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geht’s weiter!
Lo avevo
accennato alla mia consulente privata, lo avevo minacciato nei tag, lo avevo
ribadito nell’intro al prologo, me l’ero ripromesso come regalo tardivo di
compleanno ed eccolo qua finalmente! Mpreg, ahoy! Oh beh, non esattamente in
questo capitolo, ma se leggete tra le righe, troverete certamente le basi per
la mia prima Mpreg! Muhahhahaha!!! Sono così emozionata! ^////^ Senza andare
troppo nei dettagli “anatomici” ho cercato di dare una spiegazione “logica” a
quest’evento, pur prendendomi tuttavia numerose licenze poetiche.
Questo
capitolo è stato davvero tosto da scrivere: così tanti eventi da compattare,
epoche differenti da ben descrivere, uff, uff … Di conseguenza, purtroppo per voi, è venuto
piuttosto lungo! XD Confesso che volevo essere più concisa, ma poi mi sono
lasciata andare: in fin dei conti, siamo nel cuore della storia! :P E dobbiamo poi onorare il tag “sentimentale” di
un poco, no? Lasciamoci alle spalle per un breve istante l’horror!
E a
proposito di epoche diverse! Leggere gli
avvisi, s’il-vous plaît!
Punto
primo: L’ambientazione
è assolutamente di fantasia, però, come detto nel primo capitolo, mi rifaccio
al “nostro” Ottocento, con tutti i suoi pregi e difetti. Questo significa che
se sentirete delle frasi un po’ scioviniste, sessiste, classiste e quant’altro,
non è l’autrice che lo pensa, bensì i personaggi calati in quel contesto. Lo stesso vale per la medicina dell’epoca: in
questo capitolo si parlerà molto di isteria
e non per indicare uno che piange a dirotto, ma per giustificare sbalzi di
umore, attacchi nevrotici, pianti improvvisi, convulsioni quasi da epilessia,
insonnia, etc. L’isteria – soprattutto femminile – serviva ai signori uomini
come spiegazione all’enorme carico di stress, che le donne (specie quelle
sposate) non avevano modo di sfogare, se non facendosi passare appunto per
“isteriche”. I medici sostenevano che fosse dovuta agli umori maligni derivati
dal malfunzionamento dell’utero e che quindi l’unica soluzione all’isteria
fosse l’orgasmo. Yes, avete capito bene, l’orgasmo! Adesso comprendete, quando,
notando una donna particolarmente nervosa, si scherza dicendo: “Ah, ieri notte
il marito non l’ha soddisfatta?” E’ il retaggio di queste teorie mediche
ottocentesche!
Punto
secondo. In
maniera assolutamente discreta – anche perché, lo veniamo a sapere da una terza
persona, che comunque ha un certo pudore nel scriverlo – ci sono degli accenni
a relazioni incestuose. Ora! Prima che mi chiudiate la pagina, sappiate che NON
è tra Itachi e Sasuke. Fiuh! Preso un bel respiro? Okiz, proseguiamo. I
matrimoni tra parenti – anche molto stretti – non erano una novità all’epoca:
più che per il cognome, servivano a mantenere quanto più possibile unito e
intero il capitale di famiglia o le terre, in caso i soggetti in questione
fossero anche stati dei proprietari terrieri. Matrimoni tra cugini – perfino
primi – o addirittura tra zii e nipoti erano cose che succedevano e il secondo
caso aveva luogo se la “sposa” non riusciva a trovare marito entro la “giusta
età”. Ergo, si ritrovava spesso a fare da badante ad un vecchio bavoso.
Inoltre, all’epoca era molto raro il concetto moderno di famiglia mononucleare;
al contrario, quella patriarcale era più diffusa. Magari non si aveva l’intero
clan in casa, ma minimo i genitori del marito sì. Di conseguenza, spesso e
volentieri si scivolava in relazioni ambigue a discapito, purtroppo, delle
donne e dei bambini.
Punto
terzo. I
bambini. Se avete letto una qualche opera di Charles Dickens, sapete cosa
aspettarvi in quanto a metodi educativi. Il metodo Montessori ancora non
esisteva e tutti convenivano dicendo, che le punizioni corporali – sia a scuola
che a casa - fossero assolutamente necessarie per lo sviluppo del bambino.
Sculaccioni sul sedere? Troppa grazia Sant’Antonio! Cintura, canna di bambù,
bastone da passeggio, inginocchiarsi sui sassolini ... brrrrr …
Punto
quarto. Per
sottolineare il sermo diverso delle varie classe sociali e soprattutto la
diversa cittadinanza (Konoha vs. Kiri) ho messo delle parole in dialetto veneziano.
Spero di non offendere nessuno, ma mi sono divertita a scriverle! Anche perché
la storia si basa su di una leggenda veneziana, quindi mi pareva giusto darle
un minimo di credito, no? XD Siamo in Giappone solo per sentito dire! XD Vabbé,
non che nei manga giapponesi che trattano di storia europea, loro siano più
accurati! Vendetta, vendetta, muhahhaha ;-)
Voilà i
punti salienti, spero ardentemente che li abbiate letti, non vorrei fare copia
in colla in caso dovessi trovare una critica, che mi chiede conto di quanto
appena spiegato sopra!
Un
sentito ringraziamento ai miei lettori e recensori, in particolare alle
infaticabili Jooles e Sagitta72! Grazie anche a coloro che
hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e seguite!
Buona
lettura!
H.
P.S
Adesso che ho capito come si fa, ho caricato delle immagini su ciascun
capitolo! Ganzo, eh?
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Fuggire
dall’ospedale non era stato un problema per Naruto: grazie all’esperienza
acquisita nel suo lavoro, aveva ben imparato ad intrufolarsi e a sgattaiolare
via dai posti più disparati e in situazioni ben più assurde. Del resto, gli era
bastato leggere una sola pagina del piccolo diario, che aveva portato seco, per
convincersi a partire alla volta di Kiri anche senza averlo terminato. Per una
volta la fortuna l’aveva assistito e l’evasione del giovane commissario era
stata un successo, così come l’aver trovato la coincidenza perfetta per il
treno.
Fu
dunque lì, nella solitudine di uno scompartimento vuoto, che Naruto proseguì
nella lettura.
All’inizio, Itachi ed io eravamo
inseparabili.
Lo amavo e al contempo lo
invidiavo profondamente.
Mio fratello sin dalla nascita
non era stato benedetto da una salute di ferro: al contrario, era più il tempo
che trascorreva nella sua stanza sterilizzata dai vapori di acqua e aceto, che
altrove. Il medico sosteneva che fosse debole di polmoni ed in effetti ancora
mi sembra di poter annusare nell’aria il profumo dei continui decotti di salvia
ed eucalipto finalizzati a placare la tosse e il mal di gola, che spesso lo
affliggevano. Lui stesso emanava siffatto odore.
Nondimeno, non era questo il
cruccio principale della mia famiglia. Certo, un figlio malaticcio non
corrispondeva esattamente ad una goduria, però non era nulla che non si potesse
risolvere, magari mandandolo o in montagna o al mare a respirare aria buona e
pulita.
No.
L’essere tossicoloso era solo la
ciliegina sulla torta: mio fratello – e noi con lui – nascondevamo un segreto
ben peggiore.
Una deformazione fisica. Un
motivo di vergogna e timore per la nostra famiglia e la condanna di Itachi a
rimanere segregato in casa, anche se avesse sprizzato salute da ogni poro.
All’epoca non comprendevo niente
di tutto ciò: reputazione, deformazione, malattie … non erano altro che vuoti
paroloni alle mie orecchie di bambino. Quel che ai miei occhi appariva invece
importante, era che grazie all’infermità di Itachi io avevo guadagnato un
compagno di giochi esclusivamente per me. Per ordine di nostro padre, mio
fratello non doveva assolutamente varcare i confini di villa Nakano né entrare
in eccessiva confidenza con gli ospiti che ogni tanto ci onoravano di una
visita. Nella sua mitezza, Itachi non aveva mai messo in discussione gli ordini
paterni e aveva obbedito ciecamente ad ogni sua istruzione; forse per questo
motivo i miei genitori, sentendosi talvolta in colpa nei suoi confronti,
preferivano compensare quell’isolamento forzato tramite balocchi, dolciumi ed esaudendo
ogni sghiribizzo che fosse saltato in mente a mio fratello, i quali non erano
poi molti. Ciononostante, io, il figlio sano, me ne rammaricavo amaramente:
nella mia ingenuità infantile, non comprendevo che io possedevo doni di maggior
valore – salute e libertà – mentre Itachi doveva accontentarsi di miseri
surrogati. Per questa cagione, incominciai ad invidiare il pianoforte a mezza
coda nella sua camera da letto, il gatto rosso,
i trenini, l’intero reggimento di soldatini di piombo, le navi e i battelli,
gli aquiloni … Oh, non che io non ne avessi mai avuti! Semplicemente, non
trovavo giusto che Itachi dovesse riceverne più di me. E mi infastidiva quando
mio fratello, perspicace come d’abitudine, me li cedesse più che volentieri:
allora la prendevo sul personale, adducendo che non desideravo la sua carità e
che io, un Uchiha, non avrei mendicato niente da nessuno. Di conseguenza, il
mio più grande diletto consisteva nell’intrufolarmi nella sua stanza, rubargli
i giocattoli, distruggerli a volte. Così come gli strappavo le pagine dei suoi
libri preferiti oppure li bruciavo
direttamente nel caminetto. Poco mi importava se dopo nostro padre mi
trascinava per le orecchie dalla mia camera al suo studio, calandomi i
calzoncini e scudisciandomi con la ferula: la vista degli occhi neri di Itachi
inumidirsi dal dispiacere attutiva il bruciore al fondoschiena. Eppure, dopo
neanche due giorni di punizione, nostra madre mi apriva la porta dello
sgabuzzino dove mi rinchiudevano, tacito invito a porgere le mie scuse a mio
fratello. E lo facevo. Piangendo lacrime sincere lo abbracciavo, promettendogli
di non macchiarmi mai più del peccato di invidia e auspicandomi il suo perdono.
