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Autore: Melabanana_    04/03/2013    3 recensioni
Hera Tadashi è un ragazzo apparentemente indifferente a tutto, che si lascia passare accanto gli eventi senza preoccuparsene molto.
Afuro Terumi è un idol emergente, ma già molto famoso, che nasconde il suo vero carattere.
Questa fic parla di come il loro incontro abbia modificato le loro vite, e di come la loro storia sia venuta ad intrecciarsi con quella dei loro amici.
Coppie: HerAfu, DemeKiri, ArteApo, vari ed eventuali.
{dedicata a ninjagirl, che mi ha fatto scoprire e amare queste pairings.}
~Roby
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Perché in ogni momento, il rosso e il viola sanno sempre trovarsi.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Afuro Terumi/Byron Love, Altri, Hera Tadashi, Jonas Demetrius/Demete Yutaka
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Salve ^ ^
Ehm, dunque, anche questo capitolo è su Aporo e Artemis. Beh, il titolo già preannunciava qualcosa, immagino :'D
Mi dispiace che questa coppia sia così sconosciuta, anche ad onor del vero l'unica coppia diciamo "famosa" di questa fic è l'HerAfu lol. Scrivere su personaggi meno popolari, però, mi piace di più, forse perché la mia parte preferita quando scrivo una storia è la caratterizzazione dei personaggi, e ovviamente i personaggi meno conosciuti mi lasciano più libertà di azione.
Credo che dal punto di vista psicologico, Hera e Artemis siano i personaggi più complessi di questa fic. Sono molto contraddittori, ma alla fine entrambi nascondono solo una grande insicurezza, sia nelle scelte sia nelle relazioni con gli altri, laddove Demete, Kirigakure, Aporo e anche Afuro si mostrano più decisi e coraggiosi. 
Ma sto divagango (?), quindi vi lascio al capitolo :')

Grazie a tutte le persone che recensiscono e seguono questa fic! Chiedo scusa se non sono sempre riesco a rispondere alle vostre recensioni, ma comunque vi sono molto grata ;w;
Baci,       
Roby

 


Capitolo 21.


