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Autore: Hoel    24/02/2013    4 recensioni
"Giurami [...] che al mio ritorno, vivi o morti, ci sposeremo!"
***
Si dice che l'Amore vinca ogni cosa, perfino la Morte. Anche se è proprio da essa, che lui verrà a reclamarti ...
[KisaIta e NaruHina - accenni di SasuSaku e InoSai]
Genere: Horror, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Akatsuki, Un po' tutti | Coppie: Hinata/Naruto, Itachi/Kisame, Sai/Ino, Sasuke/Sakura
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Mpreg | Contesto: Nessun contesto
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Jetzt geht’s weiter!

Lo avevo accennato alla mia consulente privata, lo avevo minacciato nei tag, lo avevo ribadito nell’intro al prologo, me l’ero ripromesso come regalo tardivo di compleanno ed eccolo qua finalmente! Mpreg, ahoy! Oh beh, non esattamente in questo capitolo, ma se leggete tra le righe, troverete certamente le basi per la mia prima Mpreg! Muhahhahaha!!! Sono così emozionata! ^////^ Senza andare troppo nei dettagli “anatomici” ho cercato di dare una spiegazione “logica” a quest’evento, pur prendendomi tuttavia numerose licenze poetiche.

Questo capitolo è stato davvero tosto da scrivere: così tanti eventi da compattare, epoche differenti da ben descrivere, uff, uff …  Di conseguenza, purtroppo per voi, è venuto piuttosto lungo! XD Confesso che volevo essere più concisa, ma poi mi sono lasciata andare: in fin dei conti, siamo nel cuore della storia! :P E  dobbiamo poi onorare il tag “sentimentale” di un poco, no? Lasciamoci alle spalle per un breve istante l’horror!

E a proposito di epoche diverse! Leggere gli avvisi, s’il-vous plaît!

Punto primo: L’ambientazione è assolutamente di fantasia, però, come detto nel primo capitolo, mi rifaccio al “nostro” Ottocento, con tutti i suoi pregi e difetti. Questo significa che se sentirete delle frasi un po’ scioviniste, sessiste, classiste e quant’altro, non è l’autrice che lo pensa, bensì i personaggi calati in quel contesto.  Lo stesso vale per la medicina dell’epoca: in questo capitolo si parlerà molto di isteria e non per indicare uno che piange a dirotto, ma per giustificare sbalzi di umore, attacchi nevrotici, pianti improvvisi, convulsioni quasi da epilessia, insonnia, etc. L’isteria – soprattutto femminile – serviva ai signori uomini come spiegazione all’enorme carico di stress, che le donne (specie quelle sposate) non avevano modo di sfogare, se non facendosi passare appunto per “isteriche”. I medici sostenevano che fosse dovuta agli umori maligni derivati dal malfunzionamento dell’utero e che quindi l’unica soluzione all’isteria fosse l’orgasmo. Yes, avete capito bene, l’orgasmo! Adesso comprendete, quando, notando una donna particolarmente nervosa, si scherza dicendo: “Ah, ieri notte il marito non l’ha soddisfatta?” E’ il retaggio di queste teorie mediche ottocentesche!

Punto secondo. In maniera assolutamente discreta – anche perché, lo veniamo a sapere da una terza persona, che comunque ha un certo pudore nel scriverlo – ci sono degli accenni a relazioni incestuose. Ora! Prima che mi chiudiate la pagina, sappiate che NON è tra Itachi e Sasuke. Fiuh! Preso un bel respiro? Okiz, proseguiamo. I matrimoni tra parenti – anche molto stretti – non erano una novità all’epoca: più che per il cognome, servivano a mantenere quanto più possibile unito e intero il capitale di famiglia o le terre, in caso i soggetti in questione fossero anche stati dei proprietari terrieri. Matrimoni tra cugini – perfino primi – o addirittura tra zii e nipoti erano cose che succedevano e il secondo caso aveva luogo se la “sposa” non riusciva a trovare marito entro la “giusta età”. Ergo, si ritrovava spesso a fare da badante ad un vecchio bavoso. Inoltre, all’epoca era molto raro il concetto moderno di famiglia mononucleare; al contrario, quella patriarcale era più diffusa. Magari non si aveva l’intero clan in casa, ma minimo i genitori del marito sì. Di conseguenza, spesso e volentieri si scivolava in relazioni ambigue a discapito, purtroppo, delle donne e dei bambini.

Punto terzo. I bambini. Se avete letto una qualche opera di Charles Dickens, sapete cosa aspettarvi in quanto a metodi educativi. Il metodo Montessori ancora non esisteva e tutti convenivano dicendo, che le punizioni corporali – sia a scuola che a casa - fossero assolutamente necessarie per lo sviluppo del bambino. Sculaccioni sul sedere? Troppa grazia Sant’Antonio! Cintura, canna di bambù, bastone da passeggio, inginocchiarsi sui sassolini ... brrrrr …

Punto quarto. Per sottolineare il sermo diverso delle varie classe sociali e soprattutto la diversa cittadinanza (Konoha vs. Kiri) ho messo delle parole in dialetto veneziano. Spero di non offendere nessuno, ma mi sono divertita a scriverle! Anche perché la storia si basa su di una leggenda veneziana, quindi mi pareva giusto darle un minimo di credito, no? XD Siamo in Giappone solo per sentito dire! XD Vabbé, non che nei manga giapponesi che trattano di storia europea, loro siano più accurati! Vendetta, vendetta, muhahhaha ;-)

Voilà i punti salienti, spero ardentemente che li abbiate letti, non vorrei fare copia in colla in caso dovessi trovare una critica, che mi chiede conto di quanto appena spiegato sopra!

Un sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare alle infaticabili Jooles e Sagitta72! Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!

Buona lettura!

 

 

 

 

H.

P.S Adesso che ho capito come si fa, ho caricato delle immagini su ciascun capitolo! Ganzo, eh?

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Fuggire dall’ospedale non era stato un problema per Naruto: grazie all’esperienza acquisita nel suo lavoro, aveva ben imparato ad intrufolarsi e a sgattaiolare via dai posti più disparati e in situazioni ben più assurde. Del resto, gli era bastato leggere una sola pagina del piccolo diario, che aveva portato seco, per convincersi a partire alla volta di Kiri anche senza averlo terminato. Per una volta la fortuna l’aveva assistito e l’evasione del giovane commissario era stata un successo, così come l’aver trovato la coincidenza perfetta per il treno.

Fu dunque lì, nella solitudine di uno scompartimento vuoto, che Naruto proseguì nella lettura.

 

 

 

All’inizio, Itachi ed io eravamo inseparabili.

Lo amavo e al contempo lo invidiavo profondamente.

Mio fratello sin dalla nascita non era stato benedetto da una salute di ferro: al contrario, era più il tempo che trascorreva nella sua stanza sterilizzata dai vapori di acqua e aceto, che altrove. Il medico sosteneva che fosse debole di polmoni ed in effetti ancora mi sembra di poter annusare nell’aria il profumo dei continui decotti di salvia ed eucalipto finalizzati a placare la tosse e il mal di gola, che spesso lo affliggevano. Lui stesso emanava siffatto odore.

Nondimeno, non era questo il cruccio principale della mia famiglia. Certo, un figlio malaticcio non corrispondeva esattamente ad una goduria, però non era nulla che non si potesse risolvere, magari mandandolo o in montagna o al mare a respirare aria buona e pulita.

No.

L’essere tossicoloso era solo la ciliegina sulla torta: mio fratello – e noi con lui – nascondevamo un segreto ben peggiore.

Una deformazione fisica. Un motivo di vergogna e timore per la nostra famiglia e la condanna di Itachi a rimanere segregato in casa, anche se avesse sprizzato salute da ogni poro.

All’epoca non comprendevo niente di tutto ciò: reputazione, deformazione, malattie … non erano altro che vuoti paroloni alle mie orecchie di bambino. Quel che ai miei occhi appariva invece importante, era che grazie all’infermità di Itachi io avevo guadagnato un compagno di giochi esclusivamente per me. Per ordine di nostro padre, mio fratello non doveva assolutamente varcare i confini di villa Nakano né entrare in eccessiva confidenza con gli ospiti che ogni tanto ci onoravano di una visita. Nella sua mitezza, Itachi non aveva mai messo in discussione gli ordini paterni e aveva obbedito ciecamente ad ogni sua istruzione; forse per questo motivo i miei genitori, sentendosi talvolta in colpa nei suoi confronti, preferivano compensare quell’isolamento forzato tramite balocchi, dolciumi ed esaudendo ogni sghiribizzo che fosse saltato in mente a mio fratello, i quali non erano poi molti. Ciononostante, io, il figlio sano, me ne rammaricavo amaramente: nella mia ingenuità infantile, non comprendevo che io possedevo doni di maggior valore – salute e libertà – mentre Itachi doveva accontentarsi di miseri surrogati. Per questa cagione, incominciai ad invidiare il pianoforte a mezza coda nella sua camera da letto, il gatto rosso,  i trenini, l’intero reggimento di soldatini di piombo, le navi e i battelli, gli aquiloni … Oh, non che io non ne avessi mai avuti! Semplicemente, non trovavo giusto che Itachi dovesse riceverne più di me. E mi infastidiva quando mio fratello, perspicace come d’abitudine, me li cedesse più che volentieri: allora la prendevo sul personale, adducendo che non desideravo la sua carità e che io, un Uchiha, non avrei mendicato niente da nessuno. Di conseguenza, il mio più grande diletto consisteva nell’intrufolarmi nella sua stanza, rubargli i giocattoli, distruggerli a volte. Così come gli strappavo le pagine dei suoi libri preferiti oppure li  bruciavo direttamente nel caminetto. Poco mi importava se dopo nostro padre mi trascinava per le orecchie dalla mia camera al suo studio, calandomi i calzoncini e scudisciandomi con la ferula: la vista degli occhi neri di Itachi inumidirsi dal dispiacere attutiva il bruciore al fondoschiena. Eppure, dopo neanche due giorni di punizione, nostra madre mi apriva la porta dello sgabuzzino dove mi rinchiudevano, tacito invito a porgere le mie scuse a mio fratello. E lo facevo. Piangendo lacrime sincere lo abbracciavo, promettendogli di non macchiarmi mai più del peccato di invidia e auspicandomi il suo perdono. Lui, ricambiando il mio abbraccio, sosteneva che già mi aveva perdonato e che non mi serbava rancore. Una settimana dopo, eravamo daccapo. Però lo amavo, sul serio.

