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Autore: Shichan    23/02/2013    3 recensioni
Il basket e Aomine l’avevano salvato.
Ma c’era stato anche un tempo – e se ne vergognava terribilmente – in cui aveva maledetto entrambi con tutte le sue forze.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Daiki Aomine, Ryouta Kise
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Due settimane.
Era il tempo passato da quello che Kise aveva relegato in un angolo della sua mente come “l’incidente del bagno”, del quale non aveva ovviamente fatto parola con nessuno.
Il lavoro e il basket avevano aiutato a tenere la mente occupata abbastanza da non doversi fare troppe domande e, le poche volte che aveva una pausa abbastanza lunga o del tempo per sé da finire con il pensarci nuovamente, riusciva a darsi sommarie e sbrigative spiegazioni che allontanavano – almeno per un po’ – la questione. Un continuo rimandare che, era convinto, non avrebbe fatto male a nessuno dopotutto.
Gli allenamenti erano abbastanza sfiancanti e divertenti da non potere, nemmeno volendo, perdersi in contorte domande su cosa gli fosse preso quella sera; poi, quando riprendeva fiato o Kasamatsu gli faceva notare – con la delicatezza che lo contraddistingueva sempre – che se non la smetteva di pensare ad altro se ne sarebbe pentito (il brutto del capitano era che non specificava mai come gliel’avrebbe fatta pagare, e questo rendeva tutto più terrificante), Kise si ripeteva che in fondo non era successo niente.
Si era fermato in tempo, di qualunque cosa si fosse trattato.
Aveva lasciato passare così ben due settimane, e più i giorni si susseguivano, più sembrava facile lasciar passare l’accaduto come qualcosa di non rilevante.
Era solo stanchezza. Era stato casuale che in quel momento, seguendo un filo di pensieri, Aomine balenasse nella sua testa. Non significava nulla.
«Ryouta-kun?» sentì pronunciare, portando istintivamente lo sguardo verso la voce che lo aveva distolto da quei pensieri sconnessi. Non ebbe difficoltà ad inquadrare, a pochi passi da lui, Jun che si avvicinava con un sorriso amichevole sulle labbra. Il biondo lo ricambiò subito, sistemandosi meglio sulla sedia dove stava facendo una pausa in attesa del suo turno sul set fotografico dal quale l’altro si stava allontanando.
«Pausa?» gli chiese quando l’altro fu abbastanza vicino, notandolo scuotere impercettibilmente la testa: «Abbiamo finito. Sistemano il set e tocca a te.» comunicò, forse incaricato dalla manager stessa di Kise che – poco distante – era occupata a parlare con il fotografo.
Annuì, lasciando che Jun gli augurasse buon lavoro e si avviasse a cambiarsi; prima di rendersene effettivamente conto lo fermò: «Hai da fare nel pomeriggio?»


Finito il servizio fotografico si era premurato di cambiarsi in fretta; Jun aveva aspettato che finisse di lavorare, dopo che Ryouta gli aveva proposto di mangiare qualcosa insieme, e non aveva voluto costringerlo ad aspettare ulteriormente.
L’aveva raggiunto dopo le ultime raccomandazioni della sua manager sull’impegno lavorativo che lo avrebbe impegnato nel week-end, scusandosi se ci aveva messo troppo, e si erano avviati fuori dall’edificio con l’intenzione di andare a mangiare in un ristorante per famiglie poco distante; poteva essere strano vederci due adolescenti, ma era particolarmente tranquillo proprio per la natura stessa del locale, e almeno mentre mangiava voleva evitare di doversi preoccupare troppo di chi li notava.
Una volta raggiunto il posto, avevano trovato un tavolo libero senza troppe difficoltà e si erano seduti, dando uno sguardo attento al menù e ordinando.
Quando la cameriera si fu allontanata, Kise portò lo sguardo su Jun: «Sicuro che non avevi da fare? Con Akira-san, magari?» domandò per essere sicuro, ritrovandosi ad osservare un Jun che si lasciava andare ad una risata divertita e naturale, ma non troppo alta o sguaiata. Perplesso non disse nulla, ma evidentemente la domanda inespressa era chiara anche solo a guardarlo.
