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Autore: Sueisfine    06/09/2007    3 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Two

~ World War

In fretta salii le scale dell’edificio in cui era situato lo studio di registrazione. Anche se lo studio si trovava al terzo piano, optai per le scale anziché usare l’ascensore. Pensavo che un po’ di moto mi avrebbe svegliato. Invece mi stancò oltremodo.
Mezzo sfiancato, mi diressi verso quella che per le ultime session avevo ribattezzato stanza delle buone idee. Era lì che scrivevo i miei pezzi. Sì, insomma, una specie di luogo di raccoglimento delle energie positive.
Aprii di scatto la porta e mi ritrovai di fronte all’unica cosa che non mi avrebbe mai ispirato.
Lol, come un cencio appena usato, era abbandonato sul divanetto, che aveva ormai assunto una squallida tonalità di verde bottiglia chiazzato qua e là da bruciature di sigarette.
Se la dormiva della grossa. La bocca semichiusa, il braccio destro penzolante. Reggeva in mano una lattina di Heineken quasi vuota, a giudicare dalla pozza sottostante che segnava la moquette.
Indossava gli stessi vestiti con cui l’avevo lasciato ieri sera. Una maglia bianca profilata di rosso, a maniche corte, giacché all’interno delle stanze faceva veramente molto caldo, jeans neri e scarpe da ginnastica.
Per poco non inciampai sul posacenere, che rigettava cicche di sigarette. Ma da quanto tempo Lol era lì ?
Sì, è vero, fuma così tanto che di sicuro era lì lì per poter far concorrenza ad un inceneritore, però mi sembrava di essere stato via solo una mezzora.
Sarà.
Mi chinai e cercai di svegliarlo.
«Ehi, cazzone. Dai, svegliati, abbiamo da fare.»
Niente. La mia flebile voce si perdeva nel suo russare. Ero talmente scocciato quella mattina, causa il recente incontro, che non esitai ad afferrare dalle mani di Lol la lattina ed a versargli il contenuto restante in testa.
«Ma che cazz… !», sussultò.
Beh, almeno l’avevo svegliato.
E poi tanto avrebbe dovuto cambiarsi d’abito. Prima o poi.
«Ma uffa, Rob. Potevi svegliarmi in maniera più consona alle mie abitudini, almeno».
«Ho provato. E con insistenza, credimi» mentii spudoratamente.
«Mmh, ok. Dov’è che sei stato finora ?».
«Non ho voglia di parlarne, ora» risposi seccato. «Vorrei rimanere da solo, se non ti dispiace».
«Uff. Va bene. Ma ricordati che abbiamo da fare».
Ora sembrava seccato anche Lol. Difatti se ne andò trattenendosi dallo sbattere la porta.

*

Mi tolsi il cappotto, iniziavo a sentire davvero caldo dentro quella sottospecie di forno rivestito di moquette beige. Lo buttai sul divanetto, raccolsi il posacenere e lo posai sul tavolino al centro della stanza.
Aprii la finestrella.
Un improvviso quanto piacevole venticello mi carezzò il viso.
E mi tornò in mente Simon.
Simon e quella mattina. Simon e quel maledetto giorno in cui lui decise di lasciare tutto. La band, i progetti, le speranze, me, Lol. Me.
Aveva per caso dimenticato quanto fossimo legati ? Le parole di quel giorno non facevano di certo presumere il contrario. “Non ce la faccio più, Robert, veramente. Sono stanco, mi sento prosciugato. Mi prosciughi. Non ce la faccio davvero più. Un egoista. Ecco quello che sei. Non puoi avere tutto e tutti, lo sai questo ? Lo sai ? E smettila di giocare all’alienato. Tu sei qui, sei qui con noi, Robert.
Non mi chiamava mai col mio nome per intero, se non quando stava cercando di prendere le distanze.
Mi fai schifo, mi fa schifo tutto questo !”.
E allora cos’aspetti ad andartene ? Nessuno ha bisogno di te, come puoi ben vedere”.
Inutile dire che non se lo fece ripetere due volte.
Mi ricordo la sua faccia, i muscoli tesi per lo sforzo.
Voleva gridare chissà quali parole, voleva inveire ancora contro di me. Ma si limitò ad aprire la bocca ed a lasciar uscire solo aria consumata. Avrei potuto fantasticare ore ed ore su quali appellativi avrebbe preferito appiccicarmi addosso in quegli interminabili istanti.
Se avessi appoggiato un orecchio sul suo collo, sono sicuro che avrei sentito il sangue ribollire dentro la sua giugulare.
È un tipo infiammabile, Simon. Prima ti scruta dentro, apprende le tue debolezze. Poi, alla prima occasione, te le sputa addosso, con veemenza terribile. Tu non puoi far altro che tentare di proteggerti con qualsiasi cosa a portata di mano. Fossero anche le sue, di debolezze, l’unica cosa disponibile per evitare il crollo.
Io sono bravo in questo. Dolente, lo ammetto.
Le nostre erano litigate epocali ! E sembra quasi che ricordare certe cose mi metta di buonumore, ma non è così.
L’ultima volta non è stata piacevole. Una rotta di collisione da cui non potevamo uscire illesi.
E lui, al solito, scappò. Serrò la mascella e se ne andò. Non tentai neanche di fermarlo. ‘Pazienza’, mi dissi, ‘Se è questo che vuole, ben venga’.
Lo conosco abbastanza bene, ha bisogno di un po’ tempo per mettere da parte l’orgoglio, quasi centellinandolo.
Metabolizzare.
Pensavo, speravo che ci riuscisse anche stavolta.
Ma, a dispetto delle mie chissà perché scontate previsioni, non accadde.
Non si fece sentire per giorni. Ad un certo punto mi ritrovai a fare i conti con colpa, delusione e solitudine, alcuni dei miei peggiori nemici.
Finché non sopraggiunse anche la disillusione.
No, non poteva continuare ancora così.
Scostai la sedia, su cui ero seduto, dal tavolo. Cercavo inutilmente di buttar giù qualcosa, ma la mia testa sembrava piena d’acqua. Mi alzai, ed accartocciai con violenza il foglio.
Avevo deciso, gli avrei telefonato. Una cosa da fare assolutamente, non potevo trascinarmi in questo modo. Era come se avessi un cappio al collo legato con poca forza. Il mio capo pendeva in maniera indecente, a metà strada tra la vita e la morte.
Prima della telefonata, però, dovevo recuperare del sonno. La stanchezza si ricordò solo in quel momento di esistere, e mi invase senza preavviso.
Fatto sta che mi ributtai sulla sedia e mi risvegliai chissà quante ore dopo, con un lancinante dolore lombare e il rivoltante primo piano della faccia di Lol, che mi scrutava, interrogativo.
  
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