Lui, ricambiando il mio abbraccio, sosteneva che già mi aveva perdonato e che
non mi serbava rancore. Una settimana dopo, eravamo daccapo. Però lo amavo, sul
serio.
Tutto cambiò quando Itachi compì
tredici anni.
Vorrei affermare a gran voce, che
fu quell’episodio ad aver trasformato Itachi nella famigerata
Sposa Mancata. Alas, non è così. Innumerevoli
fattori lo hanno portato all’orlo del precipizio, punzecchiandolo,
spintonandolo, costringendolo ad arretrare finché altra scelta non gli è
rimasta che gettarsi da solo nell’abisso.
Ma tornando a noi.
Era il 31 marzo 1850 e come ad
ogni Pasqua, la mia famiglia aveva invitato amici e parenti lontani (coloro che
non vivevano con noi) per il pranzo. Per noi bambini era la manna, giacché gli
adulti erano talmente impegnati a cicalare dei fatti loro, che manco si
premuravano di rimbrottarci o di inquisire sul nostro operato. Quel pomeriggio
di primavera non si sottrasse di certo ai suoi predecessori: ben nascosti
nell’angolo più remoto del nostro giardino, Itachi ed io, assieme ai nostri
cugini Shisui e Obito, giocavamo a mosca cieca, mentre gli adulti si
crogiolavano al sole, sorbendosi il caffè. Quand’ecco, che Sayuri e Noriko, le
nostre cugine prime e più grandi noi, ci raggiungessero, ridacchiando
sonoramente e lanciandoci occhiate birbanti.
“Che volete, oche?”, le apostrofò
Obito, raffinato come suo solito. O meglio, nel pieno della fase di crescita in
cui le femmine erano il nemico, dopo l’acqua, ovviamente.
“Niente da te, sgorbio!”, gli
rispose Noriko per le rime, nel frattempo che l’altra cugina nascondeva un
perfido risolino dietro il ventaglio. “Siamo qui per Itachi!”, disse.
Levatosi la benda dagli occhi –
era toccato a lui fare la mosca cieca – mio fratello domandò loro incuriosito:
“Per me? E che desiderate riferirmi?”
“Solo questo: complimenti,
cugino!”, gli risposero beffarde le due ragazze, schioccandogli un bacio sulle
guance e sgonnellandosene via in un gran fruscio di stoffa inamidata,
lasciandoci tutti assai interdetti.
L’arcano venne svelato il giorno
dopo, il 1 aprile e Lunedì dell’Angelo, a colazione.
Ci trovavamo tutti riuniti nel
gazebo, poiché il caldo rendeva la sala da pranzo pressoché asfissiante. Tanto
eravamo presi dalla prospettiva di alzarci da tavola e di poter giocare in
giardino, da non accorgerci degli strani sguardi che gli adulti ci lanciavano,
nello specifico ad Itachi, né tantomeno
di quel loro affrettato e poco credibile congedo, finché, tra una scusa e
l’altra, a tavola rimasero seduti solamente mio fratello e le donne di casa.
“Nipote carissimo”, gli annunciò
la nonna “ieri pomeriggio, tuo zio Madara ha chiesto a tuo padre il permesso per
poterti parlare.”
A onor del vero, Uchiha Madara
era il cugino di nostro padre ma noi, per semplificarci la vita, lo chiamavamo
zio.
“Con me?”, inquisì interdetto mio
fratello, appoggiando la chicchera di latte fresco sul tavolo.
“Sì, tesoro”, convenne nostra
madre “con te.”
A volte l’intelligenza non paga,
fa dannare solamente: Itachi aveva purtroppo subito afferrato il vero
significato dietro a quel verbo in apparenza innocuo.
“Ma … ma è vec- sono troppo
giovane per lui!”, protestò debolmente mio fratello, lanciando delle occhiate
ansiose fuori dal gazebo, sperando in una pronta fuga. “Inoltre, lui è già
stato sposato … Ha pure avuto dei figli e …”
“Itachi, Itachi”, lo riprese
giocosamente una nostra zia “non dovete mica sposarlo subito! Quando avrete
ventuno anni!”
“Nel frattempo, sarà vostra cura
conoscervi meglio!”, rincarò la dose un’altra nostra parente. “Per questo,
vostro padre ha acconsentito a lasciarvi parlare!”
“Sì, è vero che è stato sposato.
Nondimeno, ora è vedovo e non ha bisogno di una moglie che gli produca eredi,
bensì di qualcuno che lo assista e gli faccia compagnia.”
“Ciononostante”, boccheggiò mio
fratello, in cerca di una scappatoia “siamo … intendo dire, nel nostro paese il
matrimonio tra persone dello stesso … sesso … non è contemplato! Quindi …”
“Hai perfettamente ragione,
tesoro”, affermò nostra madre “ed è appunto per questo che le nozze saranno,
come dire, informali.”
“Non voglio essere la sua
concubina!”
All’udire il disperato sfogo di
mio fratello, le donne risero assai divertite.
“Oh, povero tesoro! Quanto è
innocente!”
“No, non sarai la sua
“concubina”! Esiste una clausola che permette matrimoni dello stesso sesso,
sebbene essi siano di seconda categoria rispetto a quelli normali e di sicuro
meno vincolanti.”
“Pensate a tutti i benefici che
otterrete da quest’unione: vostro zio ormai non ha più la pressione di generare
un erede ed è poi molto ricco. Vivrete come un principe con lui, non vi farà
mancare niente!”
“Ne abbiamo discusso giusto ieri
e anche lui sembrava molto interessato a voi, senza contare che nutre nei
vostri confronti un’altissima stima!”
“Concedetegli in questi anni di
approfondire la vostra conoscenza! Magari, col tempo potreste affezionarvi a
lui!”
“Chiedo alle signore il permesso
di alzarmi: temo che la colazione mi sia andata in veleno”, mormorò flebilmente
Itachi, mettendosi in piedi e abbandonando quelle ridenti pettegole, che
avevano interpretato il suo malessere come naturale ritrosia di futura sposa.
Fedele agli annunci delle comari,
lo zio Madara venne a visitare la settimana seguente villa Nakano e la palese
contrarietà di Itachi a simili incontri non tardò a mostrarsi, seppur in
maniera discreta e con l’ausilio di infiniti stratagemmi, primo fra tutti
quello di non rimanere mai da solo in presenza dello zio. Certo, neanche due
comuni fidanzati lo erano mai – c’era sempre un parente nascosto da qualche
parte, che controllava che i due non combinassero nulla di disdicevole –
nondimeno, lo zio stesso era riuscito a persuadere nostro padre ad avere Itachi
tutto per sé, in barba alla tradizione. Di conseguenza, allo zio non piacque
come mio fratello si prodigava a trattenere le persone accanto, impedendogli
così di discorrere liberamente col nipote e la sua controffensiva non tardò a
giungere: tramite cortesi richieste, qualche lagna a nostro padre e piccoli
atti di corruzione (specie a noi bambini), lo zio Madara fu capace di creare
pian piano terra bruciata intorno ad Itachi, isolandolo. A difesa di mio
fratello erano rimasti solamente nostro cugino Shisui – che zio Madara non
tardò a persuadere sua madre a spedirlo in collegio – e Haku, il domestico
personale di Itachi e che lo zio non riusciva a comprare in alcun modo. Infatti,
sebbene il ragazzo apparisse molto mite e servizievole, come tutti gli abitanti
di Kiri e di dintorni, Haku ne aveva ereditato lo spirito altamente polemico e volitivo,
tipico di chi non si fa comandare neanche quando deve servire. Tranne che per
gli ordini di Itachi, lui faceva orecchie da mercante con gli altri della
famiglia, anche a costo di subire tremende punizioni da parte di nostro padre. Lo zio Madara non lo poteva soffrire e non
mancò più volte di farlo allontanare da villa Nakano.
Trascorse un anno, durante il
quale incominciò la metamorfosi di Itachi.
Prima di allora, mio fratello
aveva posseduto un carattere sostanzialmente tranquillo, prono al compromesso e
gentile. Col passare del tempo, esso veniva gradualmente sostituito da uno più
inquieto, introverso e lunatico. Osservavo incredulo e al contempo turbato come
il suo sguardo, solitamente così sereno, avesse assunto un’insana ansietà,
spostando in continuazione da un posto all’altro quelle dilatate iridi nero
pece con la stessa agitazione di un animale braccato. Si chiuse in un inspiegabile
mutismo e quando veniva costretto a parlare, balbettava. Scattava ad ogni
parola, s’offendeva per un niente, implorando subito perdono con una vocina
straziante e infantile. Non volle più giocare con me e smise di suonare il
pianoforte, preferendo invece chiudersi in camera sua a scrivere infinite
lettere a Shisui. Quando non scriveva, rompeva tutto ciò che poteva reperire:
vasellame, specchi, giocattoli, libri, quadri, etc., nulla si salvava alla sua
nevrotica furia. In famiglia avevamo preso a chiamarlo “matto”, “isterico”,
“posseduto”, senza tuttavia domandarci il perché di quell’atteggiamento.
Sì, non ci si doveva porre
domande pericolose. Il “perché …?” non doveva sussistere. Forse, noi ignoravamo
genuinamente quel che stava sopportando mio fratello. Forse, lo ignorammo
convenientemente.
Infatti, non ci chiedemmo mai
perché ogniqualvolta che lo zio Madara entrava in una stanza, Itachi, pallido
come un morto, si affrettasse ad abbandonare la sua occupazione, adducendo una
scusa per ritirarsi in camera sua? E che quando lo zio lo raggiungeva per
“conferire” con lui, mio fratello scendesse a cena col volto di chi ha subito
l’asportazione della sua anima?
Non ci chiedemmo mai perché
Itachi avesse smesso di presentarsi ai pasti, rispedendo intatto il vassoio che
Haku gli portava in camera sua?
Non ci chiedemmo mai perché le
bottiglie di spiriti si stessero lentamente svuotando, accusando invece la
servitù?