«No, scusami» disse infatti l’altro «è solo che lo hai chiesto con una naturalezza disarmante, e non sono in molti a farlo quando sanno chi è Akira.» ammise. Non sembrava esserci alcun tipo di risentimento nella sua voce, come se avesse espresso una semplice constatazione che nemmeno lo riguardava troppo da vicino. Era chiaro che, quando diceva “chi è Akira”, alludeva al ruolo di fidanzato di quest’ultimo. 
Forse stupidamente, Kise si chiese in che modo avrebbe dovuto chiederlo se non in quello, e con quale faccia lo avevano fatto altri fino a quel momento.
Per un attimo era stato tentato di dirgli “beh, ma cosa c’è di strano”, ma proprio all’ultimo istante se lo era tenuto per sé; non perché non lo pensasse, anzi, ma Jun sbagliava nel credere che lui sapesse esattamene cosa dire o cosa pensare. Al contrario, quella era sempre stata un tipo di situazione che il biondo non aveva mai saputo come prendere davvero: in linea generale lui pensava davvero che non ci fosse nulla di male, e il suo ambiente aveva reso tutto – per certi versi – ancora più naturale sempre che ci fosse qualcosa da dover “naturalizzare”. Tuttavia era il rapporto con l’altra persona ad essere più difficile, e non solo perché a conti fatti Jun con la sua confidenza aveva messo su un piano superiore al semplice ambito lavorativo la loro conoscenza, ma anche perché non sapeva bene cosa potesse dire senza risultare superficiale o persino ignorante. O come avrebbe potuto mancare di sensibilità.
Non voleva sembrasse qualcosa di sbagliato, come un voler sminuire l’ottusità che di sicuro – almeno a giudicare dalle sue parole – Jun doveva aver spesso incontrato nelle altre persone; anche se qualcosa gli diceva che non fossero poi così tante quelle che sapevano del collega e Akira.
«Non preoccuparti, comunque. Akira aveva da fare con un gruppo di studio, quindi non c’è problema. Magari poi un giorno te lo presento, così sei più tranquillo?» lo prese bonariamente in giro, distogliendolo alle sue considerazioni mentali.
Di nuovo, non sapeva bene come rispondere, ma era pur sempre di Kise che si trattava: non sarebbe stato da lui far cadere un innaturale silenzio imbarazzante.
«Sai, penso che se non gli piace la moda, potrebbe impazzire con due modelli intorno, ma se credi…» lasciò cadere la frase divertito, notando in risposta un ridacchiare dell’altro che gli diede la sensazione di aver fatto bene a rispondere semplicemente come gli veniva, come faceva con chiunque altro d’altronde.
«Tu non avevi gli allenamenti, Ryouta-kun? Almeno nel week-end hai tempo di respirare?» chiese l’altro, andando a parare – forse volutamente – su un argomento dove Kise non sarebbe stato in grado di far cadere il silenzio nemmeno volendo.
«Per ora sono salvo, ma quando si avvicineranno le qualificazioni o le pause per le vacanze… penso che non ci sarà più speranza.» finse un tono melodrammatico: «Faremo sicuramente un campo estivo, una settimana infernale in cui giochi a basket, vedi campi da basket, corri su campi da basket… li sogni anche!» continuò, approfittando del tavolo ancora libero dalle loro ordinazioni per un plateale accasciarsi su di esso.
Sorrise, tuttavia, riprendendosi: «Però è divertente: niente lavoro, niente foto, solo sport. E Kasamatsu-senpai che mi prende a calci, ma quello succede ogni allenamento.» dovette ammettere.
«Vorrei vederti qualche volta, chissà come sei su un campo di pallacanestro. Né io né Akira seguiamo molto lo sport a livello giovanile, ma persino io ho letto qualcosa su di te da qualche parte.» ammise, sorprendendo non poco il biondo: «Com’era il titolo…? ‘Kise Ryouta della Generazione dei Miracoli’?» tentò.
