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Autore: Carmen Black    11/03/2013    10 recensioni
Bella è una ragazza di quindici anni che si ritrova a dover traslocare in un altro paese a causa del lavoro del padre. L'ultimo saluto e le ultime lacrime le riserva al suo ragazzo Edward e a malincuore va via, lasciandolo alla sua vita.
Ma il destino non sempre è crudele e anche a distanza di tanti anni, quando sono diventati ormai un uomo e una donna adulti, li farà ritrovare...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black, Jasper Hale | Coppie: Bella/Edward
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Verde

 
Verde come la speranza, non sarei sopravvissuta senza.
Verde come i prati di primavera dove correvamo fino a sera.
Verde come la foglia intorno al mio collo, il ciondolo più bello del mondo.
 

 
 

 *12 anni dopo*

 
 
 
La commessa mi guardava con un sorriso di circostanza e le mani giunte dietro la schiena. Sembrava troppo giovane per dispensare dei consigli in quello speciale reparto d’abbigliamento.
Ignorai le sue occhiate di approvazione e mi trascinai fino a un grande specchio rettangolare che occupava un’intera parete della stanza. Ero a piedi nudi e la moquette grigia sotto i miei piedi era morbida e pulita.
C’erano diverse file di faretti incastonati nel soffitto e dei camerini grandi quasi quanto la mia camera da letto. Delle casse fissate in alto negli angoli dei muri, diffondevano delle canzoni soft e se proprio sembravi una cliente interessata all’acquisto di qualche abito, ti offrivano anche dei cioccolatini.
Io ne avevo mangiati già tre. Uno per ogni incontro.
«Bella, questo è incantevole», disse cauta la mia migliore amica Alice.
Mi strinsi appena nelle spalle e al riflesso dello specchio, notai il lungo strascico bianco abbellito con un ricamo fatto interamente a mano. E poi guardai il corpetto di tulle senza maniche che mi fasciava il mezzobusto e più giù, la gonna vaporosa a più strati che ricadeva pesante verso il basso. Mi sentivo una torta più che una sposa.
«Dalla tua faccia non sembri tanto convinta».
«Infatti», soffiai mettendomi i capelli dietro le orecchie.
Alice si addentrò di nuovo tra i tanti stand con caparbia determinazione. «Questo con delle paillettes? E questo? È carino, non ha nemmeno la gonna vaporosa!».
Gettai un’occhiata fugace alla commessa e anche se non lo dava a vedere, sapevo che mi stava maledicendo.
Era il terzo appuntamento quello e più vestiti nuziali misuravo e più avevo le idee confuse.
Eppure, quella era la boutique più importante della città, aveva centinaia di abiti in visione, più altrettanti da esaminare sui cataloghi.
«No Alice, non mi convincono… e si è fatto tardi».
Alle mie spalle, il traffico di New York scorreva rumoroso e indisturbato, riuscivo a vederne qualche traccia attraverso le tende bianche a soffietto che ricoprivano le vetrate.
«Forse è meglio prendere un altro appuntamento», continuai vagamente imbarazzata. Ovunque mi girassi vedevo abiti da cerimonia, veli, scarpe bianche ed io non riuscivo a trovarne uno adatto a me. Per fortuna mancavano ancora tre mesi al mio matrimonio.
Mi chiesi se Riley avesse già trovato il suo vestito da perfetto sposo e la risposta la sapevo già: sì. Anche se avevamo promesso di tenerci all’oscuro dei nostri progressi sui compiti che ci eravamo divisi, ero consapevole che lui avesse tutto sotto controllo, come sempre.
«Uff Bella, non resta che andare a cambiarti allora», affermò la mia amica scoraggiata. E così feci.
Mimai con la bocca, un mi dispiace alla commessa e poi scostai le tendine nere del camerino e con l’aiuto di Alice, mi tolsi quel coso di dosso. Mi chiesi se tutti quanti gli abiti da sposa fossero così pesanti, in tal caso come avrei dovuto sopportarlo per un giorno interno?
Soffocai un gemito al pensiero e poi indossai la mia divisa da lavoro: giacca e gonna nera, con camicetta bianca e scarpe col tacco.
Non erano proprio i miei abiti preferiti, ma dopo cinque anni di lavoro come addetta al reparto marketing di un’azienda pubblicitaria, ci avevo fatto l’abitudine. Forse però, visto che l’azienda in questione era andata ufficialmente in crisi, c’era la seria possibilità che dovessi cercarmi un altro lavoro. Beh, sarebbe stata una bella grana, visto l’imminente matrimonio con Riley, la casa da comprare e tutto il resto, ma il fatto di non indossare più quegli abiti da segretaria provocante, mi faceva piacere.