Non ci chiedemmo mai delle profonde
e scure occhiaie sotto gli occhi di mio fratello? Non mi chiesi mai perché una
notte, in cui nostro zio si fermò a casa nostra per via di un brutto
acquazzone, vidi Itachi irrompere in camera mia, chiudendo a chiave la porta e
supplicandomi in ginocchio di non dire a nessuno che mi trovavo lì. “Ti darò
tutti i miei giocattoli, Sasuke!”, mi ripeteva in un mantra, guardandomi
speranzoso, gli occhi neri arrossati. “Ti darò tutto quello che vorrai! Solo,
non dire a lui che sono qui! Non rivelarlo a Maman e a Papa! Ti scongiuro,
Sasuke! Abbi pietà di me! Aiutami!”, prese a singhiozzare istericamente e altro
non potei fare che abbracciarlo di riflesso e di coricarlo accanto a me, sotto
le coperte, similmente a quelle volte in cui mi intrufolavo nel suo letto,
giacché spaventato dalla prospettiva di essere rapito dal malvagio Re degli
Elfi.
Non ci chiedemmo mai perché
Itachi, incurante dei pettegolezzi, in seguito a quell’episodio avesse ordinato
espressamente a Haku di dormire con lui la notte?
Non mi chiesi mai che sorta di
liquido contenesse quella boccetta che Itachi aveva comandato a Haku di
comprare da una curandera [1]
e che il giovane domestico gli aveva
ceduto in gran segreto, in cucina?
E, infine, non ci chiedemmo mai
il perché di ciò che avvenne il giorno del sedicesimo compleanno di Itachi? Del
motivo per il quale nostra madre dovette
quasi tenerlo fermo, quando disse a nostro zio: “E sia, Madara caro. Vi
permetto di baciare mio figlio. Qui”, dichiarò scherzosa, indicando la fronte
di mio fratello, che assunse un’espressione da suppliziato, svenendo a momenti.
O trovammo mai una spiegazione al
gesto da lui compiuto la notte stessa? Ancora mi rimbomba nelle orecchie l’urlo
terrorizzato di Haku: “Oh, Sant’Erasmo de marinèri agiùto! Paron Itachi,
fermève! No fé! No fé!”
Grido d’allarme che subito
svegliò nostro cugino Shisui – che dormiva nella stanza in fondo al corridoio.
“Parla cristiano, Haku! E dimmi
che succede!”, lo sentii berciare di rimando, mentre l’eco della sua corsa
forsennata si riverberava per il piano. Tanto era stato lo spavento del giovane
domestico, che s’era espresso nel suo dialetto.
“Paron Shisui! El se vol mazzare!
Se vol mazzare!”
Presto, all’esclamazione di
orrore di Haku si aggiunse anche quella di nostro cugino, seguita da strilli
non dissimili a quelli di un agnello sgozzato.
“Lasciatemi! Lasciatemi stare!”
“Haku, tienilo fermo!”
“Mollatemi, ho detto! Faccio
quello che voglio!”
“Paron Itachi, metta zò quel
cortelo!”
“Lasciatemi! Lasciatemi!”
“Invece di parlare aramaico,
dammi la medicina! Ora!”
“Non ne avete il diritto!”
“Sbrigati, pantegana di Kiri!”
“Sior màmara …”
“Ohé, ti ho sentito!”
“Oh no, paron Sasuke! Via, via!
Drento in cànbera! Ehm, volevo dire: ritornate in camera vostra!”
“Non ci voglio tornare!”
“E voi ci dovete invece andare!”
“Voglio vedere mio fratello!”
“Ma sparisci, nano! Non renderci
le cose difficili!”
“Lo dirò a Maman, Shisui, che
m’hai insultato!”
“Bravo! Vai a far la spia e
lasciaci soli!”
Quando lo scompiglio generale
provocato da Itachi riuscì a svegliare tutti gli abitanti di villa Nakano e
quando questi, ripresisi dallo choc iniziale, raggiunsero la fonte di tal
baccano, trovarono mio fratello sfinito e ubriaco delle sue stesse lacrime in
braccio ad uno Shisui pieno di graffi sul volto, sulle braccia e sulle mani e
Haku che mi stava trascinando di peso in camera via, impedendomi di assistere a
quel triste spettacolo.
Nessuno commentò. Nessuno fece
niente.
«Ich liebe dich, mich reizt deine schöne
Gestalt;
Und bist du nicht willig, so brauch ich
Gewalt.» [2]
(Ti amo, sono incantato dalla
tua bella figura / e se non sarai consenziente, allora userò la forza, ndr.)
Quando
Naruto giunse al porto antico di Kiri, quello sul centro storico, le prime luci
dell’alba stavano accarezzando languidamente la vellutata superficie del mare
blu cobalto, tingendolo di un rosa a tratti vermiglio e sostituendo la
sonnolenta luce grigio-azzurra delle ore appena precedenti al sorgere del sole.
Era grato di essere uscito dal treno e di respirare a pieni polmoni l’aria
frizzante proveniente dal mare placido: dopo ciò che aveva letto, si sentiva
l’animo appesantito dai mefitici vapori dettati dal disgusto e dalla rabbia
generata dall’impotenza. Non doveva stupirsi, erano cose anche fin troppo
frequenti nell’Ottocento, eppure la sua mente non voleva accettare quel che i
due fratelli erano stati costretti a patire, uno come vittima e uno come
involontario testimone.
Quel
diario non era il classico fascicolo che il giovane commissario leggeva,
trovandoci spesso storie tristemente simili. Quelle, per quanto lamentevoli,
mostravano situazioni che si potevano migliorare. La storia raccontata dal
fratello della Sposa, invece, non
suggeriva alcuna soluzione. Fatto. Finito. Quel che era stato era stato.
Sospirando
pesantemente, si passò una mano tremante tra i capelli biondi e si sedette su
di una panchina, in attesa che il traghetto raggiungesse l’imbarcadero e che in
seguito lo portasse all’Abbazia di
Sant’Erasmo e Santa Barbara, la cui silhouette si stagliava in controluce
sull’isolotto poco distante dal porto.
Ingollando
una grossa sorsata di caffè, Naruto riprese là dove si era interrotto.
Una prima significativa svolta
avvenne a partire dal maggio del 1855 e incominciò dalla seguente conversazione
tra nostra madre, la nonna e mio fratello.
“Tesoro, se non t’incomoda,
potrei porti una domanda?”
Itachi, ormai diciottenne, sgranò
dapprima gli occhi neri, come se non avesse udito la voce di nostra madre, per
poi annuire stancamente, finendo con aria avvilita la sua cioccolata calda.
“Ebbene, Itachi, è successo
qualcosa tra te e lo zio Madara?”
La tazza di cioccolata incontrò
troppo bruscamente il suo piattino, macchiandolo del dolce liquido scuro.
“Perché mi domandate questo,
madre? S’è forse lamentato di me? Vuole rompere il fidanzamento?”, inquisì
ansioso mio fratello, lo sguardo per un istante illuminato di folle speranza.
La quale venne prontamente
soppressa dalle rassicurazioni di nostra madre. “Oh no, niente di tutto ciò.
Ecco, forse sì, un poco si è lamentato di te. Sostiene che in questi cinque
anni lo hai spesso trattato con estrema freddezza, evitando ogni suo tentativo
di conversazione e soprattutto restituendogli ogni suo regalo. Certo, la modestia
è raccomandabile, però … concedere di tanto in tanto un sorriso … una qualche parolina
gentile … una confidenza … altrimenti, tesoro, darai la falsa impressione di
non volerlo sposare!”
“E se”, azzardò Itachi,
sporgendosi verso nostra madre “e se fosse proprio questo ciò che desidero? Se
non volessi sposare lo zio?”
“Oh, beata schiera angelica! Che
barbarità stai dicendo, Itachi?”, lo rimbrottò dolcemente la nonna, scuotendo
il capo. “Non ti rendi conto che è l’occasione della tua vita? Onestamente,
devi pensare al tuo futuro. Vuoi rimanere solo per il resto dei tuoi giorni e
accontentarti di giocare allo zietto coi figli di tuo fratello? Non desideri
una casa tua? Itachi, ormai sai cosa implica la tua, ehm, deformazione, no? Non
puoi pretendere di menare la medesima vita di Sasuke! Nessuna donna ti vorrebbe
e molto probabilmente disgusteresti anche gli uomini. Di conseguenza, oltre allo
zio, chi ti piglia?”
All’udire ciò, il labbro
inferiore di mio fratello prese a tremare. “Già … chi mi piglia …”, ripeté come
in trance, tappandosi la bocca per soffocare degli improvvisi e acuti risolini,
i quali crebbero di volume e intensità, fino a portare Itachi a piegarsi dalle
risate, la fronte appoggiata sul tavolo. Prima, però, che la nonna e nostra
madre avessero avuto modo di invitarlo a ricomporsi, ecco che il riso si
tramutava in un disperato pianto e le risate in singhiozzi.
“Itachi, per favore, controllati!
Non è il caso di … oh, Vergine Santissima!”, esclamò spaventata nostra madre,
alla vista di mio fratello lanciare un ultimo stridulo guaito di dolore, per
poi cadere dalla sedia e, una volta sul pavimento, a contorcersi
forsennatamente, neanche fosse stato percorso da continue scariche elettriche.
Mein Vater, mein Vater, jetzt faßt er
mich an!
Erlkönig hat mir ein Leids getan! –
(Padre mio, padre mio, adesso
egli mi ha afferrato! / Il Re degli Elfi
mi ha fatto del male!, ndr. )
In quel momento, io mi trovavo in
cucina: Uzuki Yuugao, la mia governante, si stava prodigando a ricucirmi uno
strappo ai calzoncini provocato da un solenne ruzzolone. Osservando l’abile
andirivieni dell’ago nella stoffa, sorseggiavo serafico la mia acqua e menta,
chiedendo di tanto intanto alla ragazza quanto le mancasse. Non che avessi un
bisogno immediato dei miei calzoncini, però quello era il paio che più
prediligevo.