«Aaah, lasciamo stare!» si affrettò ad esclamare – Kise non era particolarmente timido, né era parte di lui quella falsa modestia per la quale tendenzialmente si negava un proprio talento al solo scopo di ricevere ancora più complimenti. Ma mentre, per quanto riguardava le fan che seguivano il suo lavoro di modello, aveva in un certo senso raggiunto un compromesso per il quale bastava sorridere ed essere cortese perché fosse tutto molto pacifico e vivibile, doveva ancora abituarsi a reazioni dello stesso tipo riguardo il basket.
Un tempo era diverso, per la verità: alle medie era stato troppo abituato a primeggiare in qualsiasi sport si cimentasse per potersi permettere di fingere alcun tipo di modestia. Era forte e sapeva di esserlo, così come sapeva che quella sua capacità avrebbe portato all’invidia di molti e all’ammirazione di altrettanti; non si era mai particolarmente applicato a preoccuparsi della cosa. Passava di sport in sport, senza rimanere nella stessa disciplina abbastanza a lungo da farsi conoscere per qualcosa oltre il talento naturale.
Anche una volta unitosi al club di basket della Teikou, per la verità, la situazione di base non era cambiata, non quella “esterna”; era stata la sua percezione di ciò che faceva e di come lo faceva a mutare: l’aver trovato un degno avversario, un continuo stimolo al miglioramento che gli era stato sconosciuto fino ad allora. Ma la consapevolezza di essere forte, la consapevolezza di non poter perdere, di non poter fallire, in una squadra come la Teikou era stata persino accentuata.
Se non conosci la sconfitta, se non incontri un muro impossibile da scavalcare, su cosa puoi basare la modestia o quel genere di impaccio che coglie le persone che non sentono di meritare così tanta ammirazione perché consci dei propri limiti?
Lui non sentiva di avere limiti, all’epoca, prima del Kaijou, prima della sconfitta e del vero significato di squadra.
Non c’erano muri invalicabili, a parte il talento di Aomine.
«Grazie.» sentì dire a Jun, e alzò lo sguardo chiedendosi per quale motivo lo stesse ringraziando, per rendersi poi conto che si era rivolto alla cameriera che gli aveva appena portato le pietanze ordinate senza che se ne accorgesse. La vide allontanarsi nuovamente dopo essersi raccomandata di chiamarla se avessero voluto ordinare altro, e tornò con lo sguardo sul più grande.
«Allora, buon appetito.» disse semplicemente l’altro, iniziando a servirsi del proprio riso al curry.
Kise abbassò lo sguardo sulla propria porzione, prendendone una generosa cucchiaiata e soffiandovi appena sopra dopo aver ricambiato quelle parole.
«Ryouta-kun, cosa volevi chiedermi?» domandò a bruciapelo Jun, facendogli quasi scappare di mano il cucchiaio o almeno il suo contenuto.
«Cosa?» gli fece istintivamente eco, immediatamente anticipato dall’altro modello: «Mi hai chiesto di mangiare insieme, e sembrava ci avessi pensato fino all’ultimo momento, quindi ho creduto che volessi chiedermi qualcosa. Ma se era solo un invito di cortesia, va bene.» assicurò, senza fargli pressioni.
Kise rimase in silenzio – doveva ammettere che non era stato esattamente un invito disinvolto il suo – ed infine sospirò leggermente, prendendo il primo boccone di cibo e parlando poco dopo.
«Ti posso fare qualche domanda? Personale.» aggiunse per correttezza, ricevendo in risposta un semplice annuire da parte dell’altro.
«Come te ne sei accorto? Che ti piaceva Akira-san. Voglio dire, quando proprio sei preso da qualcuno in quel modo.» cercò di spiegarsi meglio possibile, sebbene quello non fosse mai stato il tipo di discussione che era abituato a fare con qualcuno. Aveva sempre avuto con le ragazze un successo più che discreto tanto da non doversi mai soffermare troppo sul doversi dichiarare o preoccupare di riconoscere determinati segnali – erano sempre le ragazze a prendere il coraggio a due mani e chiedergli di uscire, e lui aveva accettato sempre se considerava la controparte carina o una buona compagnia. Più che per il desiderio di vantare un certo numero di relazioni – sempre che poi alla sua età e alle medie si potessero definire così – la questione era sempre stata il non avere davvero un motivo per rifiutarle.
