12.00 a.m. , Timberline Knolls, 3 maggio 2010
Respira.
Ancora.
Non piangere.
Trattieniti.
Ma da che cazzo ti trattieni?!
Sei già finita in una clinica.
A sedici anni, a una settimana dal tuo compleanno, sei in una clinica. Che schifo che fai. Seduta sul letto con le poche forze che avevo mi tirai su, presi un respiro profondo e mi guardai intorno. Una stanza allegra infondo. Con delle tende di un colore bianco candido, un letto con la fodera verde e rossa e dei disegni attaccati al muro. Non sembrava un ospedale o un centro di riabilitazione, ma io sapevo che lo era. Era un posto per MALATI. E io? Io ero malata? No ero semplicemente me stessa.
Mi affacciai alla finestra. Un bellissimo giardino, che ispirava tranquillità, pieno di cascate e fiori. Ma che c’entrava quel giardino e questa camera allegra con tutto questo? Io che c’entravo con tutto questo? Con questo luogo pesante e per malati con problemi. Osservai i disegni attaccati al muro. Uno diceva ‘believe in you’ un altro ‘stay strong’ e un altro ancora ‘who says you’re not perfect?’, TUTTI. Che disegni stupidi, pensai. Avevo voglia di strapparli ma mi trattenei, d’altronde ero appena arrivata nella prigione. Si era quello che era infondo, una prigione.
Timberline Knolls si chiamava.
Il sito internet oltre a blablablare di cazzate varie diceva:
«Aiutiamo ogni donna a riscoprire e sfruttare i suoi punti di forza in cinque aspetti fondamentali di sé: mente, corpo, spirito, emozioni e relazioni sociali».
Ma che cazzo?
MENTE: non ero psicopatica.
CORPO: ok forse non mangiavo molto e dopo vomitavo ma stavo bene.
SPIRITO: sono credente e non ho mai ucciso nessuno, sono a posto col mio spirito.
EMOZIONI: sono personali no? Ecco quindi non capisco perché una ragazzina di 16 anni deve mettere a posto le sue emozioni.
RELAZIONI SOCIALI: ho qualche amica, sto bene con loro.
Cercando di non farmi prendere troppo dal panico mi avvicinai alla valigia per disfarla. La aprii. Vestiti, scarpe, pigiama, la solita roba. Poi c’era un ‘reparto’ nella mia valigia che in realtà conteneva cose che so che ci avrebbero sequestrato sicuro. Non potevamo tenerle, noi OSPITI. Venivamo trattati come malati, si. C’era lo shampoo, del balsamo, dei prodotti cosmetici, disinfettante, cerotti, medicine, delle forbicine e una lametta. Degli oggetti abbastanza normali, infondo. Ma non per noi. Ritenevano che potevamo farci del male e non dovevamo tenerli. No, non potevo farne a meno. Infatti li avrei nascosti dentro alla valigia. Improvvisamente non avevo più voglia di svuotare la valigia. Mi alzai di scatto e uscii dalla mia camera. Dovevo capire e vedere bene dove mi trovavo, quella che sarebbe stata, se cosi si può chiamare, la mia casa, per un po’ di mesi. Camminavo smarrita e in cerca di libertà per quei corridoi sconosciuti. La clinica sembrava cosi allegra. Mi avvicinai confusa a un’infermiera che stava pulendo. Le chiesi gentilmente il PERMESSO per uscire un po’, a prendere un’innocente boccata d’aria. La risposta fu: “dalle tre alle cinque vi è consentito uscire”. Libertà pari a zero. Feci una faccia delusa e mi riavviai verso il corridoio. La signora continuò a pulire, incurante. Avevamo degli orari, manco fossimo bambini dell’asilo. avevo 16 anni cazzo. Perché ero lì dentro? Ero disperata, un po’ come fuori di me. Camminavo velocemente attraverso quei corridoi bianchi mentre ripetevo a me stessa frasi del tipo ‘fatemi uscire’ ‘sono rinchiusa’ ‘sono in una prigione’ ‘non sono pazza’. Mentre qualche lacrima aveva iniziato a rigare il mio volto come faceva abitualmente finalmente vidi la mia camera. La 62. C’erano 90 stanze. 90 e più, donne e ragazze nella mia stessa situazione. Una tortura.
Aprii la porta della camera ma rimasi paralizzata sull’uscio. Mi asciugai velocemente le lacrime sul volto. Una ragazza mi dava le spalle davanti a me. Non avevo sbagliato camera, ne ero sicura. Stava sistemando la sua valigia, in modo svogliato, proprio affianco alla mia. Merda. Non avevo notato il secondo letto affianco al mio fino a quando la mora non si sedette esausta sul letto iniziando a fissarmi seria. Aveva un’aria disperata, confusa, stanca e allo stesso tempo frustrata. Era la mia fotocopia. Mi guardò in modo comprensivo accennando un mini sorriso. Posso giurare, ancora oggi, che nei suoi occhi vidi me stessa in quel momento.
Era come il mio specchio quella ragazza, solo che invece che riflettere il mio aspetto fisico, trasmetteva le mie emozioni, palesemente uguali alle sue. Capii che riusciva a comprendermi con uno sguardo. Sforzai inutilmente un sorriso. Entrando in camera e sedendomi stanca sul letto accennai debolmente:
‘ehi, io sono Jillian’.
Le porsi la mano per poi risedermi con aria confusa.
La ragazza si fece coraggio.
‘ciao sono Demi. A quanto pare, saremo compagne…di clinica’ disse abbassando lo sguardo.