Il trillo del campanello scosse
tutti i domestici lì presenti dalle loro occupazioni, spronando uno a recarsi
nella sala da pranzo. Venne e tornò, domandando di Haku, il quale abbandonò in
tutta fretta il suo pane e latte, sparendo per due ore buone.
“Cos’è successo, Haku?”, gli
domandò Keiko, un’altra nostra fantesca, al suo ritorno.
“Paron Itachi ha sofferto di una
delle sue solite crisi”, replicò laconico il ragazzo, massaggiandosi
stancamente la tempia destra. Parlare “cristiano”, come a Konoha tutti parevano
essere assai zelanti a ricordargli, lo stancava grandemente.
“Mio fratello?”, m’informai
preoccupato. “Una crisi? E quale? Sta bene? Posso vederlo?”, lo tempestai di
domande, tirandolo per una manica.
“Sì, alla prima, paron Sasuke.
Sì, pure alla seconda. Attacco nevrotico, alla terza. Adesso megio alla quarta
e no, alla quinta. Non potete visitarlo per il momento. Ordini del medico”,
soddisfò Haku paziente eppure conciso la mia curiosità. Dopodiché, si rivolse alla
vecchia Ryoka, la nostra cuoca. “La parona Mikoto si chiedeva, se potevi
intanto preparar pel paron Itachi un decotto di melissa. Per calmargli i nervi,
dice lei.”
“Ché! Di nuovo? Pah!”, scrollò le
spalle la donna, accingendosi ad eseguire la richiesta del giovane domestico.
“Altro che melissa! Quello là ha bisogno di un esorcismo!”, dichiarò,
segnandosi più volte. Alcuni dei servi lì presenti la imitarono tosto.
“Che sia posseduto?”, chiesi
conferma a Yuugao, portandola a segnarsi anch’ella.
“Spero di no, padroncino!”
“Made!”, esclamò stupito Haku,
incrociando le braccia al petto. “A che razza di stramberie state dando aria?
Posseduto? Via digo, non vi fate sentire, per carità! Paron Itachi sta male,
ecco tutto.”
“Ma che ha?”
“Lo sai forse, Haku?”
“Trascorri molto tempo con lui!”
Incrociando due dita alla bocca,
Haku sentenziò solenne: “I servi ch’hanno giudizio, non vanno a parlare de’
fatti de’ loro paroni!” e detto questo, presa la tisana e si recò in camera di
mio fratello.
Perché la parola di un servitore
non valle nulla, anche contro le malefatte del suo padrone. Anzi, alla fine è
proprio il domestico che paga la sua audacia, accusato di infondata
vituperazione e calunnia.
“Ti ringrazio infinitamente,
cugino, per aver esaudito la mia richiesta”, esordì Itachi il suo discorso, osservando
Haku di sottecchi mentre questi, servito il tea e la Victorian Cake, si
sistemava nell’angolo più remoto della stanza, assumendo l’espressione vacua di
chi fingeva di non sentire.
Cinque giorni dopo l’attacco
isterico, mio fratello aveva potuto lasciare il letto, senza tuttavia uscire
dalla camera da letto: il dottore gli aveva sconsigliato ogni sforzo inutile,
sollecitandolo piuttosto a riposarsi. Così, lui ed io trascorrevamo la maggior
parte del tempo nel suo boudoir, mio fratello in vestaglia e allungato sulla
chaise longue e io sulla poltrona accanto, leggendogli ad alta voce di tanto in
tanto un libro. Passatempo che io trovavo assolutamente barboso, ma che
tuttavia giovava assai ad Itachi, giacché, anch’egli annoiato, si addormentava,
cullato dal mio orrido francese.
Quel pomeriggio, però, nostro
cugino Shisui venne a trovarci, certamente su invito di Itachi. Preso posto
scandalosamente ai piedi della sua chaise longue, invece che sulla poltrona (il
cugino aveva sempre tratto un perverso gusto a sfidare le buone maniere), egli
s’informò dapprincipio sulle condizioni di salute di mio fratello, il quale lo
ringraziò per l’interessamento, sostenendo che stava migliorando per quanto
fosse tormentato all’occasione da delle fastidiose vertigini.
“Bagni di mare, cugino caro”, gli
consigliò Shisui, dopo aver ascoltato attentamente il resoconto di mio
fratello. “Sono un ottimo rimedio per le vertigini. O almeno così affermano i
medici. A mio avviso, ti saranno utili come scusa per allontanarti da qui per
un po’ di tempo.”
Mio fratello sospirò,
accarezzando pensoso il gatto rosso sul suo grembo. “L’idea non mi
dispiacerebbe, Shisui. Purtroppo, però, sia mio padre che lo …”, deglutì “zio
convengono quanto sia meglio tenermi in casa, così da evitare ogni possibile
ricaduta.”
“Oh, una scusa convincente la si
trova sempre, Itachi!”, sogghignò nostro cugino, così come soleva fare da
bambino, quando aveva ideato una marachella ai danni degli adulti. “Ti ricordi,
cugino, della signorina Nohara Rin?”
Sia mio fratello che io arcuammo
intrigati il sopracciglio. Cos’era quel repentino cambio di argomento?
“Sì … che mi dici di lei?”
“Ebbene, mio fratello Obito nutre
un certo interesse nei suoi confronti e i genitori di lei sembrerebbero
approvare siffatte attenzioni. Nondimeno, prima di annunciare ufficialmente il
loro fidanzamento, a Obito piacerebbe conoscere meglio la ragazza, poterle
parlare liberamente a tu per tu, senza tuttavia creare infamanti dicerie. I
signori Nohara tengo estremamente al decoro. Mi segui?”
“Sì …”
“Bene, perché avremo bisogno dell’aiuto
tuo e dalla piccola pulce”, gli rivelò con fare cospiratore, accennando a me
con un lieve cenno del capo.
Aggrottai indispettito la fronte:
Shisui aveva un modo tutto suo per dileggiarmi, appellandomi nei più disparati
modi. E ciò che mi irritava maggiormente, era il fatto che Itachi trovasse i suoi
lazzi divertenti.
“Del mio aiuto? Di Sasuke? Come?”
“Ti ricordi della nostra lontana
parente, la signorina Terumi?”
“Mei? Certo, seppur vagamente.”
“Ecco, ha deciso di prendere i
voti.”
All’udir ciò non riuscii a
trattenermi dall’esclamare: “Si fa suora? Non l’avrei mai detto! Mi era sempre
parsa assai volitiva e energica per chiudersi in un convento!”
Mi sovvenivo molto bene di quella
giovane rossa, che si diceva possedere in corpo tutti i sette diavoli di Maria
Maddalena. Figurarsi: figlia unica, figlia per di più della vecchiaia, ovvio
che non le facesse paura manco il demonio in persona e che fosse abituata a
comandare gli altri a bacchetta! Ne sarebbe venuta fuori una portentosa
badessa, altroché!
“Eppure così va il mondo e per
quel che mi riguarda, lei può anche andare al diavolo!”
“Shisui!”, lo riprese Itachi,
elargendogli a mo’ di punizione un colpetto alla coscia col piede.
“ Perdono cugino. In ogni modo,
importa il fatto che Mei sia la migliore amica di Rin: da piccole entrambe
hanno infatti studiato nello stesso convento dalle suore. E quale miglior
occasione, se non questa, per avvicinare Rin? Di sicuro parteciperà all’entrata
ufficiale dell’amica in monastero!”
“Sì, ma cosa centriamo noi?”
Shisui roteò gli occhi
melodrammaticamente. “Se Obito dovesse recarsi a Kiri da solo, la gente capirà
subito che si reca a corteggiare Rin. Se ci andassimo solo mio fratello ed io,
sarà palese che uno dei due gioca alla donna – o nel nostro caso, uomo – dello
schermo. Invece, se ci recassimo tutti a Kiri, sembrerà una semplice gita di
famiglia. Che te ne pare? Non l’abbiamo azzeccata? Inoltre, Itachi, considerala
anche come un’occasione per respirare un po’ d’aria buona e soprattutto per
scrollarti di dosso certe … patelle!”, gli annunciò trionfante il ragazzo e
attendendo una nostra risposta.
Dal canto mio, ero più che
entusiasta di partire alla volta di Kiri, di cui avevo dei bellissimi ricordi.
Mi mancavano molto le lunghe passeggiate sulla spiaggia, l’aria salmastra,
l’incessante canto dei gabbiani, i bagni e soprattutto le frittelle della
signora Yuki – o Mamma Haruhi – un tempo
nostra balia e madre di Haku.
Anche Itachi condivideva le mie
medesime aspettative e il luccichio nei suoi occhi tradiva palesemente l’enorme
voglia di poter trascorrere l’estate lontano da villa Nakano.
“Dovrò chiedere il permesso a mio
padre …”
“Non ti preoccupare: penserò io a
tutto! Sai quanto lo zio Fugaku mi ami alla follia!”, scherzò Shisui, le cui
orecchie in realtà ancora bruciavano da tutte le volte, che nostro padre lo
aveva rimproverato e punito per le sue infinite monellerie, lamentandosi poi
con sua madre per non essersi risposata dopo la morte di zio Kagami, così da
fornire sia Obito che Shisui di una figura paterna e autoritaria, che li
avrebbe messi finalmente in riga, al posto di crescere allo stato brado,
com’era solito nostro padre descrivere l’educazione impartitali dalla madre.
In ogni modo, la proposta del
cugino parve aver sortito il suo effetto: per la prima volta dopo molto tempo,
vidi Itachi sorridere genuinamente spensierato, rallegrandomene anch’io.
Alas, la sorte congiurò di nuovo contro
di noi.
Due mesi dopo quel discorso, il
colera scoppiato nel frattempo a Kumo e ad Iwa raggiunse anche Konoha, mietendo
molte vittime.
Tra cui anche Shisui.
Per un anno Itachi smise di
parlare, entrando in una depressione nera.
“Sior!”