Tutto cambiò quando Itachi compì tredici anni.

Vorrei affermare a gran voce, che fu quell’episodio ad aver trasformato Itachi nella famigerata Sposa Mancata. Alas, non è così. Innumerevoli fattori lo hanno portato all’orlo del precipizio, punzecchiandolo, spintonandolo, costringendolo ad arretrare finché altra scelta non gli è rimasta che gettarsi da solo nell’abisso.

Ma tornando a noi.

Era il 31 marzo 1850 e come ad ogni Pasqua, la mia famiglia aveva invitato amici e parenti lontani (coloro che non vivevano con noi) per il pranzo. Per noi bambini era la manna, giacché gli adulti erano talmente impegnati a cicalare dei fatti loro, che manco si premuravano di rimbrottarci o di inquisire sul nostro operato. Quel pomeriggio di primavera non si sottrasse di certo ai suoi predecessori: ben nascosti nell’angolo più remoto del nostro giardino, Itachi ed io, assieme ai nostri cugini Shisui e Obito, giocavamo a mosca cieca, mentre gli adulti si crogiolavano al sole, sorbendosi il caffè. Quand’ecco, che Sayuri e Noriko, le nostre cugine prime e più grandi noi, ci raggiungessero, ridacchiando sonoramente e lanciandoci occhiate birbanti.

“Che volete, oche?”, le apostrofò Obito, raffinato come suo solito. O meglio, nel pieno della fase di crescita in cui le femmine erano il nemico, dopo l’acqua, ovviamente.

“Niente da te, sgorbio!”, gli rispose Noriko per le rime, nel frattempo che l’altra cugina nascondeva un perfido risolino dietro il ventaglio. “Siamo qui per Itachi!”, disse.

Levatosi la benda dagli occhi – era toccato a lui fare la mosca cieca – mio fratello domandò loro incuriosito: “Per me? E che desiderate riferirmi?”

“Solo questo: complimenti, cugino!”, gli risposero beffarde le due ragazze, schioccandogli un bacio sulle guance e sgonnellandosene via in un gran fruscio di stoffa inamidata, lasciandoci tutti assai interdetti.

L’arcano venne svelato il giorno dopo, il 1 aprile e Lunedì dell’Angelo, a colazione.

Ci trovavamo tutti riuniti nel gazebo, poiché il caldo rendeva la sala da pranzo pressoché asfissiante. Tanto eravamo presi dalla prospettiva di alzarci da tavola e di poter giocare in giardino, da non accorgerci degli strani sguardi che gli adulti ci lanciavano, nello specifico ad Itachi,  né tantomeno di quel loro affrettato e poco credibile congedo, finché, tra una scusa e l’altra, a tavola rimasero seduti solamente mio fratello e le donne di casa.

“Nipote carissimo”, gli annunciò la nonna “ieri pomeriggio, tuo zio Madara ha chiesto a tuo padre il permesso per poterti parlare.”

A onor del vero, Uchiha Madara era il cugino di nostro padre ma noi, per semplificarci la vita, lo chiamavamo zio.

“Con me?”, inquisì interdetto mio fratello, appoggiando la chicchera di latte fresco sul tavolo.

“Sì, tesoro”, convenne nostra madre “con te.”

A volte l’intelligenza non paga, fa dannare solamente: Itachi aveva purtroppo subito afferrato il vero significato dietro a quel verbo in apparenza innocuo.

“Ma … ma è vec- sono troppo giovane per lui!”, protestò debolmente mio fratello, lanciando delle occhiate ansiose fuori dal gazebo, sperando in una pronta fuga. “Inoltre, lui è già stato sposato … Ha pure avuto dei figli e …”

“Itachi, Itachi”, lo riprese giocosamente una nostra zia “non dovete mica sposarlo subito! Quando avrete ventuno anni!”

“Nel frattempo, sarà vostra cura conoscervi meglio!”, rincarò la dose un’altra nostra parente. “Per questo, vostro padre ha acconsentito a lasciarvi parlare!”

“Sì, è vero che è stato sposato. Nondimeno, ora è vedovo e non ha bisogno di una moglie che gli produca eredi, bensì di qualcuno che lo assista e gli faccia compagnia.”

“Ciononostante”, boccheggiò mio fratello, in cerca di una scappatoia “siamo … intendo dire, nel nostro paese il matrimonio tra persone dello stesso … sesso … non è contemplato! Quindi …”

“Hai perfettamente ragione, tesoro”, affermò nostra madre “ed è appunto per questo che le nozze saranno, come dire, informali.”

“Non voglio essere la sua concubina!”

All’udire il disperato sfogo di mio fratello, le donne risero assai divertite.

“Oh, povero tesoro! Quanto è innocente!”

“No, non sarai la sua “concubina”! Esiste una clausola che permette matrimoni dello stesso sesso, sebbene essi siano di seconda categoria rispetto a quelli normali e di sicuro meno vincolanti.”

“Pensate a tutti i benefici che otterrete da quest’unione: vostro zio ormai non ha più la pressione di generare un erede ed è poi molto ricco. Vivrete come un principe con lui, non vi farà mancare niente!”

“Ne abbiamo discusso giusto ieri e anche lui sembrava molto interessato a voi, senza contare che nutre nei vostri confronti un’altissima stima!”

“Concedetegli in questi anni di approfondire la vostra conoscenza! Magari, col tempo potreste affezionarvi a lui!”

“Chiedo alle signore il permesso di alzarmi: temo che la colazione mi sia andata in veleno”, mormorò flebilmente Itachi, mettendosi in piedi e abbandonando quelle ridenti pettegole, che avevano interpretato il suo malessere come naturale ritrosia di futura sposa.

Fedele agli annunci delle comari, lo zio Madara venne a visitare la settimana seguente villa Nakano e la palese contrarietà di Itachi a simili incontri non tardò a mostrarsi, seppur in maniera discreta e con l’ausilio di infiniti stratagemmi, primo fra tutti quello di non rimanere mai da solo in presenza dello zio. Certo, neanche due comuni fidanzati lo erano mai – c’era sempre un parente nascosto da qualche parte, che controllava che i due non combinassero nulla di disdicevole – nondimeno, lo zio stesso era riuscito a persuadere nostro padre ad avere Itachi tutto per sé, in barba alla tradizione. Di conseguenza, allo zio non piacque come mio fratello si prodigava a trattenere le persone accanto, impedendogli così di discorrere liberamente col nipote e la sua controffensiva non tardò a giungere: tramite cortesi richieste, qualche lagna a nostro padre e piccoli atti di corruzione (specie a noi bambini), lo zio Madara fu capace di creare pian piano terra bruciata intorno ad Itachi, isolandolo. A difesa di mio fratello erano rimasti solamente nostro cugino Shisui – che zio Madara non tardò a persuadere sua madre a spedirlo in collegio – e Haku, il domestico personale di Itachi e che lo zio non riusciva a comprare in alcun modo. Infatti, sebbene il ragazzo apparisse molto mite e servizievole, come tutti gli abitanti di Kiri e di dintorni, Haku ne aveva ereditato lo spirito altamente polemico e volitivo, tipico di chi non si fa comandare neanche quando deve servire. Tranne che per gli ordini di Itachi, lui faceva orecchie da mercante con gli altri della famiglia, anche a costo di subire tremende punizioni da parte di nostro padre.  Lo zio Madara non lo poteva soffrire e non mancò più volte di farlo allontanare da villa Nakano.

Trascorse un anno, durante il quale incominciò la metamorfosi di Itachi.

Prima di allora, mio fratello aveva posseduto un carattere sostanzialmente tranquillo, prono al compromesso e gentile. Col passare del tempo, esso veniva gradualmente sostituito da uno più inquieto, introverso e lunatico. Osservavo incredulo e al contempo turbato come il suo sguardo, solitamente così sereno, avesse assunto un’insana ansietà, spostando in continuazione da un posto all’altro quelle dilatate iridi nero pece con la stessa agitazione di un animale braccato. Si chiuse in un inspiegabile mutismo e quando veniva costretto a parlare, balbettava. Scattava ad ogni parola, s’offendeva per un niente, implorando subito perdono con una vocina straziante e infantile. Non volle più giocare con me e smise di suonare il pianoforte, preferendo invece chiudersi in camera sua a scrivere infinite lettere a Shisui. Quando non scriveva, rompeva tutto ciò che poteva reperire: vasellame, specchi, giocattoli, libri, quadri, etc., nulla si salvava alla sua nevrotica furia. In famiglia avevamo preso a chiamarlo “matto”, “isterico”, “posseduto”, senza tuttavia domandarci il perché di quell’atteggiamento.

Sì, non ci si doveva porre domande pericolose. Il “perché …?” non doveva sussistere. Forse, noi ignoravamo genuinamente quel che stava sopportando mio fratello. Forse, lo ignorammo convenientemente.

Infatti, non ci chiedemmo mai perché ogniqualvolta che lo zio Madara entrava in una stanza, Itachi, pallido come un morto, si affrettasse ad abbandonare la sua occupazione, adducendo una scusa per ritirarsi in camera sua? E che quando lo zio lo raggiungeva per “conferire” con lui, mio fratello scendesse a cena col volto di chi ha subito l’asportazione della sua anima?