Quindi accettava, e le frequentava, spesso non durava nemmeno tanto a dire il vero.
«Stiamo facendo un discorso generale?» domandò Jun, facendogli nuovamente focalizzare la propria attenzione su di lui; prima che potesse chiedere qualcosa, l’altro proseguì: «Voglio dire, mi stai chiedendo in generale come ci si accorge che è “la persona giusta” o come ci si accorge all’improvviso che ti piace un ragazzo se anche tu lo sei?» chiese, nel tono una pacatezza che stupiva Kise, in qualche modo, e che lo portò inconsapevolmente a spostare lo sguardo sul proprio piatto, affondando un poco il cucchiaio nella pietanza.
«Tutti e due, credo.»
Lo sentì lasciarsi sfuggire uno sbuffo leggero e divertito, come di una risata trattenuta: «D’accordo, d’accordo.» lo blandì «Per adesso non farò domande.» assicurò.


Sentì la suoneria del proprio cellulare provenire dalla propria stanza e raccolse i capelli alla bell’e meglio nell’asciugamano, uscendo dal bagno per raggiungere il telefono prima che smettesse di squillare; lo recuperò per un soffio, non facendo in tempo a guardare da parte di chi fosse la chiamata e rispondendo direttamente, trafelata.
«…Momoicchi, hai corso?» sentì domandare dall’altra parte, l’uso del nomignolo che rese immediato il riconoscimento del biondo: «Ki-chan? Ah, non preoccuparti, avevo solo lasciato il telefono nell’altra stanza.» assicurò, senza soffermarsi troppo sui dettagli.
Non era raro come si potesse pensare che lei e Kise si sentissero per telefono, anche se di certo non erano a livelli di chiamate quotidiane; però di sicuro, escludendo Daiki, il biondo era il compagno delle medie che sentiva più spesso. Era persino successo di incontrarsi per strada quando a volte capitavano l’una più vicina alla zona in cui abitava l’altro e viceversa.
«Tutto a posto, Ki-chan?» si premurò comunque di chiedere; non che dovesse esserci per forza un motivo serio per sentirsi, ma preferiva sempre informarsi. Lo sentì ridacchiare dall’altro capo: «Tutto a posto Momoicchi, non preoccuparti.» rispose.
Passarono qualche minuto a parlare di niente in particolare – come andava in generale, la scuola, il basket e il lavoro di Kise – e solo dopo il biondo introdusse il vero motivo dietro quella domanda: «Momoicchi, hai da fare la prossima settimana?» domandò sorprendendo la ragazza mentre, il cellulare tra orecchio e spalla, pettinava i capelli umidi davanti allo specchio.
«Uhm, a parte gli allenamenti di Daichan, intendi?» chiese, ma retoricamente «Non so, forse la squadra andrà in ritiro e in quel caso andrò anche io. Perché?» continuò.
«Eeeh, già in ritiro?» ribatté con tono lamentoso, facendola ridere: «Non è ancora sicuro, penso che Imayoshi-san e il coach stiano ancora prendendo accordi, ma l’idea è quella. Anche se credo che, con gli esami in vista, Imayoshi-san stia più che altro affiancando Wakamatsu-kun.» ammise, sovrappensiero.
Gli aveva accennato del cambio di capitano, dal momento che l’ultimo anno di Imayoshi si era praticamente concluso nel momento in cui la Too aveva perso contro il Seirin nella corsa alla Winter Cup. Evidentemente stava finendo di “istruire” il nuovo capitano prima del diploma vero e proprio.
Per qualche istante, si chiese se Kasamatsu avrebbe fatto la stessa cosa l’anno seguente; scosse la testa, rimandando a poi quella considerazione, quando la ragazza chiese il perché della domanda.
