Capitolo 4
Maschere,
stereotipi
Ogni uomo mente,
ma dategli una maschera
e sarà sincero.
[ Oscar Wilde ]
Non
appena Sasuke Uchiha finì la sua (inutile) testimonianza, le teste dei
due si girarono, lentamente, verso il diretto interessato; e, per la quarta
volta in quella dannatissima giornata, quattro paia di occhi lo osservarono
fisso.
«Be’,
signor Nara… a quanto pare, ora tocca a lei… e se i suoi due amici
non hanno avuto nulla da dirci, be’, magari con lei la storia sarà
diversa…»
Ok, è fatta: fu questo il primo
pensiero del commissario Sabaku no, seduto dietro la sua amata e vecchia
abat-jour, che tante volte quel pomeriggio aveva scosso. La verità non
si celava dietro il cretino esagitato, né dietro la statua di
marmo… no, la verità si
celava dietro quel tizio apatico che non aveva detto una parola durante tutte
quelle ore, ma che si era limitato a sbadigliare in continuazione e a stare
stravaccato sulla propria sedia. Sì, sì… era
così…. Il nemico era
lui, lui…
Il
nemico in questione reclinò il capo all’indietro e diede un sonoro
sbadiglio.
«Che
palle. Io ve l’ho detto, ve
l’ho detto» si massaggiò per un attimo gli occhi
piccoli, pieni di sonno «io vostra sorella non l’ho mai sentita.»
Ma
i due non parevano demordere, no.
«Non
sprechi il fiato. Ci racconti, per iniziare, di come ha incontrato questa
Sakura Haruno di cui ha parlato prima.» disse Gaara, tranquillo. Kankuro,
al suo fianco, stava tamburellando le dita al tavolo.
L’atmosfera
si fece tesa; Shikamaru si mordicchiò leggermente un labbro. Naruto,
alla sua sinistra oltre Sasuke, si sporse in avanti e sibilò:
«Sì,
Shikamaru, dicci un po’ come hai incontrato Sakura!»
Nara
si sgranchì le ossa del collo, lentamente, e sempre lentamente,
sbadigliò.
*°*
[ Quel maledetto giorno ]
Che
palle.
Era
questo ciò che il geniale Shikamaru Nara stava pensando più o
meno dall’inizio della giornata. Si era svegliato presto perché
doveva andare a lavorare; a pranzo non aveva mangiato perché stava fin
troppo bene dietro il suo amato computer; nel primo pomeriggio aveva dovuto
assistere a quella noiosissima cerimonia chiamata matrimonio… e ora era davanti all’ennesimo dolce di
quella tremenda serata. Andava proprio bene… Se almeno fosse rimasto
Naruto accanto a lui, avrebbe avuto qualcuno con cui parlare; invece quel
cretino era andato a ballare (attratto da delle ragazze davvero molto carine,
in particolare una delle tre che ora non ricordava molto bene) e al suo posto
c’era Sasuke… il freddo, gelido Sasuke, proprio il tipo ideale di
compagnia… Oltretutto, fra i due si era messa una spilungona bionda che continuava a parlare con Sasuke –o meglio, lei continuava a parlare mentre lui annuiva ogni tanto: sarebbe stato
impossibile scambiare due chiacchiere.
Che
noia. Sbadigliò un po’, mentre i camerieri portavano un altro tipo
di dolce (un enorme profitterol)
e il pianista, a un lato del salone, componeva l’ennesima melodia di
sottofondo. Si slacciò leggermente la base della cravatta legata al suo
collo; faceva un caldo… sbadigliò ancora… quando gli venne
un’idea. Perché non inventarsi un qualche improrogabile impegno di
lavoro e scappare a gambe levate da quel torpore…? Erano le undici di
sera, lui stava morendo per l’afa e per il sonno, e non c’era
niente da fare; non era un’idea malvagia… certo, forse Neji ci sarebbe rimasto un po’ male, ma pazienza. Avrebbe
preso un taxi, visto che aveva avuto la sgradevolissima idea di venire a quella
cerimonia in macchina con Naruto, e finalmente avrebbe dormito un
po’… Si era quasi convinto di quella trovata (era già in
piedi con un sorriso trionfante) quando il grande portone dorato della sala si
aprì, e apparve una ragazza –anzi, la ragazza che prima lui stesso
aveva puntato fra quelle biondine notate da Naruto. Lui la seguì con gli
occhi: lei si aggirò fra i tavoli con sicurezza, finchè non
arrivò a quello di lui (che nel frattempo si era stranamente seduto di
nuovo), pose le mani sui fianchi, si avvicinò alla ragazza bionda e alta
e mormorò:
«Ehi,
spilungona, non avevo detto che mi dovevi aspettare?»
L’altra
stava sorseggiando un bicchiere di vino bianco; alzò le spalle e riprese
a mangiare come se nulla fosse. La nuova arrivata le scoccò un freddo sguardo
e sbirciò il posto alla destra di lei (su cui sedeva Sasuke) e quello
alla sinistra… su cui sedeva Shikamaru. Sbuffò, si grattò
vivacemente il capo e si sedette alla sinistra di quest’ultimo, che la
osservò un po’ meglio.