Non ci chiedemmo mai perché Itachi avesse smesso di presentarsi ai pasti, rispedendo intatto il vassoio che Haku gli portava in camera sua?

Non ci chiedemmo mai perché le bottiglie di spiriti si stessero lentamente svuotando, accusando invece la servitù?

Non ci chiedemmo mai delle profonde e scure occhiaie sotto gli occhi di mio fratello? Non mi chiesi mai perché una notte, in cui nostro zio si fermò a casa nostra per via di un brutto acquazzone, vidi Itachi irrompere in camera mia, chiudendo a chiave la porta e supplicandomi in ginocchio di non dire a nessuno che mi trovavo lì. “Ti darò tutti i miei giocattoli, Sasuke!”, mi ripeteva in un mantra, guardandomi speranzoso, gli occhi neri arrossati. “Ti darò tutto quello che vorrai! Solo, non dire a lui che sono qui! Non rivelarlo a Maman e a Papa! Ti scongiuro, Sasuke! Abbi pietà di me! Aiutami!”, prese a singhiozzare istericamente e altro non potei fare che abbracciarlo di riflesso e di coricarlo accanto a me, sotto le coperte, similmente a quelle volte in cui mi intrufolavo nel suo letto, giacché spaventato dalla prospettiva di essere rapito dal malvagio Re degli Elfi.

Non ci chiedemmo mai perché Itachi, incurante dei pettegolezzi, in seguito a quell’episodio avesse ordinato espressamente a Haku di dormire con lui la notte?

Non mi chiesi mai che sorta di liquido contenesse quella boccetta che Itachi aveva comandato a Haku di comprare da una curandera [1] e che il giovane domestico gli aveva ceduto in gran segreto, in cucina?

E, infine, non ci chiedemmo mai il perché di ciò che avvenne il giorno del sedicesimo compleanno di Itachi? Del motivo per il quale  nostra madre dovette quasi tenerlo fermo, quando disse a nostro zio: “E sia, Madara caro. Vi permetto di baciare mio figlio. Qui”, dichiarò scherzosa, indicando la fronte di mio fratello, che assunse un’espressione da suppliziato, svenendo a momenti.

O trovammo mai una spiegazione al gesto da lui compiuto la notte stessa? Ancora mi rimbomba nelle orecchie l’urlo terrorizzato di Haku: “Oh, Sant’Erasmo de marinèri agiùto! Paron Itachi, fermève! No fé! No fé!”

Grido d’allarme che subito svegliò nostro cugino Shisui – che dormiva nella stanza in fondo al corridoio.

“Parla cristiano, Haku! E dimmi che succede!”, lo sentii berciare di rimando, mentre l’eco della sua corsa forsennata si riverberava per il piano. Tanto era stato lo spavento del giovane domestico, che s’era espresso nel suo dialetto.

“Paron Shisui! El se vol mazzare! Se vol mazzare!”

Presto, all’esclamazione di orrore di Haku si aggiunse anche quella di nostro cugino, seguita da strilli non dissimili a quelli di un agnello sgozzato.

“Lasciatemi! Lasciatemi stare!”

“Haku, tienilo fermo!”

“Mollatemi, ho detto! Faccio quello che voglio!”

“Paron Itachi, metta zò quel cortelo!”

“Lasciatemi! Lasciatemi!”

“Invece di parlare aramaico, dammi la medicina! Ora!”

“Non ne avete il diritto!”

“Sbrigati, pantegana di Kiri!”

“Sior màmara …”

“Ohé, ti ho sentito!”

“Oh no, paron Sasuke! Via, via! Drento in cànbera! Ehm, volevo dire: ritornate in camera vostra!”

“Non ci voglio tornare!”

“E voi ci dovete invece andare!”

“Voglio vedere mio fratello!”

“Ma sparisci, nano! Non renderci le cose difficili!”

“Lo dirò a Maman, Shisui, che m’hai insultato!”

“Bravo! Vai a far la spia e lasciaci soli!”

Quando lo scompiglio generale provocato da Itachi riuscì a svegliare tutti gli abitanti di villa Nakano e quando questi, ripresisi dallo choc iniziale, raggiunsero la fonte di tal baccano, trovarono mio fratello sfinito e ubriaco delle sue stesse lacrime in braccio ad uno Shisui pieno di graffi sul volto, sulle braccia e sulle mani e Haku che mi stava trascinando di peso in camera via, impedendomi di assistere a quel triste spettacolo.

Nessuno commentò. Nessuno fece niente.

«Ich liebe dich, mich reizt deine schöne Gestalt;

Und bist du nicht willig, so brauch ich Gewalt.» [2]

(Ti amo, sono incantato dalla tua bella figura / e se non sarai consenziente, allora userò la forza, ndr.)

 

 

 

Quando Naruto giunse al porto antico di Kiri, quello sul centro storico, le prime luci dell’alba stavano accarezzando languidamente la vellutata superficie del mare blu cobalto, tingendolo di un rosa a tratti vermiglio e sostituendo la sonnolenta luce grigio-azzurra delle ore appena precedenti al sorgere del sole. Era grato di essere uscito dal treno e di respirare a pieni polmoni l’aria frizzante proveniente dal mare placido: dopo ciò che aveva letto, si sentiva l’animo appesantito dai mefitici vapori dettati dal disgusto e dalla rabbia generata dall’impotenza. Non doveva stupirsi, erano cose anche fin troppo frequenti nell’Ottocento, eppure la sua mente non voleva accettare quel che i due fratelli erano stati costretti a patire, uno come vittima e uno come involontario testimone.

Quel diario non era il classico fascicolo che il giovane commissario leggeva, trovandoci spesso storie tristemente simili. Quelle, per quanto lamentevoli, mostravano situazioni che si potevano migliorare. La storia raccontata dal fratello della Sposa, invece, non suggeriva alcuna soluzione. Fatto. Finito. Quel che era stato era stato.  

Sospirando pesantemente, si passò una mano tremante tra i capelli biondi e si sedette su di una panchina, in attesa che il traghetto raggiungesse l’imbarcadero e che in seguito lo portasse  all’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara, la cui silhouette si stagliava in controluce sull’isolotto poco distante dal porto.

Ingollando una grossa sorsata di caffè, Naruto riprese là dove si era interrotto.

 

 

 

Una prima significativa svolta avvenne a partire dal maggio del 1855 e incominciò dalla seguente conversazione tra nostra madre, la nonna e mio fratello.

“Tesoro, se non t’incomoda, potrei porti una domanda?”

Itachi, ormai diciottenne, sgranò dapprima gli occhi neri, come se non avesse udito la voce di nostra madre, per poi annuire stancamente, finendo con aria avvilita la sua cioccolata calda.

“Ebbene, Itachi, è successo qualcosa tra te e lo zio Madara?”

La tazza di cioccolata incontrò troppo bruscamente il suo piattino, macchiandolo del dolce liquido scuro.

“Perché mi domandate questo, madre? S’è forse lamentato di me? Vuole rompere il fidanzamento?”, inquisì ansioso mio fratello, lo sguardo per un istante illuminato di folle speranza.

La quale venne prontamente soppressa dalle rassicurazioni di nostra madre. “Oh no, niente di tutto ciò. Ecco, forse sì, un poco si è lamentato di te. Sostiene che in questi cinque anni lo hai spesso trattato con estrema freddezza, evitando ogni suo tentativo di conversazione e soprattutto restituendogli ogni suo regalo. Certo, la modestia è raccomandabile, però … concedere di tanto in tanto un sorriso … una qualche parolina gentile … una confidenza … altrimenti, tesoro, darai la falsa impressione di non volerlo sposare!”

“E se”, azzardò Itachi, sporgendosi verso nostra madre “e se fosse proprio questo ciò che desidero? Se non volessi sposare lo zio?”

“Oh, beata schiera angelica! Che barbarità stai dicendo, Itachi?”, lo rimbrottò dolcemente la nonna, scuotendo il capo. “Non ti rendi conto che è l’occasione della tua vita? Onestamente, devi pensare al tuo futuro. Vuoi rimanere solo per il resto dei tuoi giorni e accontentarti di giocare allo zietto coi figli di tuo fratello? Non desideri una casa tua? Itachi, ormai sai cosa implica la tua, ehm, deformazione, no? Non puoi pretendere di menare la medesima vita di Sasuke! Nessuna donna ti vorrebbe e molto probabilmente disgusteresti anche gli uomini. Di conseguenza, oltre allo zio, chi ti piglia?”

All’udire ciò, il labbro inferiore di mio fratello prese a tremare. “Già … chi mi piglia …”, ripeté come in trance, tappandosi la bocca per soffocare degli improvvisi e acuti risolini, i quali crebbero di volume e intensità, fino a portare Itachi a piegarsi dalle risate, la fronte appoggiata sul tavolo. Prima, però, che la nonna e nostra madre avessero avuto modo di invitarlo a ricomporsi, ecco che il riso si tramutava in un disperato pianto e le risate in singhiozzi.

“Itachi, per favore, controllati! Non è il caso di … oh, Vergine Santissima!”, esclamò spaventata nostra madre, alla vista di mio fratello lanciare un ultimo stridulo guaito di dolore, per poi cadere dalla sedia e, una volta sul pavimento, a contorcersi forsennatamente, neanche fosse stato percorso da continue scariche elettriche.

Mein Vater, mein Vater, jetzt faßt er mich an!