Codesto
richiamo giunse tanto inaspettato, che il diario per poco non cadde di mano a
Naruto, finendo così in mare. Ricompostosi fretta, il bionde mise nella borsa a
tracolla il suo prezioso quadernino, balzando giù dalla panchina e raggiungendo
il traghettatore, il quale l’aspettava all’imbarcadero tra il divertito e lo
spazientito.
Erano le
sette e un quarto del mattino e l’alba ormai aveva ceduto il posto alla mattina
vera e propria.
“Mi
scusi”, si cosparse Naruto il capo di cenere, osservando preoccupato l’acqua
profonda e inquieta a qualche centimetro dal suo piede. “Ero sovrappensiero …”
“E bondì
anche a lei, sior”, lo salutò il giovane dai capelli biondo-rossicci,
arricciando le labbra in un mezzo sorriso birbante. Con tutti quei piercing in
faccia, poi, sembrava un teppista, se non proprio un galeotto.“Dormito male?”,
s’informò, tendendo la mano a Naruto, che questi afferrò saldamente per entrare
nella snella imbarcazione, la quale oscillò un poco, provocando una piccola
vertigine nel commissario. “Si sieda ai lati, accanto ai siori e non si
preoccupi: la nostra putèla non si capovolge! Non sempre, almanco!”, scherzò,
mescolando alla lingua standard parole di dialetto.
Sedutosi
rigidamente accanto agli altri quattro passeggeri, Naruto si sentì molto
stupido per aver esternato sì platealmente il suo timore.
“E dov’è
diretto?”
“All’Abbazia
di Sant’Erasmo e Santa Barbara!”
“Ma a
quest’ora xè chiusa alle visite!”, obiettò il traghettatore.
“Non mi
reco lì per scopi turistici”, replicò sibillino Naruto. “Bensì per … una
ricerca.”
Gli
occhi azzurri del giovane squadrarono a lungo il biondo, chiaro segno che non
gli credeva interamente. Nondimeno, fischiò al suo collega l’ordine di incominciare
a remare, mentre lui aiutava l’imbarcazione a scivolare via dalla banchina appoggiandosi
alle paline.
Estraendo
lentamente il diario, il giovane commissario ingollò l’aria salmastra –
diamine, adesso scopriva che soffriva di mal di mare? – e riprese a leggere.
In seguito alla morte del suo
cugino preferito, gli attacchi nevrotici di Itachi mutarono in apatia e se già all’inizio
egli si esprimeva a monosillabi, adesso ci sembrò che la lingua gli si fosse
seccata in bocca e che mio fratello avesse assunto la medesima vitalità di un automa.
Non si sottraeva più alle visite dello zio, onorandole in silenzio e con lo
sguardo vuoto di chi era altrove con la testa. Mantenne poi il lutto completo
anche dopo i tre mesi di prassi per gli uomini, invece di sostituire l’abito scuro
con la più comoda fascia nera al braccio per i restanti nove mesi.
Le letture di Itachi subirono
inoltre un inquietante dirottamento: curiosando nella sua libreria personale,
scoprii che mio fratello aveva sviluppato un morboso interesse nei confronti
dello spiritismo e di pratiche esoteriche e sfogliando i numerosi libri e
articoli di giornale, notai che si stava concentrando prevalentemente sul
richiamo degli spiriti dall’Aldilà, come evocarli e parlare con loro. Alla
lettura dei contenuti di quegli scritti mi vennero i sudori freddi e per la
prima volta realizzai, che un qualcosa di sinistro si stesse insinuando
nell’animo di mio fratello, lui di solito così calmo e razionale. Così, pieno
d’ardore preadolescenziale, mi prefissai di sottrarre Itachi a quelle idee
perniciose, esaudendo l’ultimo favore che Shisui aveva intenzione di fargli,
ergo portarlo a Kiri. Del resto, il colera aveva sconvolto anche le nostre
esistenze, sospendendo ogni attività e solo dopo un anno potemmo lentamente
riprendere il normale corso delle nostre vite.
Trovai un’ottima alleata in Rin,
ora fidanzata ufficiale di nostro cugino Obito. Quest’ultimo si era fatto
avanti solamente al termine del periodo di lutto contemplato per la morte del
fratello e sempre con qualche ritrosia. Rin, con abile civetteria, convinse il
fidanzato ad accompagnarla per qualche tempo a Kiri, affermando che le mancava
terribilmente la sua migliore amica e i parenti lontani. Gli stessi signori
Terumi si dimostravano più che disponibili ad ospitarci per l’estate. Fu un
lungo lavoro di persuasione, ma alla fine nostro padre cedette e la mattina di
Pentecoste del 13 maggio 1856 la carrozza per Kiri ci aspettava impaziente,
carica fino a scoppiare dei nostri bagagli.
L’accoglienza dei signori Terumi
fu grandiosa, degna del loro status della famiglia più altolocata di Kiri (e
non a caso erano lontanamente imparentati con noi). Non trascorreva giorno, che
Madame Yurika, la madre di Mei, non ci organizzasse un tea con dei suoi conoscenti;
una serata concertistica in casa sua (addirittura una volta un ballo privato); una
gita fuoriporta, ad esempio ad Ame, o una gita in barca. Di tanto in tanto Mei
ci onorava della sua presenza, ottenendo da brava capricciosa e testarda il
permesso dalla madre superiora di uscire dal convento. Mi faceva uno strano
effetto vedere quella che chiamavano la Basilissa di Kiri, sempre così elegante
e raffinata, vestire di un umile saio nero e il lungo velo bianco da novizia;
all’inizio molti avevano creduto che il suo gesto fosse stato dettato dalla
noia o dalla sua perenne volontà di stupire. Invece, notando una certa
pacatezza nel parlare e nell’atteggiarsi ora più dolce, compresi che la sua
vocazione era sincera, sebbene seguitasse ad essere comunque spaventosa, quando
s’arrabbiava, e regina indiscussa del “voglio e posso”.
Malgrado i notevoli sforzi dei
nostri anfitrioni, mio fratello non prese parte a nessuno degli svaghi da loro
proposti e del resto, per una persona che aveva trascorso gran parte della sua
vita in casa, confrontarsi con così tanta gente ed essere sballottato di qua e
di là gli risultava piuttosto difficile da sopportare, stancandosi
conseguentemente. Eppure, il sollievo di vedere rifiorire il rosato sulle sue
guance smunte e di sentirlo nuovamente conversare con gli altri non me lo levò
nessuno e non mancai di scriverlo a Maman nelle nostre lettere, essendosi la
genitrice molto raccomandata con me di tener d’occhio mio fratello. Inutile
dire quanto ne gongolassi, orgoglioso di quell’importante incarico. Mi sentii
d’un colpo più maturo e responsabile.
Sfortunatamente per le mie
velleità di crocerossina, mio fratello conosceva bene l’arte di scapparmi via
da sotto il naso.
Itachi coltivava, infatti,
l’abitudine di alzarsi molto presto la mattina e di pigliare con sé Haku (da
solo non usciva mai) per delle lunghe passeggiate lungo la promenade principale
in riva al mare e talvolta sulla spiaggia stessa. Dopodiché, al ritorno i due
viravano nel centro cittadino, porgendo una visita a Mamma Haruhi, la quale li
tratteneva per ore e ore, riempiendo Itachi di frittelle – che prontamente
divideva con me – e di raccomandazioni circa il nutrirsi adeguatamente. Infine,
rientrati a casa, mio fratello si rinchiudeva in camera sua, magari sul
balcone, ripresentandosi solo ai pasti. Avendo difficoltà a dormire – così lui
si giustificava – soffriva di frequenti emicranie e preferiva rimanere al buio.
A noi dispiaceva questa suo essere scostante, tuttavia non potevamo di certo
obbligarlo a prender parte alle nostre attività. Tranne che le serate
all’opera, oh, allora sì che Itachi veniva! Peccato, che l’opera e il teatro
fossero proprio gli unici svaghi in cui mi annoiassi grandemente.
Seguimmo questa tabella di marcia
per settimane, senza particolari variazioni.
Fino a quel giorno.
Era il 9 giugno 1856 e mio
fratello festeggiava i suoi diciannove anni; ciononostante, come tutte le
mattine, si levò molto presto, indossò i suoi abiti neri da lutto, chiamò Haku
e, con i corpo solo una tazzina di cioccolata, uscì di casa per la sua abituale
passeggiata mattutina, in barba ai piccoli peccatucci e licenze che si concede,
quando si compiono gli anni. Più rigido di un maresciallo prussiano, Itachi
seguì inflessibile l’ormai consolidato programma.
Quand’ecco che, sulla via del
ritorno, passando per la pescheria uno degli affaccendati pescatori si accorse
tra la folla di loro due, chiamando di conseguenza a gran voce Haku, finché
questi, accortosi, ricambiò il saluto assordando per poco mio fratello.
Rumorosa abitudine di Kiri! Alla domanda di Itachi circa l’identità del
pescatore, il giovane domestico gli rivelò tutto d’un fiato che si trattava di
Momochi Zabuza, uno che da un po’ di tempo gli faceva la corte.
“E se lui dovesse chiederti di
sposarlo, accetteresti?”, gli chiese lentamente mio fratello, fissando a lungo
il ragazzo, che replicò pragmatico:
“E perché no, paron Itachi? De
diana, mica m’attacco con un battellaio! Zabuza possiede una casa sua, due
tartane e ha gente che lavora per lui. Sa leggere e scrivere e ci conosciamo da
quando io ero una creatura! Pensate, paron, che a Santa Caterina c’ha regalato
una cesta piena di canocie e in primavera di moeche! [3] La mia mama m’ha
detto, che se non fosse tanto vècia, lo sposerebbe lei!”
“Solo per questo saresti disposto
a divenire, ehm, il suo consorte?” Per
uno appartenente all’aristocrazia, trovare appetibile un soggetto come Momochi
Zabuza gli risultava assai arduo, se non proprio inconcepibile. Nondimeno,
Itachi dedusse che per Haku, per il suo strato sociale, la sua educazione e il
paese d’origine, egli corrispondesse ad un buon partito. Si aggiunga poi che a
Kiri il matrimonio tra le persone dello stesso sesso valeva tanto quanto quello
eterosessuale e il gioco valeva la candela.