Aveva capelli corti e biondi,
occhi verdi e grandi; indossava un vestito molto semplice, senza spalline, che
si reggeva direttamente al busto; ma il suo fisico lo fece impazzire… non
aveva mai amato molto le donne troppo magre e secche (come la spilungona seduta
alla sua destra), preferiva invece quelle leggermente in carne, ma con le forme
nei posti giusti, e lei era esattamente così: formosa, ma non troppo,
né troppo poco. Deglutì.
«Ah, ma che palle.»
proruppe la nuova venuta, sedendosi in maniera piuttosto rude. Iniziò a
mangiare voracemente il dolce appena arrivato; e così fece pure
Shikamaru, ma senza alcuna voglia. Forse doveva veramente andarsene…
forse doveva dar retta al suo sesto senso e inventarsi quella balla sul lavoro
da svolgere (in realtà, il giorno dopo avrebbe avuto un giorno libero) e
prendere quel maledetto taxi… forse… però…
Passarono molti minuti nel
più totale silenzio e torpore; dalla sala accanto provenivano vari
rumori (definire musica quella roba
non era proprio possibile, no) dal volume talmente alto da far vibrare i vetri
delle finestre del salone in cui stavano mangiando. Erano le ventitré e
trenta e Shikamaru Nara si esibì nell’ennesimo sbadiglio; Sasuke
era uscito per fumare una sigaretta, seguito a rotta di collo dall’altra
bionda –che aveva manifestato a sua volta un’incredibile quanto
improvvisa voglia di fumare.
«Ma tu non fumi!» le aveva sibilato la ragazza dai capelli corti.
L’altra aveva sorriso.
«Be’, neanche tu balli,
eppure sei appena tornata da tutto quel casino…» ribatté;
non aspettò la risposta della prima, ma si ravvivò i capelli e
seguì il ragazzo (che, sasukemente, non l’aveva aspettata).
La biondina rimase di sasso;
continuò comunque a mangiare avidamente.
E ancora, scese il silenzio.
Shikamaru sarebbe morto di noia se non avesse fatto qualcosa.
«Allora, come va?»
mormorò dopo mezz’ora di silenzio assoluto da parte
dell’altra. Lei
lo guardò con occhi sgranati, come se avesse pronunciato qualcosa di
assurdo.
«Mmm, come dovrebbe andare?» rispose.
Lui
tirò su un sopracciglio. Non amava le ragazze così tanto rudi.
«Potevi
dire semplicemente “bene”.
In maniera educata, sai.»
Lei
evidentemente si accorse di essere stata maleducata; ma qualcosa (il suo
carattere, probabilmente) le impediva di scusarsi o quantomeno di ammetterlo.
Perciò continuò tranquillamente a mangiare il proprio dolce (dal profitterol erano passati a una vivace crostata alla frutta),
tenendo lo sguardo fisso, ma dicendo:
«Be’,
sono a una noiosa cerimonia mangiando dolci -che odio- e aspettando che questa qui» e indicò il posto vuoto accanto a
Shikamaru su cui prima era seduta la spilungona bionda «mi riporti a
casa, visto che sono sfortunatamente venuta in macchina con lei… ma lei
non ha occhi che per il tuo amico, dal quale si scollerà in tempi non brevi. Dimmi tu.»
Lui
annuì vagamente, stravaccandosi sulla sedia e lasciando metà del
proprio pasto lì dove il cameriere glielo aveva servito. Osservò
l’ampio e variopinto soffitto di quella sala enormemente grande e
studiò con attenzione il pesante lampadario di vetro e cristallo che li
sovrastava; oh, che diamine, non c’era nulla, nulla, che attirasse il suo intelletto sopito… Il vino che
aveva bevuto gli aveva messo sonnolenza; una strana patina aleggiava sui suoi
occhi. Se solo avesse potuto addormentarsi lì, o meglio ancora sdraiarsi
nel grande parco a guardare le stelle… addormentarsi a un matrimonio
poteva essere considerato un gesto rozzo? Era una cosa da valutare…
Silenzio,
ancora. Shikamaru tentò di ridestarsi; osservò la sua compagna di
tavolo, che sembrava arrabbiata… o forse era stanca solo a causa del gran
ballare (ma che strano, non la faceva tipo da gettarsi nelle danze), visto che
a detta della spilungona bionda lei aveva ballato fino a poco prima.
Probabilmente poi si era stufata ed era venuta a mangiare qualcosa, ma aveva
trovato tutti i piatti migliori già serviti e la sua amica non del tutto
disposta a fare conversazione, perciò era –
«Be’?
Che hai da guardare?» sibilò la diretta interessata, mentre beveva
con noncuranza del vino rosso.
Il
ragazzo si rinvigorì di botto; aveva passato gli ultimi minuti a
fissarla. Deglutì, dando un falso sbadiglio per avere il tempo di ribattere
qualcosa, qualsiasi cosa… Fin quando, accadde.
Un’idea lo colpì come un tuono: un’idea magnifica, geniale.
Il ragazzo si interessò a qualcosa dopo tante ore. Il problema era: farlo
o non farlo? Voleva davvero correre il rischio di agire nel modo in cui il suo
cervello aveva per un brevissimo istante comandato…? Shikamaru Nara era
pigro, verissimo, ma voleva a tutti i costi uscire da quell’enorme
torpore provocato dall’afa, dalla noia, dalla solitudine di quella
serata…
Sì.