Erlkönig hat mir ein Leids getan! –

(Padre mio, padre mio, adesso egli mi ha afferrato!  / Il Re degli Elfi mi ha fatto del male!, ndr. )

 

 

In quel momento, io mi trovavo in cucina: Uzuki Yuugao, la mia governante, si stava prodigando a ricucirmi uno strappo ai calzoncini provocato da un solenne ruzzolone. Osservando l’abile andirivieni dell’ago nella stoffa, sorseggiavo serafico la mia acqua e menta, chiedendo di tanto intanto alla ragazza quanto le mancasse. Non che avessi un bisogno immediato dei miei calzoncini, però quello era il paio che più prediligevo.

Il trillo del campanello scosse tutti i domestici lì presenti dalle loro occupazioni, spronando uno a recarsi nella sala da pranzo. Venne e tornò, domandando di Haku, il quale abbandonò in tutta fretta il suo pane e latte, sparendo per due ore buone.

“Cos’è successo, Haku?”, gli domandò Keiko, un’altra nostra fantesca, al suo ritorno.

“Paron Itachi ha sofferto di una delle sue solite crisi”, replicò laconico il ragazzo, massaggiandosi stancamente la tempia destra. Parlare “cristiano”, come a Konoha tutti parevano essere assai zelanti a ricordargli, lo stancava grandemente.

“Mio fratello?”, m’informai preoccupato. “Una crisi? E quale? Sta bene? Posso vederlo?”, lo tempestai di domande, tirandolo per una manica.

“Sì, alla prima, paron Sasuke. Sì, pure alla seconda. Attacco nevrotico, alla terza. Adesso megio alla quarta e no, alla quinta. Non potete visitarlo per il momento. Ordini del medico”, soddisfò Haku paziente eppure conciso la mia curiosità. Dopodiché, si rivolse alla vecchia Ryoka, la nostra cuoca. “La parona Mikoto si chiedeva, se potevi intanto preparar pel paron Itachi un decotto di melissa. Per calmargli i nervi, dice lei.”

“Ché! Di nuovo? Pah!”, scrollò le spalle la donna, accingendosi ad eseguire la richiesta del giovane domestico. “Altro che melissa! Quello là ha bisogno di un esorcismo!”, dichiarò, segnandosi più volte. Alcuni dei servi lì presenti la imitarono tosto.

“Che sia posseduto?”, chiesi conferma a Yuugao, portandola a segnarsi anch’ella.

“Spero di no, padroncino!”

“Made!”, esclamò stupito Haku, incrociando le braccia al petto. “A che razza di stramberie state dando aria? Posseduto? Via digo, non vi fate sentire, per carità! Paron Itachi sta male, ecco tutto.”

“Ma che ha?”

“Lo sai forse, Haku?”

“Trascorri molto tempo con lui!”

Incrociando due dita alla bocca, Haku sentenziò solenne: “I servi ch’hanno giudizio, non vanno a parlare de’ fatti de’ loro paroni!” e detto questo, presa la tisana e si recò in camera di mio fratello.

Perché la parola di un servitore non valle nulla, anche contro le malefatte del suo padrone. Anzi, alla fine è proprio il domestico che paga la sua audacia, accusato di infondata vituperazione e calunnia.

 

 

 

“Ti ringrazio infinitamente, cugino, per aver esaudito la mia richiesta”, esordì Itachi il suo discorso, osservando Haku di sottecchi mentre questi, servito il tea e la Victorian Cake, si sistemava nell’angolo più remoto della stanza, assumendo l’espressione vacua di chi fingeva di non sentire.

Cinque giorni dopo l’attacco isterico, mio fratello aveva potuto lasciare il letto, senza tuttavia uscire dalla camera da letto: il dottore gli aveva sconsigliato ogni sforzo inutile, sollecitandolo piuttosto a riposarsi. Così, lui ed io trascorrevamo la maggior parte del tempo nel suo boudoir, mio fratello in vestaglia e allungato sulla chaise longue e io sulla poltrona accanto, leggendogli ad alta voce di tanto in tanto un libro. Passatempo che io trovavo assolutamente barboso, ma che tuttavia giovava assai ad Itachi, giacché, anch’egli annoiato, si addormentava, cullato dal mio orrido francese.

Quel pomeriggio, però, nostro cugino Shisui venne a trovarci, certamente su invito di Itachi. Preso posto scandalosamente ai piedi della sua chaise longue, invece che sulla poltrona (il cugino aveva sempre tratto un perverso gusto a sfidare le buone maniere), egli s’informò dapprincipio sulle condizioni di salute di mio fratello, il quale lo ringraziò per l’interessamento, sostenendo che stava migliorando per quanto fosse tormentato all’occasione da delle fastidiose vertigini.

“Bagni di mare, cugino caro”, gli consigliò Shisui, dopo aver ascoltato attentamente il resoconto di mio fratello. “Sono un ottimo rimedio per le vertigini. O almeno così affermano i medici. A mio avviso, ti saranno utili come scusa per allontanarti da qui per un po’ di tempo.”

Mio fratello sospirò, accarezzando pensoso il gatto rosso sul suo grembo. “L’idea non mi dispiacerebbe, Shisui. Purtroppo, però, sia mio padre che lo …”, deglutì “zio convengono quanto sia meglio tenermi in casa, così da evitare ogni possibile ricaduta.”

“Oh, una scusa convincente la si trova sempre, Itachi!”, sogghignò nostro cugino, così come soleva fare da bambino, quando aveva ideato una marachella ai danni degli adulti. “Ti ricordi, cugino, della signorina Nohara Rin?”

Sia mio fratello che io arcuammo intrigati il sopracciglio. Cos’era quel repentino cambio di argomento?

“Sì … che mi dici di lei?”

“Ebbene, mio fratello Obito nutre un certo interesse nei suoi confronti e i genitori di lei sembrerebbero approvare siffatte attenzioni. Nondimeno, prima di annunciare ufficialmente il loro fidanzamento, a Obito piacerebbe conoscere meglio la ragazza, poterle parlare liberamente a tu per tu, senza tuttavia creare infamanti dicerie. I signori Nohara tengo estremamente al decoro. Mi segui?”

“Sì …”

“Bene, perché avremo bisogno dell’aiuto tuo e dalla piccola pulce”, gli rivelò con fare cospiratore, accennando a me con un lieve cenno del capo.

Aggrottai indispettito la fronte: Shisui aveva un modo tutto suo per dileggiarmi, appellandomi nei più disparati modi. E ciò che mi irritava maggiormente, era il fatto che Itachi trovasse i suoi lazzi divertenti.

“Del mio aiuto? Di Sasuke? Come?”

“Ti ricordi della nostra lontana parente, la signorina Terumi?”

“Mei? Certo, seppur vagamente.”

“Ecco, ha deciso di prendere i voti.”

All’udir ciò non riuscii a trattenermi dall’esclamare: “Si fa suora? Non l’avrei mai detto! Mi era sempre parsa assai volitiva e energica per chiudersi in un convento!”

Mi sovvenivo molto bene di quella giovane rossa, che si diceva possedere in corpo tutti i sette diavoli di Maria Maddalena. Figurarsi: figlia unica, figlia per di più della vecchiaia, ovvio che non le facesse paura manco il demonio in persona e che fosse abituata a comandare gli altri a bacchetta! Ne sarebbe venuta fuori una portentosa badessa, altroché!

“Eppure così va il mondo e per quel che mi riguarda, lei può anche andare al diavolo!”

“Shisui!”, lo riprese Itachi, elargendogli a mo’ di punizione un colpetto alla coscia col piede.

“ Perdono cugino. In ogni modo, importa il fatto che Mei sia la migliore amica di Rin: da piccole entrambe hanno infatti studiato nello stesso convento dalle suore. E quale miglior occasione, se non questa, per avvicinare Rin? Di sicuro parteciperà all’entrata ufficiale dell’amica in monastero!”

“Sì, ma cosa centriamo noi?”

Shisui roteò gli occhi melodrammaticamente. “Se Obito dovesse recarsi a Kiri da solo, la gente capirà subito che si reca a corteggiare Rin. Se ci andassimo solo mio fratello ed io, sarà palese che uno dei due gioca alla donna – o nel nostro caso, uomo – dello schermo. Invece, se ci recassimo tutti a Kiri, sembrerà una semplice gita di famiglia. Che te ne pare? Non l’abbiamo azzeccata? Inoltre, Itachi, considerala anche come un’occasione per respirare un po’ d’aria buona e soprattutto per scrollarti di dosso certe … patelle!”, gli annunciò trionfante il ragazzo e attendendo una nostra risposta.

Dal canto mio, ero più che entusiasta di partire alla volta di Kiri, di cui avevo dei bellissimi ricordi. Mi mancavano molto le lunghe passeggiate sulla spiaggia, l’aria salmastra, l’incessante canto dei gabbiani, i bagni e soprattutto le frittelle della signora Yuki – o Mamma Haruhi – un  tempo nostra balia e madre di Haku.

Anche Itachi condivideva le mie medesime aspettative e il luccichio nei suoi occhi tradiva palesemente l’enorme voglia di poter trascorrere l’estate lontano da villa Nakano.

“Dovrò chiedere il permesso a mio padre …”

“Non ti preoccupare: penserò io a tutto! Sai quanto lo zio Fugaku mi ami alla follia!”, scherzò Shisui, le cui orecchie in realtà ancora bruciavano da tutte le volte, che nostro padre lo aveva rimproverato e punito per le sue infinite monellerie, lamentandosi poi con sua madre per non essersi risposata dopo la morte di zio Kagami, così da fornire sia Obito che Shisui di una figura paterna e autoritaria, che li avrebbe messi finalmente in riga, al posto di crescere allo stato brado, com’era solito nostro padre descrivere l’educazione impartitali dalla madre.

In ogni modo, la proposta del cugino parve aver sortito il suo effetto: per la prima volta dopo molto tempo, vidi Itachi sorridere genuinamente spensierato, rallegrandomene anch’io.

Alas, la sorte congiurò di nuovo contro di noi.

Due mesi dopo quel discorso, il colera scoppiato nel frattempo a Kumo e ad Iwa raggiunse anche Konoha, mietendo molte vittime.