«Perché dopo il lavoro del week-end sarò libero per un po’, e mi sono ricordato che mi avevi chiesto di accompagnarti da qualche parte, alla partita di allenamento di qualche settimana fa.» spiegò.
In quell’occasione, la ragazza gli aveva domandato se compatibilmente ai suoi impegni lavorativi potesse dedicarle un pomeriggio: a quanto aveva capito dalla sbrigativa spiegazione di lei, c’era qualcosa che doveva vedere – o comprare, non gli era ben chiaro – e per la quale sembrava volesse un suo consiglio. O, quanto meno, la sua compagnia.
«Oh, giusto, giusto!» esclamò lei, forse sorpresa che lo avesse ricordato: «In effetti sono ancora in alto mare, uhm… va bene se te lo faccio sapere entro il fine settimana, Ki-chan?» domandò.
Le disse che non c’era problema, rimandando l’organizzazione a quando avesse saputo di più sul campo estivo – sempre ammesso che, nel frattempo, lui non si trovasse nel dover partecipare a quello del Kaijou.


Come promesso, aveva ricevuto la chiamata di Momoi nel week-end; alla notizia del mancato campo estivo – sembrava, più che altro, fosse stato rimandato alla settimana successiva – l’altra aveva assicurato che in qualsiasi giorno della settimana il biondo fosse stato meno impegnato avrebbero potuto vedersi. Concordato il giorno ideale per entrambi, si erano dati appuntamento.
«Ki-chan!» gli rivolse un cenno con la mano, per farsi notare nella discreta folla di quel giovedì pomeriggio. La raggiunse con poche falcate e Momoi si chiese quante teste si potevano essere voltate in quel momento, nonostante lei non le vedesse tutte.
Benché non avesse mai provato verso Kise l’attrazione che sembrava esercitare, fin dalle medie, su buona parte della popolazione femminile della Teikou – e non solo – non significava che non fosse più che cosciente del fascino dell’amico, o che non lo vedesse. Da qualsiasi punto di vista, non era difficile immaginare perché piacesse alle ragazze: alto, di bell’aspetto e atletico, nonché con una certa dose di popolarità che era inevitabilmente un valore aggiunto, il biondo aveva dalla sua un lato del carattere da non sottovalutare. Oltre alla naturale allegria ed espansività, nonché alla cortesia verso il gentil sesso, aveva un modo di fare – e non era costruito, non le era mai apparso tale proprio per il tipo di rapporto che avevano sempre avuto – che gli valeva la simpatia che di solito si provava naturalmente nei suoi confronti. Aveva la capacità, o la sensibilità, che lo portavano a far sentire la persona con cui parlava sempre al centro della sua attenzione, cosa che veniva considerata una forma di apprezzato rispetto da parte degli uomini, ma che era interpretata dalle ragazze come un riguardo nei loro confronti difficile da trovare nei propri coetanei.
Era una gentilezza diversa da quella di Kuroko, che lei ugualmente adorava, ma era parte del tipo di attenzioni che ad una ragazza non potevano che fare piacere. Se avesse dovuto dirla in maniera semplice ed immediata, Momoi avrebbe sempre sostenuto che Kise faceva sentire le persone speciali, ognuna a modo suo.
«Sono in ritardo?» chiese con espressione confusa e leggermente imbronciata – Satsuki ridacchiò.
«No, Ki-chan, ma avevo da sbrigare una commissione e non volevo trascinarti in giro inutilmente.» fece notare, alzando appena la mano sinistra che teneva una busta: «Mia madre mi ha avvisata poco prima che uscissi, quindi…» lasciò cadere la cosa, il resto del discorso piuttosto intuibile.
Il biondo annuì, evidentemente sollevato all’idea di non averla fatta aspettare troppo – era comunque piena estate, e non sarebbe stato carino farla stare sotto il sole e con quel caldo ad aspettare i suoi comodi – prendendole di mano la busta.