Lo avrebbe fatto.
«Niente…
ma, mmmh, non credo sia molto femminile mangiare in quel modo.»
Era
una piccola, lievissima provocazione,
fatta tanto per animare quella tragica situazione… ma si pentì
subito. Quella con cui stava parlando era una donna, essere con il quale lui non si era mai trovato a suo agio; non
aveva molte amiche femmine né aveva grandi rapporti con il genere
femminile… le donne tendevano a parlare troppo e a non agire in maniera
lineare, finendo col rendere qualsiasi cosa complicata a livelli insopportabili
per lui. Lei non sarebbe stata diversa, né avrebbe mai risposto a quel
suo disperato tentativo di scacciare la noia: avrebbe commentato qualcosa
riguardo a una dieta che non aveva seguito e a quanti sforzi avrebbe dovuto
fare per rimediare a –
«A
parlare è lo stesso essere
seduto in quel modo, o sto sognando?» ribatté lei, evidentemente
infastidita. «Perché io non chiamerei mai uomo uno seduto a quella maniera.»
In
effetti, lui era del tutto sbragato sulla sua poltroncina: era scivolato
parecchio in avanti, perciò le sue gambe erano stravaccate sotto il
tavolo, il suo sedere era quasi penzoloni dalla struttura e aveva testa e collo
appoggiati allo schienale. Ma non si mosse.
«Perché,
un uomo si definisce da come si siede?» rispose a sua volta, ora piccato
come l’altra.
«E
una donna da come mangia?» controbatté la ragazza, posando
ordinatamente coltello e forchetta sul piatto.
«Be’»
proruppe Shikamaru, ora sedendosi un po’ meglio (in effetti state
stravaccati a quel modo corrompeva la salute della sua schiena tanto quanto le
lunghe ore passate davanti al computer) «siete voi donne che fate tutti i vostri discorsi sulla linea, la dieta, e
cose così… perciò, siccome tu hai mangiato in quel modo
–»
«…hai
tirato le tue belle conclusioni maschiliste, certo. E voi uomini, se lo vuoi sapere, ragionate tutti per stereotipi
uguali, e tu ne sei la conferma.»
Scese
un silenzio piuttosto gelido. Shikamaru si morse un labbro… ecco, lo
sapeva, non avrebbe dovuto parlare, lei l’aveva presa troppo a cuore e ne
aveva fatto una questione personale, quando lui voleva semplicemente parlare un
po’ con qualcuno… ma che diamine gli era saltato in mente…
«Non
si lascia il cibo nel piatto, comunque» borbottò lei dopo qualche
minuto di gelo, con piatto e bicchiere perfettamente vuoti. «Non te l’hanno
insegnato? Non è educato, sai.» Aveva un sorriso sarcastico in
faccia, come se si fosse appena presa una (seconda) rivincita personale per
quello che lui aveva detto; di bene in meglio, insomma…
«Oh,
fa niente. Questo non fa male a
nessuno.»
«Per
carità, ma -visto che prima di offendermi parlavi tanto di buone
maniere- non è educato.»
L’altro
sbadigliò vistosamente.
«Visto?
Voi donne siete tutte così vendicative, quando vi si tocca sul
personale… e tu ne sei la conferma.»
«E
voi uomini, ti ripeto, giudicate sempre e solo su stupidi stereotipi.»
L’altro
sogghignò.
«Non
è uno stereotipo a sua volta quello che hai appena detto?»
Lei
aprì la bocca per rispondere, ma pensò che (oggettivamente
parlando) quello che lui aveva appena asserito era vero. Perciò la richiuse, le sue guance arrossirono un
po’, distolse lo sguardo da un’altra parte e borbottò:
«Be’,
tutto ciò… in ogni caso… non ha assolutamente senso.»
Lo
strano silenzio scese su di loro, ancora. Si guardarono e poi distolsero gli
occhi e si guardarono ancora; Shikamaru non riuscì a capire se lei era
arrabbiata, nervosa, dispiaciuta o orgogliosa. Sapeva solo una cosa… che
era estremamente interessante. La
noia della serata sembrava non essere mai esistita; il suo intelletto
vibrò di piacere. Erano rari i casi in cui riusciva ad animarsi
così tanto dalla pigrizia, e quando uno di quei rari casi lo prendeva,
complice quel magnifico vino che aveva lo aveva accompagnato per tutta la
serata…
«Facciamo
un gioco.», mormorò, quasi ridendo.
*°*
«Quindi,
tu dici che questa ragazza è la stessa Sakura Haruno di
quell’altro, sì?» disse Kankuro, guardando ora Nara ora Uzumaki. «Una donna in comune. Brutta situazione, eh.
Brutta davvero.» commentò, ridendo.
Shikamaru,
lo sguardo fisso a terra mentre raccontava, si morse un labbro; Naruto
pestò un piede a terra, ma non disse nulla.
«Ma
come fate a dirlo?» domandò Gaara, più pacifico.
Ora,
Shikamaru alzò la testa al soffitto, osservando le pale delle ventole
che giravano, ma non rispose. Lo fece invece Kankuro:
«Be’,
dalla descrizione di questo qui, erano le undici e dieci quando lei è
entrata nella sala per mangiare, e quell’altra ragazza bionda aveva detto
che era stata fino a quell’ora nell’altra sala a ballare…
Questa è bionda, capelli corti… e, uhm, che lavoro
fa…?» chiese poi, notando che non sapevano ancora quel particolare.