Tra cui anche Shisui.

Per un anno Itachi smise di parlare, entrando in una depressione nera.

 

 

 

“Sior!”

Codesto richiamo giunse tanto inaspettato, che il diario per poco non cadde di mano a Naruto, finendo così in mare. Ricompostosi fretta, il bionde mise nella borsa a tracolla il suo prezioso quadernino, balzando giù dalla panchina e raggiungendo il traghettatore, il quale l’aspettava all’imbarcadero tra il divertito e lo spazientito.

Erano le sette e un quarto del mattino e l’alba ormai aveva ceduto il posto alla mattina vera e propria.

“Mi scusi”, si cosparse Naruto il capo di cenere, osservando preoccupato l’acqua profonda e inquieta a qualche centimetro dal suo piede. “Ero sovrappensiero …”

“E bondì anche a lei, sior”, lo salutò il giovane dai capelli biondo-rossicci, arricciando le labbra in un mezzo sorriso birbante. Con tutti quei piercing in faccia, poi, sembrava un teppista, se non proprio un galeotto.“Dormito male?”, s’informò, tendendo la mano a Naruto, che questi afferrò saldamente per entrare nella snella imbarcazione, la quale oscillò un poco, provocando una piccola vertigine nel commissario. “Si sieda ai lati, accanto ai siori e non si preoccupi: la nostra putèla non si capovolge! Non sempre, almanco!”, scherzò, mescolando alla lingua standard parole di dialetto.

Sedutosi rigidamente accanto agli altri quattro passeggeri, Naruto si sentì molto stupido per aver esternato sì platealmente il suo timore.

“E dov’è diretto?”

“All’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara!”

“Ma a quest’ora xè chiusa alle visite!”, obiettò il traghettatore.

“Non mi reco lì per scopi turistici”, replicò sibillino Naruto. “Bensì per … una ricerca.”

Gli occhi azzurri del giovane squadrarono a lungo il biondo, chiaro segno che non gli credeva interamente. Nondimeno, fischiò al suo collega l’ordine di incominciare a remare, mentre lui aiutava l’imbarcazione a scivolare via dalla banchina appoggiandosi alle paline.

Estraendo lentamente il diario, il giovane commissario ingollò l’aria salmastra – diamine, adesso scopriva che soffriva di mal di mare? – e riprese a leggere.

 

 

 

In seguito alla morte del suo cugino preferito, gli attacchi nevrotici di Itachi mutarono in apatia e se già all’inizio egli si esprimeva a monosillabi, adesso ci sembrò che la lingua gli si fosse seccata in bocca e che mio fratello avesse assunto la medesima vitalità di un automa. Non si sottraeva più alle visite dello zio, onorandole in silenzio e con lo sguardo vuoto di chi era altrove con la testa. Mantenne poi il lutto completo anche dopo i tre mesi di prassi per gli uomini, invece di sostituire l’abito scuro con la più comoda fascia nera al braccio per i restanti nove mesi.

Le letture di Itachi subirono inoltre un inquietante dirottamento: curiosando nella sua libreria personale, scoprii che mio fratello aveva sviluppato un morboso interesse nei confronti dello spiritismo e di pratiche esoteriche e sfogliando i numerosi libri e articoli di giornale, notai che si stava concentrando prevalentemente sul richiamo degli spiriti dall’Aldilà, come evocarli e parlare con loro. Alla lettura dei contenuti di quegli scritti mi vennero i sudori freddi e per la prima volta realizzai, che un qualcosa di sinistro si stesse insinuando nell’animo di mio fratello, lui di solito così calmo e razionale. Così, pieno d’ardore preadolescenziale, mi prefissai di sottrarre Itachi a quelle idee perniciose, esaudendo l’ultimo favore che Shisui aveva intenzione di fargli, ergo portarlo a Kiri. Del resto, il colera aveva sconvolto anche le nostre esistenze, sospendendo ogni attività e solo dopo un anno potemmo lentamente riprendere il normale corso delle nostre vite.

Trovai un’ottima alleata in Rin, ora fidanzata ufficiale di nostro cugino Obito. Quest’ultimo si era fatto avanti solamente al termine del periodo di lutto contemplato per la morte del fratello e sempre con qualche ritrosia. Rin, con abile civetteria, convinse il fidanzato ad accompagnarla per qualche tempo a Kiri, affermando che le mancava terribilmente la sua migliore amica e i parenti lontani. Gli stessi signori Terumi si dimostravano più che disponibili ad ospitarci per l’estate. Fu un lungo lavoro di persuasione, ma alla fine nostro padre cedette e la mattina di Pentecoste del 13 maggio 1856 la carrozza per Kiri ci aspettava impaziente, carica fino a scoppiare dei nostri bagagli.

L’accoglienza dei signori Terumi fu grandiosa, degna del loro status della famiglia più altolocata di Kiri (e non a caso erano lontanamente imparentati con noi). Non trascorreva giorno, che Madame Yurika, la madre di Mei, non ci organizzasse un tea con dei suoi conoscenti; una serata concertistica in casa sua (addirittura una volta un ballo privato); una gita fuoriporta, ad esempio ad Ame, o una gita in barca. Di tanto in tanto Mei ci onorava della sua presenza, ottenendo da brava capricciosa e testarda il permesso dalla madre superiora di uscire dal convento. Mi faceva uno strano effetto vedere quella che chiamavano la Basilissa di Kiri, sempre così elegante e raffinata, vestire di un umile saio nero e il lungo velo bianco da novizia; all’inizio molti avevano creduto che il suo gesto fosse stato dettato dalla noia o dalla sua perenne volontà di stupire. Invece, notando una certa pacatezza nel parlare e nell’atteggiarsi ora più dolce, compresi che la sua vocazione era sincera, sebbene seguitasse ad essere comunque spaventosa, quando s’arrabbiava, e regina indiscussa del “voglio e posso”.

Malgrado i notevoli sforzi dei nostri anfitrioni, mio fratello non prese parte a nessuno degli svaghi da loro proposti e del resto, per una persona che aveva trascorso gran parte della sua vita in casa, confrontarsi con così tanta gente ed essere sballottato di qua e di là gli risultava piuttosto difficile da sopportare, stancandosi conseguentemente. Eppure, il sollievo di vedere rifiorire il rosato sulle sue guance smunte e di sentirlo nuovamente conversare con gli altri non me lo levò nessuno e non mancai di scriverlo a Maman nelle nostre lettere, essendosi la genitrice molto raccomandata con me di tener d’occhio mio fratello. Inutile dire quanto ne gongolassi, orgoglioso di quell’importante incarico. Mi sentii d’un colpo più maturo e responsabile.

Sfortunatamente per le mie velleità di crocerossina, mio fratello conosceva bene l’arte di scapparmi via da sotto il naso.  

Itachi coltivava, infatti, l’abitudine di alzarsi molto presto la mattina e di pigliare con sé Haku (da solo non usciva mai) per delle lunghe passeggiate lungo la promenade principale in riva al mare e talvolta sulla spiaggia stessa. Dopodiché, al ritorno i due viravano nel centro cittadino, porgendo una visita a Mamma Haruhi, la quale li tratteneva per ore e ore, riempiendo Itachi di frittelle – che prontamente divideva con me – e di raccomandazioni circa il nutrirsi adeguatamente. Infine, rientrati a casa, mio fratello si rinchiudeva in camera sua, magari sul balcone, ripresentandosi solo ai pasti. Avendo difficoltà a dormire – così lui si giustificava – soffriva di frequenti emicranie e preferiva rimanere al buio. A noi dispiaceva questa suo essere scostante, tuttavia non potevamo di certo obbligarlo a prender parte alle nostre attività. Tranne che le serate all’opera, oh, allora sì che Itachi veniva! Peccato, che l’opera e il teatro fossero proprio gli unici svaghi in cui mi annoiassi grandemente. 

Seguimmo questa tabella di marcia per settimane, senza particolari variazioni.

Fino a quel giorno.

Era il 9 giugno 1856 e mio fratello festeggiava i suoi diciannove anni; ciononostante, come tutte le mattine, si levò molto presto, indossò i suoi abiti neri da lutto, chiamò Haku e, con i corpo solo una tazzina di cioccolata, uscì di casa per la sua abituale passeggiata mattutina, in barba ai piccoli peccatucci e licenze che si concede, quando si compiono gli anni. Più rigido di un maresciallo prussiano, Itachi seguì inflessibile l’ormai consolidato programma.

Quand’ecco che, sulla via del ritorno, passando per la pescheria uno degli affaccendati pescatori si accorse tra la folla di loro due, chiamando di conseguenza a gran voce Haku, finché questi, accortosi, ricambiò il saluto assordando per poco mio fratello. Rumorosa abitudine di Kiri! Alla domanda di Itachi circa l’identità del pescatore, il giovane domestico gli rivelò tutto d’un fiato che si trattava di Momochi Zabuza, uno che da un po’ di tempo gli faceva la corte.

“E se lui dovesse chiederti di sposarlo, accetteresti?”, gli chiese lentamente mio fratello, fissando a lungo il ragazzo, che replicò pragmatico:

“E perché no, paron Itachi? De diana, mica m’attacco con un battellaio! Zabuza possiede una casa sua, due tartane e ha gente che lavora per lui. Sa leggere e scrivere e ci conosciamo da quando io ero una creatura! Pensate, paron, che a Santa Caterina c’ha regalato una cesta piena di canocie e in primavera di moeche! [3] La mia mama m’ha detto, che se non fosse tanto vècia, lo sposerebbe lei!”