Afferrai la borsa e andai verso l’uscita, affiancata da Alice che trafficava col suo cellulare.
«Per giovedì prossimo, le va bene un altro appuntamento, signorina Swan?».
«Sì, sempre allo stesso orario», aggiunsi sconsolata. Le due ore di pausa che avevo per il pranzo le dovevo sprecare rinchiusa a scegliere l’abito per essere la sposa perfetta.
Io, Bella Swan, la sposa perfetta. Mi venne quasi da ridere. Io che inciampavo ogni dove, avevo gli occhi senza nessuna sfumatura, ero pure bassina. L’unica cosa perfetta di me era il ciondolo a forma di foglia che portavo al collo.
Una volta tornata in strada, mi sembrò di respirare meglio. I marciapiedi del centro erano affollati di gente che correva di qua e di là e il gradevole odore di hot dog arrivava da un carretto al margine della strada.
«Allora Bella, che ne dici di fare un riepilogo veloce delle cose che ci sono rimaste da fare?», mi chiese Alice, nascondendo un sorriso divertito con i capelli lunghi che danzavano con la corrente, provocata dalla velocità delle auto sulla strada vicina.
«Mi prendi in giro?».
«Sì», ammise mettendosi gli occhiali da sole.
Anche lei lavorava nella mia stessa azienda, si occupava del pacchetto clienti e di aggiornarli sulle nuove proposte pubblicitarie e sulle varie offerte. Ci conoscevamo dal liceo ed eravamo entrate subito in sintonia, era diversa dalle altre ragazze. E mentre chiunque vedeva in lei solo una persona fissata con lo shopping, io vedevo ben altro…
«Navigo in mezzo al mare… non trovo il vestito adatto, non trovo la torta adatta e neppure il fotografo, mentre Riley sicuramente ha già individuato il ristorante, ha abbozzato gli inviti e ha comprato il suo vestito».
Alice si strinse nelle spalle. «Non è successo niente di strano, tu non sei mai puntuale e non mi aspetto che lo diventi grazie al tuo matrimonio».
Grugnii e diedi un’occhiata al cellulare per vedere se qualcuno mi aveva cercato e non trovando nulla, lo riposi di nuovo. «A lavoro non faccio mai tardi».
«Solo quando sai che c’è il capo in giro».
Mi toccò il gomito ed io ridacchiai, quella piccola donnina mi conosceva più di quanto immaginassi.
«Comunque Bella, puoi contare su di me, per qualsiasi cosa ti serva», continuò con serietà. «Se vuoi, mi metto a fare anche qualche ricerca su internet sia per l’abito sia per la torta. Poi magari ne discutiamo davanti a una pizza».
«Ti ringrazio, ma non voglio portarti via del tempo che potresti passare in compagnia di Jasper. Ora state insieme, no?».
«Non proprio», mormorò nascondendo un po’ di tristezza. «Ancora non so bene che cosa siamo, lui non si pronuncia».
«Oh vedrai che lo farà, non si lascerà sfuggire una bellezza come te», ridacchiai per tirarla su di molare e a quanto pare ci riuscii.
Lei ci stava male per via del fatto che Jasper non si decideva a concretizzare il loro rapporto e aveva paura a fare il primo passo, temendo di rimanere delusa.
La sede dell’azienda per cui lavoravamo, si trovava in un grande edificio specchiato di trenta piani. Aveva un’ampia entrata girevole e gli interni erano sempre profumati di deodorante per gli ambienti. L’arredamento era minimalista, d’altronde era un’azienda giovane, non credo che superasse i quindici anni.
I colori dominanti erano il bianco e nero, superfici specchiate o laminate d’acciaio.
Kate, la segretaria, ci salutò strizzandoci un occhio mentre era impegnata a fare una sfilza di fotocopie dietro alla sua scrivania piena di scartoffie e moduli.
Schiacciai il bottone per richiamare l’ascensore, nel frattempo che altra gente si accalcava dietro di noi.
«Io per le cinque dovrei aver finito, tu Bella?».
«Lo spero, ho un po’ di lavoro arretrato e per il fine settimana dovrei mettermi in riga», dissi un po’ stanca. «Tra l’altro non so se Riley ha qualche programma per stasera».
«Ci sentiamo per sms in caso», terminò Alice, donandomi una pacca sul braccio e poi stanca di aspettare l’ascensore, sbuffò e salì per le scale.