Hera sospirò: era felice che San Valentino fosse passato.
Era scoppiato come una bolla di sapone a mezzanotte, e ora tutto sembrava essere tornato alla normalità…
“Beh, non proprio tutto…” si disse, lanciando un’occhiata verso Demete e Kirigakure, i quali stavano limonando davanti al cancello della scuola.
Tossì, torvo. I due si staccarono e lo guardarono sorpresi.
-Oh, Tadashi, c’eri anche tu?- chiese Kirigakure con il tono instupidito di chi si è appena svegliato da un sogno. Hera ebbe l’istinto di sbattergli la testa a terra, ma si trattenne.
-Com’è che non vi siete neanche degnati di spiegare a vostro figlio cos’è successo?-
Il tono di Hera era volutamente sarcastico, e Demete fece un sorriso nervoso.
-Ecco… è successo all’improvviso.- si giustificò.
Kirigakure arrossì e annuì, stringendo la mano al suo ragazzo.
Hera ridacchiò. –Ce ne avete messo di tempo… E dire che vi siete sempre piaciuti.-
-Era davvero così chiaro?- si accigliò Demete.
-Chiaro come il sole, direi… Ma quanto siete tardi?- ribatté Hera alzando gli occhi al cielo e, visto che entrambi sembravano troppo imbarazzati per rispondere alla provocazione, aggiunse malizioso:- Certo, se Demete avesse ripetuto quella frase quest’estate, avreste perso meno tempo…-
La frase ebbe un effetto immediato: Demete avvampò vistosamente, Kirigakure saltò su sorpreso.
-Quale frase? Cosa? Voglio sapere!- gridò il ninja curioso.
-Glielo dico? Ormai non c’è più motivo di tenerlo nascosto- disse Hera, fece per aprire bocca di nuovo, ma Demete schizzò verso di lui e gli coprì le labbra con le mani.
-No, no, no! Lo dico io!- esclamò imbarazzato. Poi tacque, mordendosi il labbro.
-Demdem, stiamo aspettando- lo incoraggiò Hera. Kirigakure li fissava, morendo di curiosità.
Demete sospirò. –E va bene…- Poi la sua voce si abbassò fino ad un sussurro. -…amo alla follia Saiji, voglio stare con lui per sempre e per me vale anche più del mio elmo…-
Mentre Demete e Kirigakure si facevano di un bel rosso vivo, Hera scosse il capo.
-C’era uno “stupido” prima della parola “elmo”, ma te la darò buona- obiettò con un sorriso.
-Zitto- lo rimbeccò Demete, poi vide Aporo avanzare verso di loro e fu lieto di poter cambiare argomento. Chiamò l’amico, ma si accorse subito che era di umore nero.
-Fammi indovinare, la tua disgrazia porta il nome di “Artemis”.- indovinò Kirigakure.
Aporo lo fulminò con gli occhi. –Non dire mai più quel nome in mia presenz…-
-Hikaru!-
Neanche aveva finito di parlare che Artemis apparve e gli afferrò il braccio.
La reazione del ragazzino fu immediata: gli tirò la cartella nello stomaco.
Artemis lasciò la presa in una fitta di dolore e il ragazzino ne approfittò per mettersi a correre verso i campi sportivi, dove si stavano tenendo gli allenamenti del club di baseball.
-Ma che gli hai fatto?- Demete si rivolse ad Artemis, accigliato e torvo perché non gli andava a genio che ci si prendesse gioco del suo migliore amico.
Ma Artemis lo ignorò e partì all’inseguimento di Hikaru.
Aveva le gambe più lunghe delle sue, perciò lo riprese in pochi passi. Cercò di nuovo di afferrarlo, ma Aporo intuì le sue intenzioni e si ritrasse con uno scatto.
Artemis rimase immobile. -Hikaru, devo parlarti!- esclamò.
-Ma io non voglio ascoltarti…!-
I rumori del baseball coprivano quasi del tutto la voce di Aporo, già debole di per sé.
Hera, Demete e Kirigakure, qualche metro più in là, li fissavano senza intervenire.
-Hikaru… perché…- mormorò Artemis. –Quand’è che hai iniziato… ad odiarmi così?-
-ATTENZIONE! HOME RUN IN ARRIVO!-
L’urlo squarciò l’aria. Aporo si voltò giusto in tempo per vedere la palla venirgli addosso e si coprì il volto con le braccia istintivamente, ma il colpo non lo raggiunse mai.
La palla colpì Artemis sopra l’occhio destro nel momento in cui si gettò davanti ad Aporo per proteggerlo, poi schizzò via; il ragazzo si portò subito una mano alla tempia, barcollante.
Hera, che si era precipitato a sorreggere il suo amico, gli impedì di svenire sul posto.
-Dem! Saiji! Chiamate l’infermiera!- gridò, notando che fra le dita di Artemis scorreva sangue.
I due amici obbedirono, e il capitano del club di baseball si offrì di aiutare a trasportarlo fino all’infermeria. Hera lo ringraziò, osservando l’entità del danno.
Rivolse appena uno sguardo ad Aporo, che era rimasto immobile, sconvolto.
-E tu muoviti- gli intimò. Aporo obbedì senza emettere un suono.
Arrivati all’infermeria, la responsabile fece un impacco freddo e lo mise sulla tempia di Artemis, che nel frattempo era diventata gonfia e livida. Il ragazzo strizzò gli occhi, meramente consapevole di quanto gli era accaduto. Poi la donna li congedò tutti per farlo riposare.
Hera però si oppose. –La prego, lo faccia restare- disse, spingendo in avanti Aporo.
La donna dovette provare compassione dell’espressione avvilita del ragazzino e acconsentì.
-Allora noi andiamo- disse Hera. Demete e Kirigakure uscirono, preoccupati, e lui li seguì, ma prima si rivolse un’ultima volta ad Aporo.
-Ha bisogno di te. Soltanto di te. Per favore.- disse, quasi pregandolo.
E la porta si chiuse.
Aporo restò immobile, le labbra strette per non piangere di nuovo.
Perché Hera aveva ripetuto le parole di Arute? Lo faceva sentire stupido.
-Tadashi…- mormorò Arute, i suoi occhi vagavano verso il soffitto. –Ah, Hikaru.-