“Solo per questo saresti disposto a  divenire, ehm, il suo consorte?” Per uno appartenente all’aristocrazia, trovare appetibile un soggetto come Momochi Zabuza gli risultava assai arduo, se non proprio inconcepibile. Nondimeno, Itachi dedusse che per Haku, per il suo strato sociale, la sua educazione e il paese d’origine, egli corrispondesse ad un buon partito. Si aggiunga poi che a Kiri il matrimonio tra le persone dello stesso sesso valeva tanto quanto quello eterosessuale e il gioco valeva la candela.

“No, paron, non solo. Ammetto che mi piaccia e anca molto”, arrossì il ragazzo. “Sennò, mica gli permettevo di baciarmi, la domenica dopo la funzione!”

Le orecchie di Itachi divennero rosse. “Tu … tu l’hai baciato?”

“Sì ben, paron, e più volte! Oh, viva diana! Altrimenti, me lo prendeva ’n altro! Come faceva a capire, che m’interessava? Non vi baciate, voialtri siori?”, si giustificò Haku, interdetto dalla moralistica incredulità di mio fratello. “Però v’assicuro, che le chele le ha ben tenute in tasca, veh! Sono un putèlo onorato, io!”, lo rassicurò così solennemente, che sulle labbra fini di Itachi si curvarono in un malinconico sorriso.

“Allora, non farlo aspettare”, lo incalzò mio fratello, accennando all’uomo con un discreto cenno del capo. “Vai a parlare con lui!”

Il viso di Haku s’illuminò. “Daséno? Posso?”, disse, per poi mordicchiarsi a disagi il labbro inferiore. “Ma voi?”

“Tornerò a casa da solo, ormai conosco la strada. Prenditi la giornata libera”, gli offrì generosamente Itachi, osservando mesto come Haku si era lisciato i capelli e i vestiti prima di raggiungere Zabuza e di come il suo viso si fosse tramutato in un bocciolo di rosa, tanto le guance imberbi del ragazzo s’imporporavano di lusinga e affetto mentre cicalava con l’uomo, il quale, malgrado la grossa stazza e le forti mani ruvide, rosse e callose, trattava il giovinetto con tale garbo, che pareva avere tra le mani un cristallo di Boemia.

Chissà, magari in quel momento Itachi, osservando in disparte la scena, dovette aver provato una grande invidia nei confronti del suo domestico, così felice e spensierato nel suo amore e corteggiato da un uomo sì di umili origini, ma che lo rispettava.

E forse fu proprio con l’immagine dei due sorridenti e complici, che mio fratello deviò dal consueto percorso, dirigendosi invece verso e la spiaggia e, una volta lì, sedendosi sulla morbida sabbia ancora fresca e catturando distrattamente i granchietti che si nascondevano sotto di essa, per poi liberarli subito dopo.

In quello stato di incantamento dovette mio fratello essere rimasto piuttosto a lungo, giacché non s’accorse della marea che ingoiava avida la spiaggia man mano che il sole si alzava, né avvertì egli l’acqua lambirgli le scarpe e i vestiti. Continuava a rimanere rigidamente seduto in quella posizione, le ginocchia al petto e lo sguardo fisso davanti a sé, incurante di ciò che lo circondava, immerso nella solitudine del meriggio.

Fu quando l’acqua gli sfiorò il naso, che una forte presa per le ascelle lo issò in piedi, trascinandolo in un rumoroso scroscio a riva, o almeno così sperava di fare il soccorritore, poiché Itachi, ripresosi dall’attimo di confusione, si divincolò prontamente dall’altro, indietreggiando scompostamente e perdendo l’equilibrio, fino a cadere di nuovo in acqua in un sonoro tonfo. 

“Varé là, non fate storie!”, gli offrì lo sconosciuto la mano, onde rialzarsi. “A mollo non si sta bene!”

Per tutta risposta, mio fratello con un brusco e ampio movimento del braccio creò una piccola onda, che lavò completamente il viso dell’uomo.

“Rinfrescante!”, commentò quegli sarcastico, asciugandosi il volto gocciolante. “Via matto, datemi la mano!”, disse gentilmente, sporgendosi per afferrare quella di Itachi, che invece schiaffò via la sua, allontanandosi da lui come un’aragosta. “Se siete duro di testa, strambazzo!”

“Non mi toccate!”, berciò mio fratello, distanziandosi ulteriormente dallo sconosciuto, il quale levò in alto le mani, senza tuttavia accennarsi a lasciarlo da solo.

“Sta ben. Non vi tocco”, replicò cauto l’uomo. “Tuttavia, vogliate avere l’amabilità di rialzarvi e di tornare a riva!”

“Posso farlo benissimo anche senza la vostra supervisione! O dovete per forza controllarmi?”

“Nel vostro caso, temo di sì.”

“Aria, non siete né la mia balia né tantomeno mio padre! Non accetto ordini dagli estranei!”

“Nessun ordine, ve l’assicuro”, lo tranquillizzò serafico lo sconosciuto. “Solo un consiglio: essere mangiato vivo dai granchi non è una bella morte!”

Gli occhi di mio fratello si ingrandirono, sorpresi. “Come, prego?”

“Non lo sapete? In tempi antichi, una punizione molto frequente qui a Kiri consisteva nel legare il condannato ad un palo, fargli un piccolo taglio e lasciarlo lì, in attesa dell’alta marea e in balìa dei granchi. Macabro, nevvero?”

Evidentemente sì, poiché Itachi scattò in piedi e, crocifiggendo con lo sguardo il suo soccorritore, si diresse piccato sul bagnasciuga, borbottando tra i denti: “Siete un individuo ripugnante …”

L’uomo aprì la bocca per replicare, per poi chiuderla all’ultimo momento, limitandosi a scuotere il capo e a ridacchiare tra sé e sé. “Lustrissimo!”, salutò mio fratello, abbozzando ad un inchino.

Itachi non lo degnò di una parola, proseguendo inviperito e bagnato fradicio verso casa.

Fu la prima espressione “viva” che gli lessi in volto dopo un anno.

 

 

“E mi dica, di dove xéla?”

Sull’imbarcazione erano rimasti solamente Naruto e il traghettatore, il primo in un lieve stato di dormiveglia: complice la notte trascorsa in bianco e l’ora piacevole dondolio delle onde, gli occhi celesti del biondo si erano gradualmente chiusi e fu forse per questo motivo, onde evitare che cadesse all’indietro in acqua, che il rematore aveva attaccato bottone con lui, svegliandolo di conseguenza.

“Eh? Scusi? Che ha detto?”

Sbuffando sonoramente, il giovane ripeté snervato: “Di dove xéla?”

“Potrebbe parlare cristiano, per favore?”, lo pregò Naruto, sinceramente disorientato da quel dialetto cantilenante e sibilante e stufo di capire trequarti di quel che il traghettatore gli stava dicendo.

Peccato che la sua richiesta tinse di rosso le gote dell’altro e non ti imbarazzo. “Debòto le dago un “parlare cristiano” su la copa!”, lo minacciò neanche troppo velatamente.

E io pensavo che la gente scherzasse, quando affermava che quelli di Kiri  e di Ame fossero permalosi!, cogitò apprensivo Naruto, indovinando cosa “copa” potesse significare e, giudicando i pochi centimetri di legno che lo separavano dall’acqua, era meglio non contrariare eccessivamente il giovane pel di carota.

“Ehm, vengo da Konoha!”

“Daséno?”, strinse gli occhi il traghettatore, sospettoso. “E che è venuto a fare qui? Quale ricerca? È uno storico?”, si sforzò di conversare nella lingua standard. Evidentemente, teorizzò il biondo, voleva una risposta certa a quelle sue domande. “Un giornalista?”

“Sono un commissario!”

“Ah”, fece il giovane pensieroso. “Nisùn cuà xé sta copà!”

“Eh?”

“Ammazzato! Nessuno. È . Stato. Qui. Ammazzato!”

“Non sono sordo! E comunque, non sto indagando su di un omicidio!”, obiettò Naruto, massaggiandosi le orecchie. Accidenti, se prima aveva sonno, in seguito a quell’ululato si sentiva anche fin troppo sveglio! “Sto conducendo delle ricerche circa la veridicità di una certa ballata! Quella …”

Il viso pieno di piercing del giovane assunse lo stesso colore della cenere. “Sì, sì! Gh’ho capìo! Ho capito! Non entri nei dettagli! So ben a quale “ballata” si riferisce, savéu?”, lo interruppe e il biondo, avvertendo un certo scossone, intuì che avesse accelerato con la voga, pur di accorciare la distanza che li separava dall’Abbazia.

Silenzio.

“Gh’ha la novisa? La morosa?”

Naruto annuì. “Certo e oggi in teoria dovevamo convolare a nozze. Tuttavia, abbiamo incontrato alcuni impedimenti e non …”

“Sì, sì”, lo interruppe di nuovo il traghettatore, vogando con maggior lena. “Ed è per questo, che lei vuole andare all’Abbazia? Che spera di trovare?”

“Spero di trovare qualcuno che mi parli della Sp- …”

“Tasé là, matto!”, lo zittì il traghettatore, sputando immediatamente in mare a mo’ di scongiuro. “Non la nomini! Me vol far preçipitàr?”, gli chiese quegli severamente.

“Anche lei ha paura della … avete capito, no?”

“Tutti ne hanno, sior màmara!”, sentenziò il giovane, chiudendo definitivamente la conversazione. “Che domande da papagà!”

 

 

 

Trascorsero tre giorni dal primo incontro di Itachi e di colui che sarebbe stato la croce e la delizia della sua vita. Incontro, che notai aver in qualche modo impressionato mio fratello a giudicare dalla fronte aggrottata di chi stava rimuginando sopra un affare rognoso o dall’improvvisa quanto inspiegabile interruzione delle sue passeggiate mattutine. Alle mie incessanti richieste sulla fonte di tale singolare comportamento, Itachi replicava laconico che s’era imbattuto in un moscone piuttosto fastidioso.