«E’
un medico.» disse Shikamaru, piano, sempre con la testa rivolta al
soffitto.
I
due fratelli si guardarono. Anche Temari era un medico…
«Eh…!
Le cose sono fin troppo uguali per essere una coincidenza.»
Ma
Gaara sembrava sospettoso: si portò una mano al mento e ragionò.
«Che
vestito aveva questa ragazza?»
Shikamaru
lo guardò, accigliato come se stesse facendo un enorme sforzo di
memoria; parve ragionare per un lungo istante…
«E’
il modello senza spalline, quello che si regge al busto, credo…»
«Come
quello dell’altra ragazza… Ok, ma è un tipo di vestito molto
comune. Voglio dire, di che colore era? Fino a dove le arrivava? Aveva
decorazioni strane…? E anche quello dell’altra ragazza, signor Uzumaki…»
Ma
era ovvio che il commissario si fosse spinto troppo in là: entrambi i
ragazzi alzarono lo sguardo ed entrambi lo guardarono, perplessi.
«Gaara»
gli bisbigliò all’orecchio il fratello «…sono uomini.»
E,
se c’è uno solo fra
tutti gli stereotipi esistenti che rispecchia la realtà, è il
fatto universalmente noto che per gli uomini scarpe, capelli, trucco e
(soprattutto) vestiti sono assolutamente tutti
uguali.
*°*
[ Un’ora
dopo di quel maledetto giorno di cinque settimane prima
]
Shikamaru
iniziò suonando un qualche pezzo molto semplice; non era mai andato
d’accordissimo con la musica, sapeva suonare solamente i pezzi di base e
solamente il pianoforte… ma il destino aveva voluto che lì, in
quell’enorme salone, un pianoforte effettivamente ci fosse. E, in base alle regole del gioco, lui aveva iniziato a
suonarlo con tutta tranquillità, e lei naturalmente lo aveva guardato
con tanto d’occhi.
«Non
sei molto capace» disse dopo un po’.
Lui
fece spallucce.
«Be’,
mi andava di farlo» borbottò, a mo’ di scusa «e
l’ho fatto. Sono le regole del gioco, mia cara. Niente pregiudizi.»
Gli
occhi di lei da glaciali erano improvvisamente diventati incuriositi e (quasi)
divertiti; si morse un labbro. Sembrava tentata; si guardò intorno. Nel
grande salone erano rimasti solo loro due: era l’una di notte e tutti gli
invitati più anziani erano andati via da un bel po’, mentre i
ragazzi erano ancora appresso al mefistofelico rumore della sala di fianco. I
camerieri avevano sparecchiato i tavoli su cui poco prima avevano mangiato e si
stavano occupando ora di ripulire un’altra ala di quell’enorme
villa; perciò i tavoli erano tutti coperti, le sedie rivoltate e
l’illuminazione era al minimo. Dalle grandi finestre aperte provenivano
l’afa estiva e la brezza del grande parco. Era un’atmosfera un
po’ surreale.
«Perciò,
se sono aboliti davvero tutti gli stereotipi, be’…»
sussurrò l’altra, furba, per poi scostarsi dal pianoforte,
dirigersi verso il fondo della sala e tornare con una bottiglia di vino. Che
stappò con un semplice morso e bevve avidamente.
«Molto,
molto femminile.» commentò il ragazzo, quasi compiaciuto.
Lei
sollevo un sopracciglio chiaro e lo scrutò.
«Non
avevamo detto niente pregiudizi? Che ne sai, magari io nella vita di tutti i
giorni sono una perfetta fanciulla, molto delicata ed eterea… e stanotte,
solo per te, sarò uno scaricatore di porto.» lo guardò con
quei suoi occhi da gatta, furbi e calcolatori, che adesso brillavano più
di prima. «Tu sei solo uno sconosciuto,
vorrei ricordarti… è la seconda regola.»
Le
regole del gioco erano molto semplici, in effetti; anche perché, erano
solo due.
Prima
regola: fare esattamente tutto ciò
che ti viene nella testa, invece di dar retta a stupidi stereotipi.
«Senti,
io non ti conosco, né tu conosci me, e a me sinceramente va benissimo
così. Ma io sto morendo di noia, non ho nessuno con cui parlare, sto
morendo di caldo… e tu sei nella mia stessa condizione. Perciò, mi
chiedo, perché non passare comunque una bella serata?»
Lei
lo aveva guardato di sottecchi e si era limitata ad annuire; ma era innegabile
che stesse pensando alla precaria sanità mentale del tizio che aveva di
fronte.
«Oh,
andiamo, pensaci…! Ci tratteremo entrambi come se ci conoscessimo da una
vita, in modo da evitare imbarazzi e convenzioni sociali vari, e faremo
assolutamente quello che vogliamo… senza timore del giudizio altrui,
senza cadere in stereotipati pregiudizi che mi pare che tu odi tanto…
semplicemente, passeremo una serata diversa.»
Seconda
regola: non cercare di scoprire
l’identità dell’altro, perché da domani non vi
vedrete mai più.