Io, invece ero troppo pigra, inoltre il mio ufficio si trovava al dodicesimo piano; sarei arrivata senza fiato sin lassù e pure terribilmente sudata.
Le porte dell’ascensore si aprirono con un trillo, così mi affrettai a entrare. Era imbarazzante stare a così stretto contatto con tutti quegli sconosciuti e quella doveva essere una sensazione comune, perché tutti guardavano verso il basso, armeggiavano con cellulare o leggevano il giornale.
Quando arrivai al mio piano e le porte specchiate dell’ascensore si riaprirono, vidi subito la mia collega Leah intenta a importunare la macchinetta automatica del caffè.
«Che cosa ti ha fatto stavolta?», chiesi ridacchiando.
«Mi ha rubato i soldi, ci sta prendendo gusto!».
«Parlane col tecnico, dovrebbe venire in questi giorni».
Gli occhi dal taglio spigoloso della mia amica si illuminarono. «Quando Sam verrà, avrò altro da fare. Figurati se gli parlo di questo maledetto aggeggio!», esclamò tirandogli un calcio.
La macchinetta emise un brontolio sommesso e poi sbuffò dei rivoli di fumo denso da dove avrebbe dovuto scendere il caffè.
«A dopo Leah e cerca di non romperla del tutto».
Entrai nel mio ufficio e non appena vidi la pila di fogli che mi attendeva, mi venne l’angoscia. C’erano dei giorni in cui la mia mente si rifiutava di pensare, di ragionare e cercare strategie. Che peccato che nessuno potesse aiutarmi. Quasi quasi era meglio tornare da Leah e chiacchierare con lei. Purtroppo il mio senso del dovere mi impediva di tergiversare e trovare una via di fuga.
Mi sedetti sulla sedia girevole, armata di santa pazienza e salutai la fotografia dei miei genitori e quella di Riley che troneggiavano in un angolo della scrivania, poi mi misi a lavoro. Per fortuna non mi avevano fissato appuntamenti, almeno non avrei perso la concentrazione.
Il buio arrivò presto, così accesi la lampada e anche il riscaldamento. Legai i capelli in una coda e sorseggiai dell’acqua fresca a intervalli regolari, per evitare di cadere irrimediabilmente in un sonno profondo.
Quando finii e guardai l’orologio, sbarrai gli occhi, erano le cinque di sera, avevo finito prima del previsto! Forse avrei fatto ancora in tempo a raggiungere Alice. Afferrai il cellulare per mandarle un sms, ma qualcuno bussò alla porta.
«Avanti».
Leah si affacciò nel piccolo spiraglio aperto, i suoi capelli lisci come spaghetti precedettero il suo viso.
«C’è una riunione straordinaria, dobbiamo salire ai piani alti».
Espirai sonoramente, poggiandomi con la schiena contro la sedia girevole. «E io che pensavo di uscire prima stasera! Che cosa vorranno adesso?».
«Non chiederlo a me», grugnì. «Alza il tuo sederino e andiamo».
Indossai di nuovo la giacca del mio completo che avevo tolto per avere più libertà di movimento e raggiunsi la mia amica per niente contenta dell’imprevisto.
«Giustamente la riunione straordinaria non possono farla durante l’ora di lavoro, la fanno quando dobbiamo andare via. Maledetti sfondanti di soldi».
Trattenni una risata e agli specchi dell’ascensore mi diedi una sistemata ai capelli e al colletto della camicia. Avevo due occhiaie evidenti e le labbra un po’ screpolate, così me le leccai.
Quando arrivammo all’ultimo piano, il corridoio era affollato da dipendenti dell’azienda in attesa che le porte della sala riunioni si aprisse accogliendoli.
Vidi Alice da lontano che parlottava con Garrett, un suo collega, le feci un cenno con la mano per attirare la sua attenzione, ma non mi notò.
«Vieni, Bella».
Leah mi trascinò in mezzo alla gente incurante di qualche occhiataccia a cui rispondeva ammiccando seducente.
Le porte della sala si aprì durante il nostro tragittò e nonostante lo sgomitare di Leah, non riuscimmo ad accaparrarci gli ultimi posti, ritrovandoci in seconda fila.
«La sfortuna mi perseguita, dannazione», si lamentò.
Ci sedemmo mentre il vociare confuso pian piano si placava. C’era odore stantio lì dentro e anche di polvere. In totale la stanza contava duecento sedute, ma al momento dovevamo essere poco meno che cinquanta. Con i tagli che l’azienda aveva fatto, i tre quarti dei dipendenti avevano il contratto part-time quindi lavoravano solo al mattino, quando c’era più bisogno.