«Ki-chan, non c’è bisogno.» assicurò lei, ma Ryouta si era già appropriato dell’oggetto, facendole un occhiolino complice e divertito: «Ma non posso far portare un peso ad una ragazza!» rimbrottò, facendola ridere di nuovo; Momoi gli diede una spinta leggera e scherzosa.
«Ki-chan, sei troppo galante.» lo rimproverò, anche se non seriamente, per poi avviarsi al suo fianco lungo il marciapiede su cui erano.
«Allora Momoicchi, dov’è che andiamo?» chiese lui, incuriosito.
«Negozi di vestiti.» decretò lei con tono allegro «Vestiti da uomo.» specificò, osservandolo divertita quando comprese che il biondo non doveva ancora aver realizzato il punto focale di quell’uscita.
«Tra poco è il compleanno di Daichan» fece notare «e tu sei l’unico che possa provare qualcosa e darmi un’idea se sarebbe la misura giusta. O almeno, l’unico che sia anche disposto ad accompagnarmi a fare shopping! Potrei costringere Daichan, ma non sarebbe più una sorpresa. E poi siete quasi della stessa altezza, sei un ragazzo – quindi puoi darmi una mano a decidere – e hai gusto. Differentemente da Daichan.» concluse, il tono appena più grave sulla fine della frase.
Kise ridacchiò: non era la prima volta che Momoi faceva notare quanto dubbio fosse a volte il gusto di Aomine sul vestire – sospettava che periodicamente la ragazza lo trascinasse in giro obbligandolo a comprare qualcosa che non avesse a che fare con la tenuta da basket o con i giornalini porno.
Per contro, anche se si premurò di non darlo a vedere, avrebbe preferito non spostare affatto la chiacchierata sull’argomento Aomine Daiki.
La sera che aveva cenato con Jun dopo il lavoro, l’altro si era dimostrato estremamente disponibile nel rispondere alle sue domande, per quanto indirette e certamente confuse; la verità era che nemmeno Kise aveva saputo bene come porle, o se ci fosse davvero un  modo giusto per farlo. Era solo che era una situazione estremamente complicata, e non era affatto migliorata come aveva sperato, dopo quello scambio con il collega. Lui, Kise, aveva sperato che parlare con lui gli desse elementi sufficienti a capire che la sua era stata niente più che una semplice mancanza di tempistiche – ossia che si fossero mescolati tra loro troppi fattori: la confidenza di Jun sulla propria omosessualità, il rivedersi con Aomine, giocarci assieme dopo tanto tempo, la stanchezza per il lavoro e una leggera frustrazione di fondo anche su quel versante. Era pur sempre un adolescente sano, si era detto, e privo di relazioni al momento; non sarebbe stato poi così strano aver bisogno di “rilassarsi”, no?
Invece parlare con Jun sembrava aver fatto più male che bene; o almeno, quanto a confusione si ritrovava peggio di prima, abbastanza da non volersi proprio fossilizzare su chi era quasi al centro di quella stessa mancanza di chiarezza con se stesso – Aomine, appunto.
Dopotutto però, Momoi non lo faceva certo di proposito, né poteva sospettare nulla. Si trattava solo di aiutarla a cercare un regalo, in fondo.
«Troveremo il regalo adatto, di sicuro!» ribatté allegro, non così forzato come aveva temuto.

Quasi due ore dopo sedevano ad un bar, l’acquisto finalmente fatto e al sicuro in una busta che – in quel momento – stava sulla sedia libera di fianco a Momoi.
La ragazza aveva appena ordinato una coppa di gelato, mentre Kise aveva richiesto un tea freddo che il cameriere si era premurato di appuntare sul blocchetto, prima di andare a riferire l’ordinazione lasciando loro un menù e portando via l’altro.
«Ah, l’aria condizionata.» osservò soddisfatta Satsuki, stiracchiandosi; sopportare il caldo all’esterno era stata un’impresa anche se, facendo avanti e indietro nei negozi, avevano comunque avuto modo di rinfrescarsi di tanto in tanto.