«E
l’altra regola fondamentale è il non conoscersi, giusto?»
aveva replicato la ragazza. Nonostante il suo sguardo piuttosto freddo,
sembrava quasi interessata.
«Esatto»
aveva annuito lui, togliendosi del tutto la cravatta dal collo e bevendo ancora
un po’ di vino. Si era sentito refrigerato, animato, vivo; il fatto che lei sembrasse più o meno incuriosita lo
attirava da morire. «Io per te sono Ananas e tu per me sei Ventaglio, e
così rimarremo. Non ci cercheremo mai più, né sapremo
l’uno dell’altra, in modo da evitare seccature varie, se
capisci…»
Lei
era sembrata ancora un pochino restia.
«Quindi,
be’, per me tu sei uno… sconosciuto, che
conosco da sempre, per una sola sera. Perciò, uhm, niente stereotipi sugli
uomini, sulle donne, su come una si deve comportare, ma saremo noi stessi,
naturalmente…?»
Lui
aveva sorriso, perché Ventaglio aveva capito subito lo spirito del
gioco: proprio il loro battibecco sugli stereotipi gli aveva suggerito il fatto
che, senza tutte quelle tremende condizioni sociali, il resto della serata
avrebbe potuto passare in maniera molto più interessante. Cosa che non
sarebbe potuta accadere altrimenti: avrebbero sicuramente finito col parlare di
lavoro, di università, di fidanzati, o della bellissima coppia di
sposini…
«Sì,
esatto, sono uno sconosciuto. E prometto solennemente
di rimanerlo.» disse, servendosi di un altro po’ di vino, ponendo
una mano sul cuore. «Tanto, tu non sai chi sono, non sai il mio nome, e
usciti di qua non mi vedrai mai più, né io ti cercherò.
E’ più facile lasciarsi andare con uno sconosciuto, perché
non avrai né colpe né rimorsi… Niente di tutto quello che
farai o dirai uscirà da qui. Potresti addirittura far finta di essere
un’altra persona, per quel che mi riguarda… magari una persona che sorride ogni tanto.»
Lei
aveva alzato un sopracciglio chiaro. E aveva sorriso.
Perciò,
anzitutto Ananas aveva deciso che avrebbe voluto essere un pianista, e
perciò lo era diventato; nel frattempo, Ventaglio lo guardava mentre
pigiava tasti a caso.
«Be’,
dopo un po’ di vino» proruppe, guardandosi attorno «ci vuole
un altro tocco di classe.»
E
così dicendo si guardò intorno, scrutò per bene la sala e
solo quando fu del tutto sicura che non ci fosse assolutamente nessuno fece quel
che voleva fare dal momento in cui il ragazzo aveva iniziato a suonare… e
che secondo la Prima regola del gioco doveva assolutamente fare. Iniziò perciò ad agitarsi
goffamente sulle sue ballerine in quello che era inconfondibilmente un tip tap. Shikamaru la
osservò e iniziò a ridacchiare; le donne non avrebbero dovuto
essere agili, esili e aggraziate…?
Lei
sapeva ballare quanto lui sapeva suonare, eppure quello spettacolo andò
avanti, fino a quando lei non si sedette accanto a lui, scossa per il fiatone.
«Mmm, sai» mormorò poi, mentre si massaggiava i
polpacci «non è male come gioco.»
Il
vino aveva sorbito uno strano effetto su di lei: sembrava più allegra e
molto più propensa a lasciarsi andare.
«Be’,
cara Ventaglio, balli come un uomo…» sussurrò lui, servendosi
a sua volta di quel buon vino, ma dal bicchiere.
Lei
lo guardò di sottecchi.
«Che
ne sai, magari io nella vita di tutti i giorni sono una perfetta fanciulla,
molto delicata ed eterea… e stanotte, solo per te, sarò uno
scaricatore di porto.» lo guardò con quei suoi occhi da gatta,
furbi e calcolatori, che adesso brillavano più di prima. «Tu sei
solo uno sconosciuto, vorrei ricordarti.»
Lui
ridacchiò, sempre continuando a battere le dita sul pianoforte a coda,
incapace di guardare da altra parte se non nei suoi occhi. Il vino gli aveva
dato alla testa; si sentiva piuttosto brillo.
«Lo
so benissimo, non metterti strane idee in testa. Ti ricordo che io sono…
sì, sono lo sconosciuto che ti conosce da una vita, sei una sorta di
migliore amico mai incontrato…» borbottò. Probabilmente
quanto aveva detto non aveva un vero e proprio filo logico, ma aveva bevuto fin
troppo per potersene assicurare; sapeva solo di sentirsi benissimo. E sapeva
solo che gli occhi di lei erano bellissimi…
«Amico? Addirittura?» replicò
l’altra, sveglissima. Sebbene Ventaglio avesse bevuto più del
compagno, era molto più arzilla di lui: continuava a tracannare vino
rosso come fosse acqua.
«Be’,
bevi come un uomo, balli come un uomo… e hai un nome da uomo.»
Ma
Ventaglio non aveva decisamente le
forme di un uomo, quelle no. Anzi, quel vestito senza spalline aderiva a quel
fisico mozzafiato…
«Ancora
questi pregiudizi» ridacchiò lei.