Di fronte a noi c’era un soppalco di legno scuro ricoperto da moquette verde. C’era anche un leggio che non veniva usato quasi mai e una fila di faretti lasciati spenti.
Cinque uomini vestiti elegantemente discutevano in un angolo, riconobbi subito il nostro capo dallo strano nome: Dimitri; gli altri invece erano sconosciuti, ma erano un team giovane, nessuno di loro doveva superare i trentacinque anni.
«Bella, c’è puzza di bruciato qui. Secondo me vogliono licenziarci tutti», sussurrò Leah guardando davanti a sé.
«Non essere sempre così pessimista, Leah».
Dimitri avanzò a passo sicuro verso il microfono, non aveva un solo capello fuoriposto, più volte avevo pensato che fossero incollati alla testa. I suoi piccoli occhi scuri vagarono fra di noi, prima di iniziare a parlare.
«Buonasera», iniziò toccandosi il doppiopetto della giacca. «Come ben sapete l’azienda non naviga in buone acque in questo periodo, d’altronde non siamo gli unici, il paese è in crisi. A proposito di questo volevo dirvi che ci sono dei grossi cambiamenti in atto per noi tutti…».
Dimitri continuò a parlare, ma nella mia testa la sua voce si affievolì riducendosi a un debole rumore di fondo.
La mia attenzione era stata catturata da un uomo, uno di quelli all’angolo del soppalco, che si passava le dita in modo distratto fra i capelli rosso rame. Aveva un qualcosa di familiare. Tanto familiare. Dove l’avevo visto?
Mi maledii per aver dimenticato gli occhiali a casa, a quella distanza non riuscivo a distinguere bene i tratti del suo viso, notavo solo che era alto e dalla postura disinvolta.
Mi mordicchiai le labbra e vidi più volte la sua testa girarsi e osservare la folla, ma non riuscivo a inquadrare la direzione del suo sguardo, poteva anche essere che stesse guardando me.
«Quindi non mi dilungo oltre, da domani in poi oltre a me ci saranno altre persone e insieme dirigeremo l’azienda. Per le presentazioni ufficiali abbiamo deciso di posticiparle a domani, visto che è già tardi. Questo è quanto, grazie a tutti per l’attenzione e arrivederci», concluse Dimitri.
Il ronzio del microfono si spense e noi dipendenti ci avviammo verso l’uscita scambiandoci pareri a bassa voce. Leah ne stava dicendo di tutti i colori e blaterava su sottomissione, schiavitù, diritti delle donne e roba simile. Non le diedi peso perché bastava un solo cenno d’assenso a farle prendere coraggio e metter su un comitato di guerriglia contro i capi.
«A domani Bella, che Dio ce la mandi buona!».
«Buona serata Leah», ricambiai con un sorriso.
Tornai nel mio ufficio a prendere borsa e cappotto e spensi le luci.
Il corridoio era deserto, sembrava che tutti fossero scappati via a gambe levate, in lontananza sentivo solo il rumore dell’aspirapolvere, evidentemente c’era già l’impresa delle pulizie all’opera.
Tornai all’ascensore richiamandolo e nel frattempo guardai i miei piedi stretti nelle scarpe, Dio come mi facevano male, non vedevo l’ora di buttarle in un angolo e infilare le ciabatte.
L’ascensore arrivò ed io entrai sollevata, per fortuna non ci fu neppure bisogno di nascondermi la faccia, c’era solo una persona.
«Piano terra?».
«Sì grazie», dissi guardando il mio riflesso alle porte scorrevoli.
Vidi i numeri dei piani che lampeggiavano man mano che riscendevo a terra e sentii il mio stomaco brontolare. Avevo mangiato solo un toast a pranzo.
«Bella…».
Corrucciai le sopracciglia e mi girai verso quell’uomo che mi aveva appena chiamato per nome.
«Bella, sei tu?», ripeté con gli occhi azzurri indagatori.
«E tu chi…». Quello era l’uomo della sala riunioni, riconoscevo i suoi capelli e la sua postura.
Il fiato mi si bloccò in gola ed ebbi l’impressione che qualcosa mi scoppiasse nello stomaco. Mi dovetti premere la mano sul petto per paura che il cuore me lo perforasse.
«Edward…», mi tremarono le ginocchia. «Edward…sei tu?».
«Sì…», sussurrò appena. «Sono proprio io».
 
 
 
Angolino Autrice

Eccomi qui con il secondo capitolo :) Sono contentissima per il gradimento che ha ricevuto il primo capitolo essenso solo il prologo. Spero che anche questo secondo vi piaccia, ci stiamo appena addentrando nella storia e ci sono tante dinamiche che devono ancora venire fuori.
Alla prossima <3 <3 <3 ciao! :)
 

 
 
 

  
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