Per la sorpresa Hikaru lo guardò dritto in faccia, forse per la prima volta quella mattina: notò con orrore che il livido si era allargato, era una macchia violacea che si estendeva intorno a tutto l’occhio destro di Arute.
-Perché l’hai fatto? Avrei dovuto farmelo io, quel livido- sussurrò, avvilito.
-E se invece non ti avesse lasciato solo un livido? Se invece…- Arute rabbrividì e non completò la frase, ma il resto era abbastanza ovvio, aveva scampato per poco il trauma cranico.
-Non mi sarebbe importato…- continuò Hikaru, non riusciva a sostenere lo sguardo di Arute e perciò si mise a fissare il pavimento, mentre Arute il soffitto.
-Hikaru… tu mi piaci- disse all’improvviso il ragazzo, dal nulla.
Hikaru sbatté di poco le palpebre. –Non ho bisogno di sentirmelo dire, grazie- replicò acido.
-Vorrei sapere cosa ci trovi di tanto divertente- aggiunse poi, in un borbottio imbronciato.
Il viso di Arute rimase inespressivo per alcuni secondi, prima che la consapevolezza lo illuminasse. –Hikaru, ho detto davvero qualcosa del genere?- chiese.
-Cos’è, hai un calo di memoria?- replicò Hikaru arrabbiato, in condizioni normali l’avrebbe picchiato.
-Ti ricordi cose di secoli fa- borbottò Arute, non del tutto convinto, poi sospirò.
Il ragazzo cercò di issarsi sui gomiti, e dopo alcuni sforzi riuscì a mettersi seduto, con la schiena contro la parete. Era arrivato il momento di risolvere quella faccenda una volta per tutte…
Hikaru deglutì, l’impulso di scappare era forte, ma il ricordo delle parole di Hera lo trattenne.
-Hikaru, io ti odiavo.-
Il ragazzino sobbalzò e lo guardò stralunato, ma Artemis aveva il viso rivolto verso la maschera bianca che gli era stata messa ai piedi del letto.
-Provavo invidia nei tuoi confronti… perché tu sei sempre te stesso, in ogni situazione. Perché non hai paura di essere quello che sei…- continuò, amaro. –Invece, io sono una persona falsa, che fugge davanti alle difficoltà. Ti invidiavo al punto che mi eri insopportabile, ed è per questo che mi divertivo a prenderti in giro. Cercavo di ferirti, non lo nascondo.-
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Aporo fu certo che un sorriso stesse comparendo sulle labbra dell’altro ragazzo.
-Ma quella mattina sul tetto della scuola è cambiato tutto. Le tue parole mi hanno portato a pensare che forse c’era una possibilità di cambiare, che potevo desiderare di cambiare. Mi sono innamorato di quelle parole…- Arute alzò lo sguardo e finalmente lo guardò negli occhi.
-…e di te.-
Hikaru sentì il sangue salirgli al volto, sentendosi denudato da quel profondo blu. La mano di Arute aveva cercato la sua, senza prenderla ma solo sfiorandola, accarezzandola.
–Provo sentimenti fortemente contrastanti. Da un lato continuo ad invidiarti, dall’altro voglio proteggerti. Ti amo. Ti desidero a tal punto da farti del male, a volte… dovrei proteggerti anche da me stesso.- disse pensieroso, scuotendo leggermente il capo.
Il movimento gli procurò una fitta alla tempia, che lo costrinse a scivolare lungo il muro per appoggiarsi al cuscino. Gemette e chiuse gli occhi.
Hikaru strinse istintivamente le sue dita, e il gesto strappò un sorriso ad Arute.
Senza aprire gli occhi, attirò il ragazzino verso di sé e con la mano libera cercò il suo volto; le sue dita sfiorarono dolcemente il collo, poi la guancia e il naso e infine trovarono le labbra.
Quando Arute si avvicinò e lo baciò, Hikaru chiuse forte gli occhi e restò fermo.
Non era affatto una sensazione spiacevole, anzi.
Si rese conto che una parte di lui, chissà quale e quanto grande, era ancora attaccata ai suoi sentimenti per Arute. Ma un’altra parte ricordava con dolore le ferite del passato, e lo fece sciogliere in lacrime. –Non posso- sussurrò, staccandosi leggermente.
Arute lo guardò sorpreso e sinceramente addolorato.
-Ti ho ferito così tanto?- disse, ma Hikaru non era in grado di rispondergli.
Allora Arute sospirò e gli toccò il volto con entrambe le mani.
-Hikaru, guardami. Dimmi almeno che non mi odi. -
Dopo alcuni attimi di calma, Hikaru sbatté le palpebre facendo scivolare giù le lacrime.
-Non ti odio. - sussurrò, e Arute lo abbracciò.
Rimasero così per istanti interminabili, in cui entrambi sperarono che il tempo potesse fermarsi.
Ma era al di fuori del loro controllo.
-Vai in classe.- disse Arute, allontanando malvolentieri da sé Hikaru.
Il ragazzino annuì. Si alzò dal letto e raccolse la sua cartella da terra, quindi si avviò alla porta.
-Sicuro di star bene?- chiese, titubante.
Arute tirò un lungo respiro e tirò fuori il suo sorriso malizioso.
-Che carino, Hikaru, ti preoccupi di me, e non del voto rasoterra (alla tua altezza, quindi) che prenderai in matematica se non ascolti la spiegazione del prof?-
Hikaru avvampò di vergogna. - C-Come no! Cretino!- gridò e scappò fuori.
Arute mantenne il sorriso e rise finché i passi del ragazzino non mancarono del tutto nel corridoio.
Poi si rilassò e la sua risata si spense un po’ alla volta, diventando uno spettro.
Con una mano si sfiorò la fronte violacea e gonfia e sussultò di dolore, ma era un dolore a cui era abituato. “Quante volte lei mi ha lasciato questi segni sul volto…” pensò.
Tirò le ginocchia al petto, abbassò il capo e ve lo premette contro.
-…sono patetico.-
La maschera bianca, ora come sempre, rideva silenziosamente di lui.



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