Shikamaru
la scrutò: non sembrava una persona che ridesse molto o che desse tutta
quella confidenza, eppure gliela stava dando; anzi, sembrava perfino
divertirsi. Lui l’aveva giudicata molto fredda, razionale,
distaccata… ma così non sembrava. Che davvero quella ragazza
stesse giocando molto meglio di lui a quello strano gioco di sua stessa
invenzione, o magari era davvero quella la vera
lei che nella vita di tutti i giorni era nascosta dietro una maschera di
distacco e che veniva a galla solo ora, di fronte a uno sconosciuto? Difficile
a dirsi. Ma anche lui, a sua volta, nella vita normale non era certo così
attivo, né proponeva idee tanto bizzarre a belle ragazze appena
conosciute…
Shikamaru
continuò il suo assolo, servendosi di altro vino, sorridendo.
*°*
[ Un’altra ora dopo]
Avevano
dovuto staccarsi dal pianoforte e prendere una boccata d’aria,
perché il caldo non smetteva di angustiarli, sebbene fossero quasi le
due di notte. Il grande parco sotto il loro balconcino era immerso nel silenzio
e nell’oscurità; da lontano veniva un soffocato verso di un gufo.
«Ma
la tua amica si è persa?», le chiese, mentre si accendeva una
sigaretta.
Lei
era appoggiata alla fine balaustra di marmo e sembrava assorta nei suoi
pensieri; si ridestò non appena il ragazzo parlò.
«Oh,
probabile. Il tuo amico ha fatto colpo.» commentò; la lieve brezza
le scompigliava i capelli corti. «Ma che stupido stereotipo, rimorchiare
a un matrimon–»
Non
finì la frase: aveva notato la sigaretta accesa fra le labbra di lui.
Assottigliò gli occhi chiari e dilatò le narici.
«Fumare
fa male, lo sai?»
Lui
fece spallucce; era quello che gli ripeteva ogni giorno sua madre. Prese una
boccata e aspirò; il fumo volò via.
«Fa
male sul serio. La pressione del sangue, le contrazioni e il battito del cuore
aumentano, i vasi sanguigni periferici si contraggono; il monossido di carbonio
interferisce con il trasporto dell’ossigeno nel sangue, e tutto
ciò crea dipendenza. Non ti dà fastidio essere dipendente da qualcosa?»
Shikamaru,
ancora, fece spallucce.
«Mi
rilassa.» disse solamente.
Ventaglio
alzò gli occhi al cielo. Ananas ridacchiò: finalmente, questa
ragazza aveva qualcosa di davvero femminile… era apprensiva e seccante esattamente come una donna.
«Il
fumo aumenta il rischio di tumori. Nell’ultima conferenza a cui ho
assistito, c’erano centinaia di persone che si maledicevano per aver
fumato!» ribatté.
Sembrava
che quella questione la prendesse particolarmente a cuore; ma che motivo
c’era…? Non lo conosceva, né lo avrebbe più rivisto,
era però come se fosse suo dovere dirglielo… Shikamaru
rifletté… e capì istantaneamente il motivo di tutto questo.
«Sei
un medico.»
Non
era una domanda, e questo Ventaglio lo capì: le sue guancie arrossirono
e, per un istante, tornò ad indossare la maschera (o forse, tornò
ad abbassare la maschera, difficile
dirlo) di qualche ora prima. Ananas ne intuì il motivo: lui aveva
scoperto qualcosa di lei, ma lei nulla di lui; era un po’ come se avesse
perso. Doveva essere una persona molto orgogliosa.
«Be’,
allora fai un po’ come ti pare» bisbigliò lei, voltandogli
le spalle e rientrando nel salone.
Ma
l’altro alzò gli occhi al cielo, spense la sua beneamata sigaretta
quasi intatta sul parapetto bianco del balcone e la seguì dentro.
*°*
[Due buone ore
e mezza dopo di un’ora dopo di un’ora dopo]
Quella
villa era, effettivamente, enorme. Ananas e Ventaglio lo avevano appena
scientificamente dimostrato; avevano passato l’ultima ora a perlustrare
le stanze, per poi scoprire almeno venti camere da letto, un altro salone
grande quasi quanto quello in cui avevano cenato, una dozzina di splendidi e
raffinati bagni, qualche coppia appartata in due o tre posti… il tutto
corredato da ampi corridoi ricolmi di quadri, vasi, teche di vetro. Sebbene
fossero al terzo o quarto piano dell’edificio, potevano ancora sentire il
frastuono da discoteca del piano terra; ovunque andassero, aleggiava su loro
quel rumore.
«Be’,
almeno Naruto si starà divertendo…» bofonchiò lui,
mentre scendevano un’enorme scalinata di marmo, che (come nelle
commediole romantiche) si divideva in due ampi rami e collegava le due
differenti parti della casa al piano superiore che avevano appena esplorato.
«E, uhm, anche la tua amica.»
Con
la tua amica lui intendeva la tizia
–di cui naturalmente Shikamaru non ricordava la faccia- per cui il suo
amico si era preso uno straordinario colpo di fulmine; ma lei aveva
evidentemente capito male.
«Oh,
sì. Ma quando torna la uccido, è tardissimo e mi aveva detto che
non avremmo fatto più tardi di mezzanotte…
quell’oca…»
Lui
si fermò a metà scalinata, colpito.