Ci si poté ben immaginare la sua sorpresa quando lo rivide tre giorni dopo e sempre senza previo avviso.

Quel pomeriggio i signori Terumi, i miei cugini ed io eravamo stati invitati dai signori Haruno, anch’essi in villeggiatura a Kiri, a prendere un tea. In tutta onestà, all’epoca non rimasi molto entusiasta all’idea di dover trascorrere quasi quattro ore in compagnia della loro figlia, Sakura, che dall’alto dei miei quattordici anni trovavo assai noiosa e petulante. Ancora un anno e avrei cambiato repentinamente opinione.

In ogni modo, Itachi declinò la nostra offerta di venire con noi dagli Haruno, sostenendo di essere un poco affaticato dal caldo e che preferiva riposare qualche ora in camera, confortato dalla frescura del buio. Al contrario, i vapori bollenti provenienti dalla strada s’infiltrarono facilmente in casa, rendendogli impossibile il sonnellino ristoratore. Così, bagnatosi dietro il collo, rinfrescatosi il viso e cambiatosi gli abiti, mio fratello scese al pianterreno con un libro sottobraccio e s’immerse nella lettura, dimentico del trascorrere del tempo.

Nello stesso istante in cui la pendola suonava le sei e un quarto, un persistente battito alla porta distolse mio fratello dalla pagina del libro, persuadendolo a levare il capo e a cercare con lo sguardo un domestico, che andasse ad aprire la porta. Non trovandolo, Itachi sospirò e, appoggiato il libro, si recò lui stesso ad aprirla, spalancando sconcertato gli occhi quando il viso del suo soccorritore occupò prepotentemente la sua visuale. 

“Bondì, sior. Stavo cercando …”

“Non sono il domestico!”, gli ricordò Itachi in un sussurro, seguitando a fissare l’uomo come se si trovasse dinanzi ad una bestia rara.

“Sì, l’avevo capito”, liquidò l’altro la faccenda con un brusco svolazzo della mano. “Posso almeno entrare?”

Senza proferire alcun motto, Itachi gli cedette il passo, o meglio, lasciò la porta aperta e abbandonò l’uomo alla soglia, tacito invito ad entrare e a chiudere da sé la porta. Inoltre, la strategia di mio fratello contemplava una fuga strategica in camera sua, così da evitare imbarazzanti conversazioni; tuttavia, il nuovo arrivato lo raggiunse abbastanza velocemente da domandargli, bloccandolo:

“Sto cercando sior Terumi! Sapete se sia in casa o meno? In virtù di suo ospite, ovviamente”, aggiunse, in modo da sottolineare che aveva compreso e accettato lo status sociale di mio fratello, che, appollaiatosi dietro lo schienale di una poltrona, rispose atono:

“I signori Terumi sono ospiti dai signori Haruno.”

“Ah”, fece pensoso l’uomo. “E pressappoco non avete un’idea, verso a che ora potrebbero ritornare?”

“No”, dichiarò Itachi, trovando un grande interesse sui ricami dello schienale, invece che alla contemplazione del viso dell’ospite. “Tuttavia sono quasi le sei e mezza e certamente potrebbero rincasare da un momento all’altro.”

“Siete rimasto quindi solo in casa?”

Mio fratello strinse le labbra in una linea dura.

“Vi dispiace se lo attendo per una decina di minuti?”

Itachi non disse nulla.

“Potrei almanco sedermi?”

Mio fratello scrollò le spalle.

“Lo prendo come un sì”, sentenziò l’uomo, prendendo posto. “Ah, non siete obbligato a tenermi compagnia”, aggiunse poi, arricciando divertito la bocca, quando Itachi si sedette invece anch’egli, seppur a debita distanza da lui, ripigliando in mano il suo libro e sforzandosi a riprendere la lettura interrotta.

Nessuno dei due aprì bocca per i venti minuti che seguirono, eleggendo i ticchettii della pendola ad unico rumore presente nel salotto. L’unico scambio di battute che si concessero fu l’offerta di un bicchiere di limonata da parte di Itachi, che il nuovo arrivato rifiutò cortesemente, traendo maggior diletto a spiare di sottecchi la figura di mio fratello che, seduto ritto come un fuso, leggeva ormai per la trentesima volta la stessa riga. 

Ignoro cosa entrambi avessero potuto pensare in quegli attimi; ciononostante, posso figurarmi – considerati anche gli eventi che seguirono – il modo in cui a sua volta Itachi studiò di nascosto le fattezze dell’uomo e non con la sua consueta posa rigida e tesa, come quando lo zio Madara veniva a visitarlo, rimanendo solo con lui o in salotto o nel giardino d’inverno.

Nessun affanno o nervosismo sfigurava i lineamenti del suo viso.

Fastidio. Disagio. Sdegno. Imbarazzo, ecco cosa vi si sarebbe potuto scorgere.

Curiosità.

Interesse?

Sentimenti contrastanti, che lo spingevano a cambiare costantemente posizione sul divano, così da osservare con comodo e tuttavia discreto l’ospite, il quale di sicuro se ne accorse, ma lo lasciò fare.

E fedele alla parola data, quest’ultimo alle sette meno qualcosa si alzò dalla poltrona, prontamente imitato da Itachi. “Bene”, esordì l’ospite, ripigliando il fascicolo che aveva portato seco. “E’ evidente che sior Terumi non rincaserà troppo presto. Poco male, ripasserò un altro giorno”, annunciò più a se stesso che a mio fratello, che lo ascoltava più muto di un pesce. “Temo che dovrò prendere congedo da voi. Che sollievo, nevvero?” e se la frase voleva suonare sardonica, in realtà venne proferita con tale cortese tatto, che costrinse mio fratello ad abbassare per un istante lo sguardo, dirottandolo altrove onde celare un pizzico di vergogna per la sua sgarbatezza e un notevole rossore alle orecchie.

“Ah, stavo dimenticando! Quell’acqua di colonia non inganna nessuno: si sente, l’alcol!”, si sovvenne l’uomo all’ultimo, quando ormai aveva un piedi mezzo dentro e mezzo fuori di casa.

Piegando in basso gli angoli della bocca e assumendo un’espressione altamente irritata, Itachi gli sbatté senza tante cerimonie la porta in faccia. Resosi però conto, che all’appendiabiti ancora indugiavano sia il cappello che il bastone da passeggio dell’ospite, mio fratello li prese, riaprì la porta e li cedette di malagrazia a quell’altro che se la rideva alla grande, per poi chiuderlo nuovamente fuori casa. Dopodiché, appoggiandosi sfinito al legno, Itachi espirò tutta l’aria dai polmoni, portandosi il palmo della mano a qualche centimetro dal naso e, alitatovi contro, ne annusò l’odore. Lo scocciatore aveva ragione, appurò egli piccato, l’alcol degli spiriti sopraffaceva infido quello del profumo. Perché nessuno glielo aveva fatto notare prima? Per pietà?

Diavolo d’un satanasso intromettitore!, fumò mio fratello, afferrando violentemente il libro e dirigendosi a grandi falcati in camera sua e rimanendovi per il resto della serata.

“… uno scellerato, un tanghero, un iniquo, un ruffiano, un cialtrone, un sangue di giuda, un pendaglio da forca, un cane, un assassino, un birbo malnato, uno scimmiotto …”

Appoggiando il vassoio della cena sul tavolino, Haku fischiò impressionato. “Varé, che casi! Paron Itachi, non starete un poco esagerando? Mi sembrate paron Sasuke quando parla di quella putta, la …”

“… Sakura”, lo aiutai, rubando un pezzettino di focaccia. “E quel confetto rosa si merita ben di peggio!”, sentenziai solennemente.

“Sì, giusto lei”, convenne il domestico. “Per averlo conosciuto appena da qualche giorno, siete un po’ troppo duro ne’ suoi confronti! Manco sapete il suo nome!”

“Mi è bastata un’occhiata per capire con che razza di gaglioffo avessi a che fare!”, affermò Itachi con sufficienza e provocando ad Haku una grande, grossa e grassa risata:

“Varé, varé! Oh, poveretto mi! Che discorsi! Me maraveggio de vu, paron Itachi!”

“E parla cristiano, Haku! Non capisco niente, quando ti esprimi in turco!”

“Haku ha ragione, fratello! Chi disprezza compra! Non è che per caso …?”

“Vi siete forse messi d’accordo, voi due?”, sibilò bellicoso mio fratello, imporporandosi. “Un’altra parola, pidocchio, e scrivo agli Haruno per fissare un altro incontro con la loro tanto graziosa e adorabile figliola …”

“Perfido!”, borbottai tra i denti.

Ridacchiando compiaciuto, Itachi si allungò sulla chaise longue. “Che dovrei trovare di interessante in quel cafone? Non è affatto avvenente, né veste con gusto. Sono rimasto inoltre stupito che sapesse esprimersi a parole e non a versi …”

“Certo, certo …”, ci lanciammo Haku ed io delle occhiate complici.

“In ogni modo”, ridivenne Itachi improvvisamente serio “anche se dovessi essermi in qualche modo infatuato di codesto pezzente, ciò non cambierebbe la realtà, ovvero che sono già fidanzato con lo zio Madara …”, mormorò e la sua affermazione ottenne l’effetto di distruggere l’atmosfera di intima e giocosa confidenza, che s’era previamente creata. “E dopo quello che è successo” e lì i suoi occhi neri divennero preoccupantemente vuoti e opachi “non ho intenzione di compromettermi con nessuno!”

Nessuno di noi due ebbe cuore di replicare, limitandoci a lasciare tranquillo Itachi a consumare la sua cena.

Alas, quanto mio fratello si sbagliava! La sorte aveva appena iniziato a giocare con loro!

