me lo chiede, oggi...”, replicai stizzita.

Per un attimo ci fu una pausa. “Oh, perdonami, non immaginavo. Chissà che rompiscatole che...”

La interruppi ridacchiando. “... E l'unica a cui sono felice di rispondere.”

La si udì emettere un sospiro di sollievo. “Cavoli, Angie, per poco non ti ho preso sul serio. Ti sto influenzando troppo”.

“E io te, a quanto vedo”.

“Non ci contare. Dai, dimmi come va”.

“Non bene come vorrei, ma neanche così male. L'ho medicata e fasciata e tutto, però è gonfiatissima. Ringraziando il cielo la signora Alba mi ha prestato un paio di stampelle, così posso almeno girare per casa senza sembrare un idiota”.

“La signora Alba che presta qualcosa di suo? Questa me la devo segnare...”

“Mi ha anche portato le lasagne, stamattina”.

“Oh, be', allora hai proprio operato il miracolo!”

“Dai, su, non è poi così tirchia”.

“No, è solo una persona geneticamente predisposta al risparmio”.

Mio malgrado, mi misi a ridere. “Esagerata! È che ci tiene, alle sue proprietà”.

“Sì, sì, meglio continuare a pensarla così”.

“Comunque Jessica come sta?”.

“...”

Silenzio dall'altra parte. Per uno, due, tre, quattro...

“Pronto?”

Nessuna risposta.

“Elena, sei ancora lì?”. Fissai lo schermo del telefono, pensando che fosse caduta la linea. La chiamata era ancora attiva. “Elena?”. Mi si ghiacciò la nuca. Avevo paura di aver toccato un tasto dolente, accennando a Jessica; magari sua figlia non aveva digerito il fatto che la mamma si era concessa le ore piccole, la sera prima, trascurandola, e poteva darsi che avessero litigato. Il senso di colpa mi gravò su tutto il corpo, fino in fondo allo stomaco, procurandomi un insopportabile senso di malessere: la responsabilità era soltanto mia.

“Elena, se è per ieri...”

“Shhhh”, mi zittì.

Deglutii il groppo di amarezza che si stava formando in gola e attesi, attesi che dicesse qualcosa, ma dall'altro capo nessuna risposta, nemmeno un bisbiglio, per svariati secondi.

Poi, finalmente: “Oh. Mio. Dio”

Le vertigini mi assalirono. “Cosa? Cosa è successo?”.

“Veloce, gira sul 17, presto!”.

“Perché? Che sta succedendo?”.

“Gira, gira!”.

Schiacciai il pulsante rosso del telecomando. La televisione prese a cantare.

Digitai il 17. Stavano trasmettendo il telegiornale locale della sera.

Mi si fermò il cuore.

... Tragedia sfiorata, ma non consumata, grazie all'intervento coraggioso di...”

Conoscevo quella voce, acuta e irritante. Era stata nel mio salotto, sul mio divano, appena quella mattina – Solo qualche ora fa?

... Tutta la gente radunata in via Verdi ha prestato prontamente soccorso e ha inveito contro la diciottenne al volante della BMW X5. La ragazza è stata scortata in caserma per...”

Era un incubo. Volevo morire.

... senza patente; ora si chiederanno spiegazioni ai...”

Non sentivo più nulla. Non volevo più sentire nulla. Non avrei più sentito nulla.

Mi tappai le orecchie e scossi la testa, ad occhi chiusi. Desideravo ardentemente che non fosse vero. Senza accorgermene, il telefono mi scivolò in grembo.

È solo un sogno è solo un sogno è solo un sogno è solo un sogno è solo un sogno è solo un...

Allora perché non mi svegliavo?!

Tornai a guardare la televisione; solo le immagini, l'audio lo ignoravo. Scorrevano, in rapida sequenza, inquadrature della città; innanzitutto la scena dell'accaduto, a più riprese: la strada per intero, i segni delle frenate sull'asfalto accanto al maledetto tombino, un SUV, uno qualsiasi, che svoltava per imboccare la fatidica via, passando davanti a La Bella Napoli, ancora le frenate, viste da un'altra prospettiva; e poi la caserma, il traffico della città, uno zoom su una volante dei carabinieri, una ripresa dove campeggiavano piedi e gambe di passanti, un'altra strada trafficata, altri passanti, e...

Eccolo! È quello là!”. Dal telefono sulle mie gambe, la voce di Elena si udiva appena, attutita, soffocata.

Non c'era bisogno di specificare a chi si riferisse. Lo vedevo da me.

Perché per un secondo, una piccola frazione di secondo, sullo schermo comparve una strada che ben conoscevo: la percorrevo ogni mattina per andare, calpestando il marciapiede lastricato con il muro scrostato sulla sinistra, fino al punto in cui si formava un angolo retto, che, svoltato, mi avrebbe condotto velocemente sul posto di lavoro. E proprio in quel punto, sulla traversa, sedeva un barbone, immerso nei suoi vestiti logori.

Lo conoscevo.

Era lo stesso che avevo incrociato per un istante la mattina prima.

Inavvertitamente, il muscolo nel petto cominciò a pompare sangue all'impazzata, sempre più forte, sempre più forte, più forte, più forte, più forte forte forte...

Con l'interesse ormai acceso e stranamente emozionata, sintonizzai di nuovo le orecchie sulla modalità on, sperando di captare qualche notizia in più sull'uomo a cui dovevo la vita, ma fui delusa.

... La vittima, fortunatamente, ha riportato soltanto una piccola microfrattura e ha promesso che ringrazierà l'eroico clochard con una lauta ricompensa”. Fine del servizio.

Non ci volevo credere.

Ma non è quello che intendevo!”, esclamai incollerita.

Piombai in un silenzio carico di elettricità, sbalordita.

Era ufficiale.

Quella Tessa Arrigoni mi stava proprio sul cazzo.

Era meglio concentrarsi sul mio salvatore, aveva un influsso decisamente migliore sul mio umore. Infatti subito i pensieri si rasserenarono, più leggeri, più felici, e il cuore tornò a battere in modo agitato.

Richiamai alla memoria l'immagine sullo schermo.

Ora non era più solo un'illusione nella mia testa. Ora avevo negli occhi l'immagine di un uomo in carne e ossa. Ora sapevo dove potevo trovarlo, o almeno tentare di trovarlo. Ora era una presenza corporea, e non aria e suono. Ora potevo parlargli, per lo meno avrei potuto. Ora, ora, ora...

Sì, ma ora? Che avrei fatto?

Ah, che importava? Al momento la cosa fondamentale era che ci fosse. Da qualche parte, là fuori, chissà dove in quel momento, in quel mondo aperto. Ma c'era.

Poteva bastare.

Sorrisi nell'oscurità della stanza.

La voce lontana e ovattata di Elena mi riportò al presente. “Adesso sì che mia madre mi crederà!”.

  
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