«Be’,
se posso… questa me l’hai proprio servita su un piatto
d’argento… questa
è una cosa tipica di voi donne. Parlarvi male alle spalle.»
Lei
si irrigidì un momento, ma poi continuò la sua scesa verso il
piano inferiore come se nulla fosse.
«Non ne parlo male, è la
verità» bofonchiò.
Forse
si era resa conto del fatto che uno stereotipo una volta tanto rappresentasse
la realtà, o forse aveva parlato un po’ troppo male di quella che
in effetti era una sua amica; perciò non commentò oltre.
Finirono
di scendere la lunga scalinata di marmo e si guardarono intorno; erano tornati
vicino alla sala da pranzo, accanto alla discoteca.
«E’
tardissimo.» borbottò lui, sbadigliando rumorosamente. Si
grattò il capo e si sbracò su una sedia lì vicino; non
aveva smaltito ancora tutto il vino ingurgitato. Era stanchissimo, erano quasi
le cinque di mattina, Naruto probabilmente non si sarebbe mai scollato da
quella tipa e lui aveva appena sfidato la sua famosa pigrizia, facendo tutto il
giro di quell’enorme villino… sbadigliò ancora, più
forte.
«Dovremo
pagare quel vaso, secondo te?» bisbigliò lei.
Il
ragazzo osservò la sua strana amica. Dopo che lui era venuto a
conoscenza della sua professione nella vita reale, Ventaglio aveva evidentemente
deciso di non parlargli più e così aveva iniziato a vagare per
stanze e saloni, ignara della presenza di lui e delle sue più o meno
esplicite scuse; ma lui, più testardo, le era andato dietro…
finchè lei, spazientita, non si era voltata così rudemente da far
cadere un enorme e (evidentemente) costoso vaso di cristallo. Il rumore aveva
fatto accorrere qualche cameriere, che loro non erano rimasti certo lì
ad aspettare; avevano corso e si erano trovati dall’altra parte del villone, mentre lei imprecava a bassa voce.
Shikamaru la guardò. Era una
ragazza strana, sì, ma era anche parecchio interessante; sembrava una
continua e roboante fonte di novità. Non appena il ragazzo aveva anche
solo pensato di aver capito il suo carattere, il suo vero carattere, lei subito ne mutava forma e lo lasciava allibito;
ora rideva, ora era orgogliosa, ora scappava imprecando, ora stappava del vino
con la bocca…
«Mmm, non se ci trovano. E comunque…»
Ma
lei non lo stava ascoltando: era intenta a fissare qualcosa oltre la testa di
lui. Quella cosa sembrò attrarla: lasciò lì Ananas senza
dire una parola e si incamminò verso una porta socchiusa.
Abituati
alla vastità delle altre sale, questa sembrava ancora più piccola
di quanto non fosse: era un piccolo ambiente pieno di tavoli coperti e di sedie
rovesciate e di tovaglie ammuffite. Lì, sotto un telo bianco ricoperto
di polvere, era seminascosto un grande grammofono; la ragazza sollevò il
drappo e osservò il giradischi.
«Mio
padre ne aveva uno identico.» bisbigliò.
Shikamaru
non capì perché glielo avesse detto, né perché quell’oggetto
la avesse incuriosita tanto; la osservò prendere la puntina, appoggiarla
sul disco metallico che era lì da chissà quanto tempo, e
ascoltare rapita la canzone che ne uscì fuori. Era una vecchia canzone
jazz molto sentimentale: sembrava piacerle.
E,
ancora una volta, lo lasciò senza parole. Quella ragazza era davvero una autentica fonte di
novità; non appena pensava di conoscerla, ecco che ne veniva fuori
un’altra versione. Lei stava ascoltando affascinata quella melodia che
lui aveva ritenuto essere fin troppo romantica per poterle piacere… e
invece, se la stava gustando di cuore.
«Mia
madre amava il jazz.» disse lei, a mo’ di scusa, non appena vide lo
sguardo indagatore di lui. «E… uhm…»
Sembrava
imbarazzata.
«Ananas,
quel gioco vale ancora?» chiese.
Non
sembrava più la donna autoritaria che lo aveva incuriosito; ora sembrava
un po’ più indifesa, fragile… o era solo una sua
impressione? La ragazza non lo dava molto a vedere, ma quella melodia la aveva
addolcita, almeno un po’.
«Ovvio,
signorina Ventaglio.» rispose lui, inchinandosi.
E
le offrì la mano.
«Be’,
allora…» disse lei, prendendola nella sua destra, e poggiando la
sinistra sulla sua spalla «diamo sfogo ai clichè
e agli stereotipi da “festa di matrimonio”.»
E,
semplicemente, ballarono. Non fu uno spettacolo molto migliore di quello del
pianista con la sua ballerina di tip-tap; né riuscì molto meglio
di quello strano gioco che aveva preso piede, ma che era inevitabilmente
naufragato, perché mai come ora lui voleva sapere il nome di lei, e mai
come ora lui voleva avere la speranza di rivederla il giorno dopo…
diamine, diamine, che totale idiota che era! Ci era cascato con tutte le
scarpe. Tutta quella farsa, tutta quella sicurezza che aveva provato
finora… era tutto, tutto svanito, per due occhi verdi e un bel corpo che
ballava insieme a lui! Che idiota…
«Sai»
proruppe lei, bisbigliando, mentre la musica continuava ad andare lenta
«questo gioco mi piace molto… soprattutto la parte del non rivedersi mai più.» Lui
continuò a stringerle la mano e la vita, apparentemente incurante di
ciò che lei stesse dicendo; i loro volti erano a un soffio di distanza.