Il giorno seguente, infatti, mentre uscivamo dalla chiesa dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara, il signor Terumi venne preso in disparte da colui che intuii essere l’oggetto delle invettive di mio fratello. Incuriosito, lo studiai per bene, concordando con Itachi circa la poca avvenenza dell’uomo, il quale tuttavia non aveva la faccia di un delinquente, solo di una persona piuttosto pragmatica e spiccia. E tanto ero immerso nella mia contemplazione, che sussultai all’arrivo di mio fratello, specie quando questi mi afferrò per la mano, tentando di trascinarmi via dal campo visivo dell’uomo.

Sennonché, il signor Terumi ci pizzicò, voltandosi verso di noi e riempiendoci di cortesi domande, prime fra tutte riguardo la salute di mio fratello, che la sera precedente aveva disertato la cena in compagnia. Di conseguenza, grazie a quel repentino cambio di interlocutore, il famoso sconosciuto si accorse della nostra presenza e nello specifico di quella di Itachi; trattenendo a forza un ghigno, egli allora allungò un poco il collo dalla spalla del signor Terumi per meglio scrutarci, inquisendo falsamente offeso:

“Ché, sior Terumi! Non mi presentate i due signorini?”

Ridacchiando un poco imbarazzato per la sua mancanza di buone maniere, il nostro anfitrione esaudì prontamente la sua richiesta. “Oh cospettaccio, avete ragione, perdonate la mia dimenticanza!”, si scusò bonariamente, schiarendosi la voce. “Sior Hoshigaki, permettetemi di presentarvi i fratelli Uchiha, figli di mia cugina Mikoto e miei ospiti per tutta l’estate.”

“Uchiha Sasuke”, allungai la mano tutto baldanzoso e con arie di grande importanza. “E’ un piacere conoscervi, signor Hoshigaki!”

“Il piacere è tutto mio, signorino”, replicò l’altro, stringendomela a mo’ di saluto. Una presa forte, decisa, eppure non brutale.

Reclutante, mio fratello gli concesse a malapena tre dita da stringere. “Uchiha Itachi”, disse tutto d’un fiato, tanto che neppure mi resi conto del movimento dalle sue labbra.

“Alla fine ci conosciamo … ufficialmente”, commentò l’uomo con tono burlone, catturando quasi la mano di mio fratello, che s’affrettò a ritirarla.

“Vi siete già incontrati?”, s’informò il nostro anfitrione, guardando incuriosito i due.

“Di sfuggita”, dichiarò conciso mio fratello, lo sguardo ben piantato contro quello del signor Hoshigaki, sfidandolo a rivelare oltre.

Guanto raccolto. “Ho intravisto di tanto in tanto il signorino Uchiha in riva al mare e ieri pomeriggio, quando sono venuto a cercarvi a casa vostra, è stato così gentile da tenermi compagnia, intrattenendomi con la conversazione più brillante ch’abbia mai udito in vita mia!”

Dovetti trattenermi dal ridere alla vista delle orecchie di Itachi divenire scarlatte dallo sdegno e dal modo in cui la sua fronte si aggrottava in una maschera assassina.

“Purtroppo il signor Hoshigaki non si è trattenuto abbastanza, da poter approfondire la nostra conoscenza”, si difese mio fratello dalla velata frecciatina dell’altro. “Spero, di avere più occasioni in futuro”, ergo alle calende greche, il giorno del mai.

“Oh Itachi, le avrete certamente!”, lo rassicurò il signor Terumi. “Il signor Hoshigaki è il miglior collaboratore nella mia ditta ed ora che è ritornato dal suo viaggio a Kumo, sono certo che non mancherete di stringere amicizia! Adesso, però, basta cicalare e raggiungiamo le nostre dame! Chi le sente, altrimenti?”

E nel frattempo che il nostro anfitrione ci precedeva, sussurrai maligno a mio fratello: “Il vecchio t’ha proprio infinocchiato, na? Adesso ti tocca sul serio sorbirtelo”, dileggio prontamente punito da Itachi che, serrandomi inclemente la mano che ancora mi stingeva, mi sibilò minaccioso:

“Taci, oca!”, per poi sciogliere la presa e spedirmi da Rin, rimanendo solo col signor Hoshigaki, fatto davvero notevole per lui, visto che senza Haku mio fratello non si muoveva da nessuna parte, neppure in casa.

“Che commuovente dimostrazione di affetto fraterno!”

Voltandosi di scatto verso l’uomo, Itachi raddrizzò la schiena, sperando di colmare la notevole differenza di altezza. “Come tratto mio fratello non è affare che vi riguardi! Inoltre, se osate spifferare a chicchessia di quanto avvenuto in spiaggia e del … dell’alcol” e qui Itachi abbassò la voce “giuro che vi affogo!”, lo avvertì con la stessa audacia di chi aveva sia la coda di paglia che le spalle al muro, brutta combinazione sì sì.

Incrociando le braccia al petto e cambiando peso da una gamba all’altra, il signor Hoshigaki asserì seriamente, ogni traccia di ilarità perduta: “Non è mio uso fare la spia, putèlo! Nondimeno, questo non significa che cesserò di tenervi sottocchio …”

Il respiro di mio fratello divenne irregolare dalla collera. “Papagà maledetto!”, gli sputò quasi in faccia.

“Ah, finalmente avete imparato qualche vocabolo della nostra lingua!”

“Sì”, convenne velenoso Itachi “a sufficienza per insultarvi!”

L’uomo scosse il capo. “Almeno vi sfogate”, puntualizzò egli grave. “E mi dimostrate di essere vivo  e non un automa …”

“Potremmo interrompere qui la nostra conversazione? Essa non è di mio gusto …”

“Per il momento, signorino Uchiha, per il momento”, gli accordò clemente il signor Hoshigaki, cedendogli il passo.

Senza rialzare lo sguardo, Itachi accettò il tacito invito, le gote in fiamme e il petto in affanno da un bizzarro languore mai prima d’allora provato, un turbamento che lo confondeva e che lo spintonava in direzioni opposte, dal desiderio matto di decollare quel furbastro dalla lingua lunga, alla voglia di indugiare ancora qualche istante in sua compagnia, anche solo per seguitare in quell’infruttuosa tenzone.

E come tutti coloro che si trovano ad affrontare aspetti di se stessi che non conoscono, scivolando nel dubbio e nella paura, Itachi sperò di non rincontrare più il signor Hoshigaki, ripromettendosi poi di evitarlo il più possibile, come la peste.

La faccenda dello zio lo tormentava a sufficienza, non aveva bisogno di sovraccaricare il suo spirito di altre spine.

 

 

Se, dopo aver attraccato alla banchina di marmo, l’essersi recato di persona a chiamare una delle suore dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara fosse corrisposto ad un atto di disinteressata generosità da parte del traghettatore, Naruto non seppe affermarlo con certezza. Fatto stava, che appena le mani del secondo rematore erano venute a contatto con le paline, subito il giovane dai capelli biondo-rossicci era balzato giù dall’imbarcazione, raggiungendo silenzioso la porta del convento e lì sparendovi per una buona mezzora, istillando nel giovane commissario la curiosità di conoscere che cosa quel teppista avesse detto su di lui, ricordandosi all’ultimo che lui non capiva un emerito niente del dialetto di Kiri.

“Così lei sarebbe il commissario Uzumaki Naruto?”, lo riportò alla realtà un’imperiosa voce femminile, appartenente alla composta e ieratica figura della suora dinanzi a lui. “Yahiko mi ha riferito, che lei sta conducendo una ricerca su di un soggetto piuttosto malvisto sia a Kiri che a Konoha.”

Uscendo non senza qualche difficoltà dal traghetto, Naruto colmò la distanza tra di loro, confermando quanto detto dalla donna.  “Esatto, reverenda madre”, disse, ringraziando il cielo che finalmente aveva trovato qualcuno che non si esprimeva in burundi. “Il mio scopo ultimo è di apprendere quanto più possibile su questo soggetto, acciocché io possa trovare il modo per neutralizzarlo una volta per tutte, impedendogli di mietere ulteriori vittime.”

“Riassumendo, ha preso di mira lei e la sua fidanzata?”

Naruto assentì col capo. “Così è, reverenda madre. Posso domandarle come …?”

Un deciso cenno della mano lo zittì. “Non qui. Non ora. Ritiriamoci in un posto dove lei per volere del castigo divino non può più entrare …”, asserì, facendogli strada.

Presi due bei respiri profondi, il biondo si apprestò a seguirla, sennonché all’ultimo si ricordò dell’onorario al traghettatore, il quale già aveva ripreso il suo posto di guida. “Ecco, prenda”, gli allungò una banconota crocchiante. “E non si preoccupi per il resto!”

Gli occhi blu di Yahiko si soffermarono a lungo sui venti ryo, per poi spostarsi sul volto stanco di Naruto.

“Nah, no li voggio!”, rifiutò infine il giovane, impugnando il remo e mulinandolo per girare il traghetto in direzione del porto antico. “Se li tenga!”, dichiarò grave. “Le saranno utili!”

“Per cosa?”, chiese scettico Naruto, rinfilando in tasca i soldi e domandandosi il motivo di quella pecuniaria rinuncia.

Forse era il chiaroscuro, ma il ghigno di Yahiko assunse una connotazione sinistra.

“Pel suo funerale, sior!”

 

 

 

 

 

 

 

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To be continued …

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[1] Guaritrice di campagna e levatrice

[2] strofa dal “Der Erlkönig” di J.W. Goethe (1782)

[3] Canocie = canocchie, cicale di mare. A Venezia c’è un detto: “A Santa Caterina megio 'na canocia de 'na galina” (A Santa Caterina (25/11) meglio una canocchia che una gallina), giacché in quel periodo le canocchie sono belle grasse, con il succulento corallo da gustare!

[3b] Moeche = in primavera i granchi sono in amore e hanno la corazza più morbida. Molto buoni fritti. 

  
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