“No, paron, non solo. Ammetto che
mi piaccia e anca molto”, arrossì il ragazzo. “Sennò, mica gli permettevo di
baciarmi, la domenica dopo la funzione!”
Le orecchie di Itachi divennero
rosse. “Tu … tu l’hai baciato?”
“Sì ben, paron, e più volte! Oh,
viva diana! Altrimenti, me lo prendeva ’n altro! Come faceva a capire, che
m’interessava? Non vi baciate, voialtri siori?”, si giustificò Haku, interdetto
dalla moralistica incredulità di mio fratello. “Però v’assicuro, che le chele
le ha ben tenute in tasca, veh! Sono un putèlo onorato, io!”, lo rassicurò così
solennemente, che sulle labbra fini di Itachi si curvarono in un malinconico
sorriso.
“Allora, non farlo aspettare”, lo
incalzò mio fratello, accennando all’uomo con un discreto cenno del capo. “Vai
a parlare con lui!”
Il viso di Haku s’illuminò. “Daséno?
Posso?”, disse, per poi mordicchiarsi a disagi il labbro inferiore. “Ma voi?”
“Tornerò a casa da solo, ormai
conosco la strada. Prenditi la giornata libera”, gli offrì generosamente
Itachi, osservando mesto come Haku si era lisciato i capelli e i vestiti prima
di raggiungere Zabuza e di come il suo viso si fosse tramutato in un bocciolo
di rosa, tanto le guance imberbi del ragazzo s’imporporavano di lusinga e
affetto mentre cicalava con l’uomo, il quale, malgrado la grossa stazza e le
forti mani ruvide, rosse e callose, trattava il giovinetto con tale garbo, che pareva
avere tra le mani un cristallo di Boemia.
Chissà, magari in quel momento
Itachi, osservando in disparte la scena, dovette aver provato una grande
invidia nei confronti del suo domestico, così felice e spensierato nel suo
amore e corteggiato da un uomo sì di umili origini, ma che lo rispettava.
E forse fu proprio con l’immagine
dei due sorridenti e complici, che mio fratello deviò dal consueto percorso,
dirigendosi invece verso e la spiaggia e, una volta lì, sedendosi sulla morbida
sabbia ancora fresca e catturando distrattamente i granchietti che si
nascondevano sotto di essa, per poi liberarli subito dopo.
In quello stato di incantamento
dovette mio fratello essere rimasto piuttosto a lungo, giacché non s’accorse
della marea che ingoiava avida la spiaggia man mano che il sole si alzava, né
avvertì egli l’acqua lambirgli le scarpe e i vestiti. Continuava a rimanere
rigidamente seduto in quella posizione, le ginocchia al petto e lo sguardo
fisso davanti a sé, incurante di ciò che lo circondava, immerso nella
solitudine del meriggio.
Fu quando l’acqua gli sfiorò il
naso, che una forte presa per le ascelle lo issò in piedi, trascinandolo in un
rumoroso scroscio a riva, o almeno così sperava di fare il soccorritore, poiché
Itachi, ripresosi dall’attimo di confusione, si divincolò prontamente
dall’altro, indietreggiando scompostamente e perdendo l’equilibrio, fino a
cadere di nuovo in acqua in un sonoro tonfo.
“Varé là, non fate storie!”, gli
offrì lo sconosciuto la mano, onde rialzarsi. “A mollo non si sta bene!”
Per tutta risposta, mio fratello
con un brusco e ampio movimento del braccio creò una piccola onda, che lavò
completamente il viso dell’uomo.
“Rinfrescante!”, commentò quegli sarcastico,
asciugandosi il volto gocciolante. “Via matto, datemi la mano!”, disse
gentilmente, sporgendosi per afferrare quella di Itachi, che invece schiaffò
via la sua, allontanandosi da lui come un’aragosta. “Se siete duro di testa,
strambazzo!”
“Non mi toccate!”, berciò mio
fratello, distanziandosi ulteriormente dallo sconosciuto, il quale levò in alto
le mani, senza tuttavia accennarsi a lasciarlo da solo.
“Sta ben. Non vi tocco”, replicò cauto
l’uomo. “Tuttavia, vogliate avere l’amabilità di rialzarvi e di tornare a
riva!”
“Posso farlo benissimo anche
senza la vostra supervisione! O dovete per forza controllarmi?”
“Nel vostro caso, temo di sì.”
“Aria, non siete né la mia balia
né tantomeno mio padre! Non accetto ordini dagli estranei!”
“Nessun ordine, ve l’assicuro”,
lo tranquillizzò serafico lo sconosciuto. “Solo un consiglio: essere mangiato
vivo dai granchi non è una bella morte!”
Gli occhi di mio fratello si
ingrandirono, sorpresi. “Come, prego?”
“Non lo sapete? In tempi antichi,
una punizione molto frequente qui a Kiri consisteva nel legare il condannato ad
un palo, fargli un piccolo taglio e lasciarlo lì, in attesa dell’alta marea e
in balìa dei granchi. Macabro, nevvero?”
Evidentemente sì, poiché Itachi
scattò in piedi e, crocifiggendo con lo sguardo il suo soccorritore, si diresse
piccato sul bagnasciuga, borbottando tra i denti: “Siete un individuo
ripugnante …”
L’uomo aprì la bocca per
replicare, per poi chiuderla all’ultimo momento, limitandosi a scuotere il capo
e a ridacchiare tra sé e sé. “Lustrissimo!”, salutò mio fratello, abbozzando ad
un inchino.
Itachi non lo degnò di una
parola, proseguendo inviperito e bagnato fradicio verso casa.
Fu la prima espressione “viva”
che gli lessi in volto dopo un anno.
“E mi
dica, di dove xéla?”
Sull’imbarcazione
erano rimasti solamente Naruto e il traghettatore, il primo in un lieve stato
di dormiveglia: complice la notte trascorsa in bianco e l’ora piacevole
dondolio delle onde, gli occhi celesti del biondo si erano gradualmente chiusi
e fu forse per questo motivo, onde evitare che cadesse all’indietro in acqua,
che il rematore aveva attaccato bottone con lui, svegliandolo di conseguenza.
“Eh?
Scusi? Che ha detto?”
Sbuffando
sonoramente, il giovane ripeté snervato: “Di dove xéla?”
“Potrebbe
parlare cristiano, per favore?”, lo pregò Naruto, sinceramente disorientato da
quel dialetto cantilenante e sibilante e stufo di capire trequarti di quel che
il traghettatore gli stava dicendo.
Peccato
che la sua richiesta tinse di rosso le gote dell’altro e non ti imbarazzo.
“Debòto le dago un “parlare cristiano” su la copa!”, lo minacciò neanche troppo
velatamente.
E io pensavo che la gente
scherzasse, quando affermava che quelli di Kiri e di Ame fossero permalosi!, cogitò apprensivo Naruto,
indovinando cosa “copa” potesse significare e, giudicando i pochi centimetri di
legno che lo separavano dall’acqua, era meglio non contrariare eccessivamente
il giovane pel di carota.
“Ehm, vengo
da Konoha!”
“Daséno?”,
strinse gli occhi il traghettatore, sospettoso. “E che è venuto a fare qui?
Quale ricerca? È uno storico?”, si sforzò di conversare nella lingua standard.
Evidentemente, teorizzò il biondo, voleva una risposta certa a quelle sue
domande. “Un giornalista?”
“Sono un
commissario!”
“Ah”,
fece il giovane pensieroso. “Nisùn cuà xé sta copà!”
“Eh?”
“Ammazzato!
Nessuno. È . Stato. Qui. Ammazzato!”
“Non
sono sordo! E comunque, non sto indagando su di un omicidio!”, obiettò Naruto,
massaggiandosi le orecchie. Accidenti, se prima aveva sonno, in seguito a
quell’ululato si sentiva anche fin troppo sveglio! “Sto conducendo delle
ricerche circa la veridicità di una certa ballata!
Quella …”
Il viso
pieno di piercing del giovane assunse lo stesso colore della cenere. “Sì, sì! Gh’ho
capìo! Ho capito! Non entri nei dettagli! So ben a quale “ballata” si
riferisce, savéu?”, lo interruppe e il biondo, avvertendo un certo scossone,
intuì che avesse accelerato con la voga, pur di accorciare la distanza che li
separava dall’Abbazia.
Silenzio.
“Gh’ha
la novisa? La morosa?”
Naruto
annuì. “Certo e oggi in teoria dovevamo convolare a nozze. Tuttavia, abbiamo
incontrato alcuni impedimenti e non …”
“Sì,
sì”, lo interruppe di nuovo il traghettatore, vogando con maggior lena. “Ed è
per questo, che lei vuole andare all’Abbazia? Che spera di trovare?”
“Spero
di trovare qualcuno che mi parli della Sp-
…”
“Tasé
là, matto!”, lo zittì il traghettatore, sputando immediatamente in mare a mo’
di scongiuro. “Non la nomini! Me vol far preçipitàr?”, gli chiese quegli
severamente.
“Anche
lei ha paura della … avete capito, no?”
“Tutti
ne hanno, sior màmara!”, sentenziò il giovane, chiudendo definitivamente la
conversazione. “Che domande da papagà!”
Trascorsero tre giorni dal primo
incontro di Itachi e di colui che sarebbe stato la croce e la delizia della sua
vita. Incontro, che notai aver in qualche modo impressionato mio fratello a
giudicare dalla fronte aggrottata di chi stava rimuginando sopra un affare
rognoso o dall’improvvisa quanto inspiegabile interruzione delle sue
passeggiate mattutine. Alle mie incessanti richieste sulla fonte di tale
singolare comportamento, Itachi replicava laconico che s’era imbattuto in un
moscone piuttosto fastidioso.
Ci si poté ben immaginare la sua
sorpresa quando lo rivide tre giorni dopo e sempre senza previo avviso.