«E abbiamo anche il regalo: missione compiuta!» aggiunse il biondo, ricevendo in risposta il sorriso di lei: «Mi hai salvato, Ki-chan. Da sola non sarei mai stata sicura della misura, anche se conosco Daichan da sempre praticamente.» ammise e poteva capirla, perché c’erano cose che finché non venivano misurate non si poteva mai dire – ne sapeva qualcosa, visto che non sempre indossava la stessa misura di abiti nei servizi fotografici, a seconda di come questi o quelli gli vestivano addosso.
«Figurati, e poi mi sono divertito. Di sicuro Aominecchi non si aspetta un regalo, o forse si sarà dimenticato del suo compleanno.» prese indirettamente in giro il moro, trovando subito una complice nella compagna, che rise.
«A dire il vero, avevo pensato di fargli un altro tipo di sorpresa.» ammise lei, lasciando scemare naturalmente la leggera risata che l’aveva animata; osservandola, Kise notò lo sguardo sì addolcirsi, ma farsi in qualche modo meno entusiasta, anche se si trattava davvero di una sfumatura quasi impercettibile «Ma credo che sia troppo presto, in un certo senso.» aggiunse.
«Per cosa?» domandò incuriosito mentre le ordinazioni li raggiungevano.
«Una festa a sorpresa. Con Sakurai-kun, per esempio, e con te Ki-chan, e poi… con Kagamin, e Tetsu-kun. Anche Midorin. Mukkun non credo che potrebbe venire, e forse nemmeno Akashi-kun, ma sarebbero già abbastanza persone.» confidò. Indubbiamente l’ex capitano della Teikou non era esattamente vicino, quindi forse per lui sarebbe stato difficile raggiungerli, ma non gli sembrava un’idea malvagia.
«Mi sembra una bella idea, perché dici che è troppo presto?» chiese infatti.
Momoi sospirò piano, muovendo leggermente il cucchiaio nella coppa gelato: «Perché non capisco se Daichan vorrebbe o no stare di nuovo con la vecchia squadra.» confessò infine.
Kise tacque, forse capendo in parte a cosa si riferisse ed anche con relativa facilità; preferì comunque lasciarle modo di continuare, se avesse voluto, e Satsuki parve interpretare correttamente il suo silenzio.
«So che le cose con Tetsu-kun si sono sistemate, in un certo senso, forse anche grazie a Kagamin. Ma non ho mai capito se sia davvero tutto a posto, ora. Voglio dire, se la squadra si riunisse sarebbe un po’ come tornare ai vecchi tempi, e non so se Daichan lo consideri una buona cosa. Credo che pensi ancora a… beh, lo sai.» lasciò intuire.
Il biondo sorseggiò il tea freddo, ancora in silenzio: immaginava che nonostante non fosse proprio tipo da mostrarlo, con il senno di poi anche Aomine fosse cambiato, e per questo capisse da sé quali errori avesse fatto ai tempi delle medie e cosa questi avessero comportato.
Dopotutto però tutti loro, chi più e chi meno, stavano cambiando e non era un male, anzi; non pensava che una festa a sorpresa potesse intaccare a quel modo l’umore di Aomine, a dire il vero.
«Io non penso che gli dispiacerebbe. Voglio dire, è vero che tra Aominecchi e Kurokocchi è successo quel che è successo, ma lo hai detto anche tu che si sono chiariti, no? Non penso andrebbe tanto male, o che Aominecchi si deprimerebbe… non è proprio da lui!» aggiunse con una risata leggera a cui lei si unì con un sorriso.
«Forse hai ragione, Ki-chan, mi preoccupo troppo. È solo che Daichan e Tetsu-kun sono sempre stati un mondo a parte, se capisci cosa intendo.» osservò, dedicandosi ad una prima cucchiaiata del suo gelato.
Inconsciamente, la presa del biondo sul bicchiere del tea si strinse appena.
Lo sapeva fin troppo bene, che erano sempre stati un mondo a parte – un mondo che non aveva spiragli per nessun altro, e che non era mai, mai stato possibile forzare dall’esterno finché per loro stessa decisione non si era semplicemente sgretolato.

   
 
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