«Sarebbe complicato e controproducente, non trovi? E sarebbe un cliché atroce… non siamo
certo in un film, o in un libro…»
Lui
annuì, deciso e non guardare gli occhi di lei, un palmo sotto il suo
naso, né a incrociare le sue labbra… Naturalmente, il suo tono
apatico non lasciò intendere nulla di tutto ciò: non se lo poteva
permettere.
«Mah,
sì. Ci ricorderemo di questa bella… e strana… serata, sapendo che non ci saranno scocciature o noie
che verranno dopo, sapendo che tanto non uscirà nulla di quanto abbiamo
detto questa sera, e questo ricordo resterà intatto, insom–»
Ma
la femminile leggiadria di lei la portò a inciampare proprio mentre lui
parlava: lui la prese al volo, ma nell’urto finirono a terra.
I
loro occhi si incontrarono: erano a pochi millimetri di distanza.
Le
loro mani erano avvinghiate.
Il
leggero rossore sulle guance di lei la rendeva ancora più bella.
Shikamaru
prese coraggio.
E…
«Ma
dove diamine è quella
lì?!»
Puff. L’atmosfera si
disintegrò come un’enorme bolla di sapone; entrambi i ragazzi si
ridestarono, si resero conto, e si allontanarono; la voce riprese a urlare.
«Una
esce un attimo a fumare e quella lì scompare…!»
Lei
si rialzò, barcollando un po’, aprì con foga la porta, si
sporse oltre lo stipite e urlò:
«Ino,
eccomi! Ero venuta a prendere la borsa!»
La
stangona bionda si materializzò davanti a Ventaglio in un soffio;
Shikamaru ebbe appena il tempo di alzarsi. La canzone era finita; il disco
continuava a girare ma il grammofono non dava segni di vita.
«Sì,sì,
ok, ma andiamo che è tardissimo, non mi ero accorta
dell’ora… è mezz’ora che ti cerco, la sposa ha anche
lanciato il bouquet, ma dove diamine…»
«Ti
ho detto» replicò Ventaglio, stranamente acida «che stavo
cercando la mia borsetta… ma qui non c’è… E sì,
andiamo, io domani devo
lavorare…»
La
stangona alzò gli occhi al cielo e se ne andò, portandosi dietro
l’altra ragazza, che ebbe solo il tempo di dire:
«Be’,
allora ciao, Ananas.»
E,
in un fruscio di seta, era scomparsa.
*°*
[ Il giorno dopo di quell’infausto giorno]
Idiota.
Idiota.
Idiota.
Idiota.
Per
qualche strano motivo, non sapeva pensare altro.
**************
E’
tardi, tardi, tardissimo O_O
Due
sole cose:
-Ho
preso spunto per il capitolo (e anche un po’ per il tono dell’intera
fanfic, *credo* ve ne siate resi conto anche solo dal
titolo X°D) dalla puntata Rullo di Tamburi di How I Met Your Mother,
che credo sia una delle cose più bbbelle mai
realizzate, seriamente. Come in questo capitolo, anche lì c’è
questa idea di parlarsi e stare insieme una serata ma non rivedersi mai
più, e *ovviamente* anche lì l’uomo ci casca con tutte le
scarpe XD Spero, spero, spero di
averlo reso bene. (la scena del pianoforte è ripresa da lì, anche
altre ma le ho modificate moltissimo).
Mi
piaceva l’idea di far fare questo gioco a questi due, è una cosa
infantile ma comicissima. Spero non fraintendiate: Shikamaru è pigro e
tutto, ma si annoiava a morte, ha bevuto un pochino e voleva disperatamente
provare a fare qualcosa… e poi, be’, c’era
la sua Ventaglio… 8D
(nomi
banalissimi lo so, abbiate pietà)
L’idea
ruota tutto intorno alle maschere e al fatto che davanti a uno sconosciuto si
può essere qualsiasi persona. E mi piaceva molto l’idea degli
stereotipi perché questi due nel manga parlano molto di stereotipi su
uomini e donne.
-E
sì, questo è il capitolo cruciale della storia, la ShikaTema! Yuuuuh!
L’ho
pubblicata per l’iniziativa di San
Valentino (del forum Black Parade),
lo so che oggi è il 16 (tecnicamente è il 15, ma sono le 3 di
notte perciò è il 16 u__u) ma io sto sotto esami e di meglio non
posso fare, capitemi.
Spero
vivamente che i personaggi non siano OOC per questo loro modo giuoioso di interagire, ma il vino ha reso tutto più
semplice X°D
Altre
cose importanti le scriverò nei prossimi giorni, che ora è tardi
e domani mi devo svegliare presto per studiare. Scusate. T.T
COMMENTINO,
GENTE? <3
Ok,
vi faccio sudare con questa fanfic, ma questo
capitolo sono quasi 12 pagine, dai!! *fa occhioni*
Clahp