Quel pomeriggio i signori Terumi,
i miei cugini ed io eravamo stati invitati dai signori Haruno, anch’essi in
villeggiatura a Kiri, a prendere un tea. In tutta onestà, all’epoca non rimasi
molto entusiasta all’idea di dover trascorrere quasi quattro ore in compagnia
della loro figlia, Sakura, che dall’alto dei miei quattordici anni trovavo
assai noiosa e petulante. Ancora un anno e avrei cambiato repentinamente
opinione.
In ogni modo, Itachi declinò la
nostra offerta di venire con noi dagli Haruno, sostenendo di essere un poco
affaticato dal caldo e che preferiva riposare qualche ora in camera, confortato
dalla frescura del buio. Al contrario, i vapori bollenti provenienti dalla
strada s’infiltrarono facilmente in casa, rendendogli impossibile il sonnellino
ristoratore. Così, bagnatosi dietro il collo, rinfrescatosi il viso e
cambiatosi gli abiti, mio fratello scese al pianterreno con un libro
sottobraccio e s’immerse nella lettura, dimentico del trascorrere del tempo.
Nello stesso istante in cui la
pendola suonava le sei e un quarto, un persistente battito alla porta distolse
mio fratello dalla pagina del libro, persuadendolo a levare il capo e a cercare
con lo sguardo un domestico, che andasse ad aprire la porta. Non trovandolo,
Itachi sospirò e, appoggiato il libro, si recò lui stesso ad aprirla,
spalancando sconcertato gli occhi quando il viso del suo soccorritore occupò
prepotentemente la sua visuale.
“Bondì, sior. Stavo cercando …”
“Non sono il domestico!”, gli
ricordò Itachi in un sussurro, seguitando a fissare l’uomo come se si trovasse
dinanzi ad una bestia rara.
“Sì, l’avevo capito”, liquidò
l’altro la faccenda con un brusco svolazzo della mano. “Posso almeno entrare?”
Senza proferire alcun motto, Itachi
gli cedette il passo, o meglio, lasciò la porta aperta e abbandonò l’uomo alla
soglia, tacito invito ad entrare e a chiudere da sé la porta. Inoltre, la
strategia di mio fratello contemplava una fuga strategica in camera sua, così
da evitare imbarazzanti conversazioni; tuttavia, il nuovo arrivato lo raggiunse
abbastanza velocemente da domandargli, bloccandolo:
“Sto cercando sior Terumi! Sapete
se sia in casa o meno? In virtù di suo ospite, ovviamente”, aggiunse, in modo
da sottolineare che aveva compreso e accettato lo status sociale di mio fratello,
che, appollaiatosi dietro lo schienale di una poltrona, rispose atono:
“I signori Terumi sono ospiti dai
signori Haruno.”
“Ah”, fece pensoso l’uomo. “E
pressappoco non avete un’idea, verso a che ora potrebbero ritornare?”
“No”, dichiarò Itachi, trovando
un grande interesse sui ricami dello schienale, invece che alla contemplazione
del viso dell’ospite. “Tuttavia sono quasi le sei e mezza e certamente
potrebbero rincasare da un momento all’altro.”
“Siete rimasto quindi solo in
casa?”
Mio fratello strinse le labbra in
una linea dura.
“Vi dispiace se lo attendo per
una decina di minuti?”
Itachi non disse nulla.
“Potrei almanco sedermi?”
Mio fratello scrollò le spalle.
“Lo prendo come un sì”, sentenziò
l’uomo, prendendo posto. “Ah, non siete obbligato a tenermi compagnia”,
aggiunse poi, arricciando divertito la bocca, quando Itachi si sedette invece
anch’egli, seppur a debita distanza da lui, ripigliando in mano il suo libro e
sforzandosi a riprendere la lettura interrotta.
Nessuno dei due aprì bocca per i venti
minuti che seguirono, eleggendo i ticchettii della pendola ad unico rumore
presente nel salotto. L’unico scambio di battute che si concessero fu l’offerta
di un bicchiere di limonata da parte di Itachi, che il nuovo arrivato rifiutò
cortesemente, traendo maggior diletto a spiare di sottecchi la figura di mio
fratello che, seduto ritto come un fuso, leggeva ormai per la trentesima volta
la stessa riga.
Ignoro cosa entrambi avessero
potuto pensare in quegli attimi; ciononostante, posso figurarmi – considerati
anche gli eventi che seguirono – il modo in cui a sua volta Itachi studiò di
nascosto le fattezze dell’uomo e non con la sua consueta posa rigida e tesa,
come quando lo zio Madara veniva a visitarlo, rimanendo solo con lui o in
salotto o nel giardino d’inverno.
Nessun affanno o nervosismo
sfigurava i lineamenti del suo viso.
Fastidio. Disagio. Sdegno.
Imbarazzo, ecco cosa vi si sarebbe potuto scorgere.
Curiosità.
Interesse?
Sentimenti contrastanti, che lo
spingevano a cambiare costantemente posizione sul divano, così da osservare con
comodo e tuttavia discreto l’ospite, il quale di sicuro se ne accorse, ma lo
lasciò fare.
E fedele alla parola data,
quest’ultimo alle sette meno qualcosa si alzò dalla poltrona, prontamente
imitato da Itachi. “Bene”, esordì l’ospite, ripigliando il fascicolo che aveva
portato seco. “E’ evidente che sior Terumi non rincaserà troppo presto. Poco
male, ripasserò un altro giorno”, annunciò più a se stesso che a mio fratello,
che lo ascoltava più muto di un pesce. “Temo che dovrò prendere congedo da voi.
Che sollievo, nevvero?” e se la frase voleva suonare sardonica, in realtà venne
proferita con tale cortese tatto, che costrinse mio fratello ad abbassare per
un istante lo sguardo, dirottandolo altrove onde celare un pizzico di vergogna
per la sua sgarbatezza e un notevole rossore alle orecchie.
“Ah, stavo dimenticando!
Quell’acqua di colonia non inganna nessuno: si sente, l’alcol!”, si sovvenne
l’uomo all’ultimo, quando ormai aveva un piedi mezzo dentro e mezzo fuori di casa.
Piegando in basso gli angoli
della bocca e assumendo un’espressione altamente irritata, Itachi gli sbatté
senza tante cerimonie la porta in faccia. Resosi però conto, che
all’appendiabiti ancora indugiavano sia il cappello che il bastone da passeggio
dell’ospite, mio fratello li prese, riaprì la porta e li cedette di malagrazia
a quell’altro che se la rideva alla grande, per poi chiuderlo nuovamente fuori
casa. Dopodiché, appoggiandosi sfinito al legno, Itachi espirò tutta l’aria dai
polmoni, portandosi il palmo della mano a qualche centimetro dal naso e,
alitatovi contro, ne annusò l’odore. Lo scocciatore aveva ragione, appurò egli
piccato, l’alcol degli spiriti sopraffaceva infido quello del profumo. Perché
nessuno glielo aveva fatto notare prima? Per pietà?
Diavolo d’un satanasso
intromettitore!, fumò mio fratello, afferrando violentemente il libro e
dirigendosi a grandi falcati in camera sua e rimanendovi per il resto della
serata.
“… uno scellerato, un tanghero, un
iniquo, un ruffiano, un cialtrone, un sangue di giuda, un pendaglio da forca,
un cane, un assassino, un birbo malnato, uno scimmiotto …”
Appoggiando il vassoio della cena
sul tavolino, Haku fischiò impressionato. “Varé, che casi! Paron Itachi, non
starete un poco esagerando? Mi sembrate paron Sasuke quando parla di quella putta,
la …”
“… Sakura”, lo aiutai, rubando un
pezzettino di focaccia. “E quel confetto rosa si merita ben di peggio!”,
sentenziai solennemente.
“Sì, giusto lei”, convenne il
domestico. “Per averlo conosciuto appena da qualche giorno, siete un po’ troppo
duro ne’ suoi confronti! Manco sapete il suo nome!”
“Mi è bastata un’occhiata per
capire con che razza di gaglioffo avessi a che fare!”, affermò Itachi con
sufficienza e provocando ad Haku una grande, grossa e grassa risata:
“Varé, varé! Oh, poveretto mi!
Che discorsi! Me maraveggio de vu, paron Itachi!”
“E parla cristiano, Haku! Non
capisco niente, quando ti esprimi in turco!”
“Haku ha ragione, fratello! Chi
disprezza compra! Non è che per caso …?”
“Vi siete forse messi d’accordo,
voi due?”, sibilò bellicoso mio fratello, imporporandosi. “Un’altra parola,
pidocchio, e scrivo agli Haruno per fissare un altro incontro con la loro tanto
graziosa e adorabile figliola …”
“Perfido!”, borbottai tra i
denti.
Ridacchiando compiaciuto, Itachi
si allungò sulla chaise longue. “Che dovrei trovare di interessante in quel
cafone? Non è affatto avvenente, né veste con gusto. Sono rimasto inoltre stupito
che sapesse esprimersi a parole e non a versi …”
“Certo, certo …”, ci lanciammo
Haku ed io delle occhiate complici.
“In ogni modo”, ridivenne Itachi
improvvisamente serio “anche se dovessi essermi in qualche modo infatuato di
codesto pezzente, ciò non cambierebbe la realtà, ovvero che sono già fidanzato
con lo zio Madara …”, mormorò e la sua affermazione ottenne l’effetto di
distruggere l’atmosfera di intima e giocosa confidenza, che s’era previamente
creata. “E dopo quello che è successo” e lì i suoi occhi neri divennero
preoccupantemente vuoti e opachi “non ho intenzione di compromettermi con
nessuno!”
Nessuno di noi due ebbe cuore di
replicare, limitandoci a lasciare tranquillo Itachi a consumare la sua cena.
Alas, quanto mio fratello si
sbagliava! La sorte aveva appena iniziato a giocare con loro!
Il giorno seguente, infatti,
mentre uscivamo dalla chiesa dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara, il
signor Terumi venne preso in disparte da colui che intuii essere l’oggetto
delle invettive di mio fratello. Incuriosito, lo studiai per bene, concordando
con Itachi circa la poca avvenenza dell’uomo, il quale tuttavia non aveva la
faccia di un delinquente, solo di una persona piuttosto pragmatica e spiccia. E
tanto ero immerso nella mia contemplazione, che sussultai all’arrivo di mio
fratello, specie quando questi mi afferrò per la mano, tentando di trascinarmi
via dal campo visivo dell’uomo.
Sennonché, il signor Terumi ci
pizzicò, voltandosi verso di noi e riempiendoci di cortesi domande, prime fra
tutte riguardo la salute di mio fratello, che la sera precedente aveva
disertato la cena in compagnia. Di conseguenza, grazie a quel repentino cambio
di interlocutore, il famoso sconosciuto si accorse della nostra presenza e
nello specifico di quella di Itachi; trattenendo a forza un ghigno, egli allora
allungò un poco il collo dalla spalla del signor Terumi per meglio scrutarci,
inquisendo falsamente offeso:
“Ché, sior Terumi! Non mi
presentate i due signorini?”
Ridacchiando un poco imbarazzato
per la sua mancanza di buone maniere, il nostro anfitrione esaudì prontamente
la sua richiesta. “Oh cospettaccio, avete ragione, perdonate la mia
dimenticanza!”, si scusò bonariamente, schiarendosi la voce. “Sior Hoshigaki,
permettetemi di presentarvi i fratelli Uchiha, figli di mia cugina Mikoto e
miei ospiti per tutta l’estate.”
“Uchiha Sasuke”, allungai la mano
tutto baldanzoso e con arie di grande importanza. “E’ un piacere conoscervi,
signor Hoshigaki!”
“Il piacere è tutto mio,
signorino”, replicò l’altro, stringendomela a mo’ di saluto. Una presa forte,
decisa, eppure non brutale.
Reclutante, mio fratello gli concesse
a malapena tre dita da stringere. “Uchiha Itachi”, disse tutto d’un fiato,
tanto che neppure mi resi conto del movimento dalle sue labbra.
“Alla fine ci conosciamo … ufficialmente”,
commentò l’uomo con tono burlone, catturando quasi la mano di mio fratello, che
s’affrettò a ritirarla.
“Vi siete già incontrati?”,
s’informò il nostro anfitrione, guardando incuriosito i due.
“Di sfuggita”, dichiarò conciso
mio fratello, lo sguardo ben piantato contro quello del signor Hoshigaki,
sfidandolo a rivelare oltre.
Guanto raccolto. “Ho intravisto
di tanto in tanto il signorino Uchiha in riva al mare e ieri pomeriggio, quando
sono venuto a cercarvi a casa vostra, è stato così gentile da tenermi
compagnia, intrattenendomi con la conversazione più brillante ch’abbia mai
udito in vita mia!”
Dovetti trattenermi dal ridere
alla vista delle orecchie di Itachi divenire scarlatte dallo sdegno e dal modo
in cui la sua fronte si aggrottava in una maschera assassina.
“Purtroppo il signor Hoshigaki
non si è trattenuto abbastanza, da poter approfondire la nostra conoscenza”, si
difese mio fratello dalla velata frecciatina dell’altro. “Spero, di avere più
occasioni in futuro”, ergo alle calende greche, il giorno del mai.
“Oh Itachi, le avrete
certamente!”, lo rassicurò il signor Terumi. “Il signor Hoshigaki è il miglior
collaboratore nella mia ditta ed ora che è ritornato dal suo viaggio a Kumo,
sono certo che non mancherete di stringere amicizia! Adesso, però, basta
cicalare e raggiungiamo le nostre dame! Chi le sente, altrimenti?”
E nel frattempo che il nostro
anfitrione ci precedeva, sussurrai maligno a mio fratello: “Il vecchio t’ha
proprio infinocchiato, na? Adesso ti tocca sul serio sorbirtelo”, dileggio
prontamente punito da Itachi che, serrandomi inclemente la mano che ancora mi
stingeva, mi sibilò minaccioso:
“Taci, oca!”, per poi sciogliere
la presa e spedirmi da Rin, rimanendo solo col signor Hoshigaki, fatto davvero
notevole per lui, visto che senza Haku mio fratello non si muoveva da nessuna
parte, neppure in casa.
“Che commuovente dimostrazione di
affetto fraterno!”
Voltandosi di scatto verso
l’uomo, Itachi raddrizzò la schiena, sperando di colmare la notevole differenza
di altezza. “Come tratto mio fratello non è affare che vi riguardi! Inoltre, se
osate spifferare a chicchessia di quanto avvenuto in spiaggia e del …
dell’alcol” e qui Itachi abbassò la voce “giuro che vi affogo!”, lo avvertì con
la stessa audacia di chi aveva sia la coda di paglia che le spalle al muro,
brutta combinazione sì sì.
Incrociando le braccia al petto e
cambiando peso da una gamba all’altra, il signor Hoshigaki asserì seriamente,
ogni traccia di ilarità perduta: “Non è mio uso fare la spia, putèlo!
Nondimeno, questo non significa che cesserò di tenervi sottocchio …”
Il respiro di mio fratello
divenne irregolare dalla collera. “Papagà maledetto!”, gli sputò quasi in
faccia.
“Ah, finalmente avete imparato
qualche vocabolo della nostra lingua!”
“Sì”, convenne velenoso Itachi “a
sufficienza per insultarvi!”
L’uomo scosse il capo. “Almeno vi
sfogate”, puntualizzò egli grave. “E mi dimostrate di essere vivo e non un automa …”
“Potremmo interrompere qui la
nostra conversazione? Essa non è di mio gusto …”
“Per il momento, signorino
Uchiha, per il momento”, gli accordò clemente il signor Hoshigaki, cedendogli
il passo.
Senza rialzare lo sguardo, Itachi
accettò il tacito invito, le gote in fiamme e il petto in affanno da un
bizzarro languore mai prima d’allora provato, un turbamento che lo confondeva e
che lo spintonava in direzioni opposte, dal desiderio matto di decollare quel
furbastro dalla lingua lunga, alla voglia di indugiare ancora qualche istante
in sua compagnia, anche solo per seguitare in quell’infruttuosa tenzone.
E come tutti coloro che si
trovano ad affrontare aspetti di se stessi che non conoscono, scivolando nel
dubbio e nella paura, Itachi sperò di non rincontrare più il signor Hoshigaki,
ripromettendosi poi di evitarlo il più possibile, come la peste.
La faccenda dello zio lo
tormentava a sufficienza, non aveva bisogno di sovraccaricare il suo spirito di
altre spine.
Se, dopo
aver attraccato alla banchina di marmo, l’essersi recato di persona a chiamare
una delle suore dell’Abbazia di Sant’Erasmo e Santa Barbara fosse corrisposto
ad un atto di disinteressata generosità da parte del traghettatore, Naruto non
seppe affermarlo con certezza. Fatto stava, che appena le mani del secondo
rematore erano venute a contatto con le paline, subito il giovane dai capelli
biondo-rossicci era balzato giù dall’imbarcazione, raggiungendo silenzioso la
porta del convento e lì sparendovi per una buona mezzora, istillando nel
giovane commissario la curiosità di conoscere che cosa quel teppista avesse
detto su di lui, ricordandosi all’ultimo che lui non capiva un emerito niente
del dialetto di Kiri.
“Così
lei sarebbe il commissario Uzumaki Naruto?”, lo riportò alla realtà
un’imperiosa voce femminile, appartenente alla composta e ieratica figura della
suora dinanzi a lui. “Yahiko mi ha riferito, che lei sta conducendo una ricerca
su di un soggetto piuttosto malvisto sia a Kiri che a Konoha.”
Uscendo
non senza qualche difficoltà dal traghetto, Naruto colmò la distanza tra di
loro, confermando quanto detto dalla donna. “Esatto, reverenda madre”, disse, ringraziando
il cielo che finalmente aveva trovato qualcuno che non si esprimeva in burundi.
“Il mio scopo ultimo è di apprendere quanto più possibile su questo soggetto,
acciocché io possa trovare il modo per neutralizzarlo una volta per tutte,
impedendogli di mietere ulteriori vittime.”
“Riassumendo,
ha preso di mira lei e la sua fidanzata?”
Naruto
assentì col capo. “Così è, reverenda madre. Posso domandarle come …?”
Un
deciso cenno della mano lo zittì. “Non qui. Non ora. Ritiriamoci in un posto
dove lei per volere del castigo
divino non può più entrare …”, asserì, facendogli strada.
Presi
due bei respiri profondi, il biondo si apprestò a seguirla, sennonché
all’ultimo si ricordò dell’onorario al traghettatore, il quale già aveva
ripreso il suo posto di guida. “Ecco, prenda”, gli allungò una banconota
crocchiante. “E non si preoccupi per il resto!”
Gli
occhi blu di Yahiko si soffermarono a lungo sui venti ryo, per poi spostarsi
sul volto stanco di Naruto.
“Nah, no
li voggio!”, rifiutò infine il giovane, impugnando il remo e mulinandolo per
girare il traghetto in direzione del porto antico. “Se li tenga!”, dichiarò
grave. “Le saranno utili!”
“Per
cosa?”, chiese scettico Naruto, rinfilando in tasca i soldi e domandandosi il
motivo di quella pecuniaria rinuncia.
Forse
era il chiaroscuro, ma il ghigno di Yahiko assunse una connotazione sinistra.
“Pel suo
funerale, sior!”
To be
continued …
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[1]
Guaritrice di campagna e levatrice
[2]
strofa dal “Der Erlkönig” di J.W. Goethe (1782)
[3] Canocie
= canocchie, cicale di mare. A Venezia c’è un detto: “A Santa
Caterina megio 'na canocia de 'na galina” (A Santa Caterina (25/11)
meglio una canocchia che una gallina), giacché in quel periodo le canocchie
sono belle grasse, con il succulento corallo da gustare!
[3b] Moeche = in primavera i granchi sono in
amore e hanno la corazza più morbida. Molto buoni fritti.