Buonasera!
Ecocci qua con il capitolo otto.
Fateci sapere!
Un iper bacio e grazie a chi recensisce sempre <3 (se volete i cuoricini anche voi, RECENSITE! ù_ù)
Un bacione,
Durrie e Donnie
Anelli di cipolla
Capitolo 8
Stavo arrancando sulle mura di Città
Alta, trascinando i piedi sotto il peso della custodia rigida della mia
ghironda.
Sì, ho detto ghironda.
Esiste davvero, giuro, non è uno scherzo, al
massimo è una beffa del destino, di pessimo gusto aggiungerei.
Sin da quando eravamo
molto piccoli, tipo quattro o cinque anni, i nostri genitori avevano tanto voluto che io e i miei fratelli
imparassimo a suonare uno strumento musicale, per “coltivare il nostro spirito
artistico e sensibile” e tante cavolate immani sui generis. La scelta per me era
ricaduta su quella specie di coso, quella sottospecie di mandolino obeso senza
manico e a manovella, un fottuto aggeggio medievale che nessuno suona più da
secoli.
Perché chiamare la tua bambina Evelina e farle suonare una ghironda non
potrà che aiutarla a socializzare, giusto?
Così mentre Tosca e Gualtiero
iniziavano a strimpellare Mozart o Bach rispettivamente col violino e col corno
inglese io imparavo canti popolari irlandesi del tardo Duecento, con uno
strumento che in inglese ha l’affascinante nome di hurdy gurdy.
Cheppalle.
Mi tastai le tasche alla ricerca del
pacchetto di tabacco, delle cartine e dei filtri, quindi iniziai a rollarmi una
sigaretta mentre camminavo, destreggiandomi la tracolla della custodia. Chiusi
la cartina con una leggera leccata, pregustandone il sapore con punta della
lingua, e voilà, una sigaretta perfetta, pronta in meno di cinque minuti.
Avevo
proprio una bella mano per fare quei cosi, notai compiaciuta di me stessa.
Feci
scattare l’accendino, ma questo mi rispose con appena una scintilla deboluccia,
e non ci fu verso di tirargli fuori nemmeno una fiammella minuscola.
Lo scossi
più e più volte, inutilmente.
Morto.
Mugugnai un «Merde», gettandolo con violenza in un cestino lungo il marciapiede.
Misi via il
mio capolavoro d’artigianato malandrino nel profondo delle tasche,
inutilizzabile. Avevo seriamente bisogno di un po’ di tabacco per calmarmi
prima di passare un’ora e passa a sentirmi dire mi confondevo sempre con il ritmo
e che le mie dita non erano ancora abbastanza veloci nonostante fossero anni
che studiassi quello strumento. Quel vecchio demente del mio maestro ancora
credeva che a me importasse qualcosa della sua stupida stupida musica del cazzo.
Che illuso.
Mi guardai attorno per un po’, ma ovviamente in quel preciso
momento nessuno che si vedesse fumare nei paraggi, solo famigliole allegre,
coppiette insulse e jogger salutisti.
Rinunciai alla sigaretta e optai per una
cicca, ma non mi diede nemmeno lontanamente la stessa soddisfazione.
Quel giorno ero particolarmente scazzata,
persino per i miei standard, avevo l’umore sotto le scarpe, o meglio, sotto la suola degli
anfibiozzi zavorrati che lottavano per regalarmi preziosi centimetri in più
verso l’alto. Con quelli, diedi un calcio ad un provvidenziale sassolino, che
ruzzolò in strada, finendo in mezzo alle ruote di una macchina che passava di
lì.
La sera prima avevo litigato di nuovo
con la mia allegra famigliola, questa volta in merito a ciò che avrei dovuto
fare durante le vacanze di Pasqua.
Loro ovviamente avevano già programmato
tutto senza consultarmi e avevano deciso che mi avrebbero spedito, come tutti
gli anni da troppo tempo oramai, vicino a Yate, in una specie di pallosissimo
college cattolico femminile inglese per ragazze ricche, dove avrei dovuto
passare le mie due settimane di pausa dalla scuola a sbattermi a studiare come
riuscire a chiedere al maggiordomo il the delle cinque con perfetto accento British, dividendo la camera con due
altre spocchiosissime ragazze straniere iperviziate e bulimiche.
No grazie.
Io
volevo solo stare tranquilla e dedicarmi ai miei hobby, magari dipingere un po’
all’aperto in giardino, staccare dallo stress del liceo, e soprattutto non
dover sottostare ai dettami delle suore che dirigevano il collegio.
Specialmente perché la badessa mi aveva preso in leggera antipatia da quando, durante il discorso alla cena di gala del
terzo anno che avevo passato lì, che verteva su i valori che tutte noi giovini
rampolle di famiglie importanti avremmo dovuto apprendere e trasmettere, avevo
detto –o per meglio dire urlato dall’altro capo della tavolata di circa cinquanta
persone– che se avessero voluto davvero insegnarci qualcosa di utile e di realmente
nobile invece di farci studiare araldica o imparare a ricamare e fare la
riverenza o cazzate del genere, avrebbero dovuto mandarci a sgobbare alla mensa
dei poveri della città vicina. Quella sarebbe stata una vera lezione di vita.
Avevo
anche visto degli sguardi comprensivi e anche ammirati tra le altre suore, ma
al solito nessuno aveva preso le mie parti.
Le altre ragazze avevano
ridacchiato, sadiche, nascondendo "educatamente" i ghigni divertiti dietro i
tovaglioli di lino ricamato. A causa si ciò, avevo passato il resto della “vacanza”
a pulire le scuderie ogni volta che avevo un momento libero, e la punizione ironicamente
era stata meglio della vacanza stessa: pulire le poste erano un’ottima
alternativa allo stare seduta in un angolo nella sala comune del dormitorio in silenzio, nel più totale
imbarazzo, mentre tutte le altre
spettegolavano su questa o quella cantante o attrice.
E poi i cavalli lì erano
proprio delle magnifiche bestie.
Ma tornando a noi.
Quando a cena avevo obbiettato che, cavolo, avrebbero almeno potuto chiedere il
mio parere prima di decidere per me, mia madre era saltata su blaterando
qualcosa rispetto del fatto che molte ragazze avrebbero ucciso per avere le
opportunità che avevo io, e che dovevo esser loro grata per tutto quello che mi
davano, e che dovevo un po’ imparare ad accettare di ubbidire a ciò che i miei
genitori mi dicevano o non sarei andata molto in là nella vita, e che per una
volta potevo semplicemente dire “grazie” e chinare il capo.
Anche se mi sfugge quale sia il tipo di ragazza che ucciderebbe per imparare a suonare la ghironda.
Tosca era già
tornata da qualche giorno al suo appartamento a Venezia, così nessuno aveva
ovviamente preso le mie parti.
Non ne potevo più di quelle situazioni, io ormai
stavo letteralmente contando i giorni che mi separavano dalla maggiore età. Non
vedevo l’ora di prendere e andarmene da quella gabbia dorata, per girare il
mondo in motoslitta o ritirarmi in un monastero sull’Himalaya, non avevo ancora
deciso bene.
Ok, ammetto che sono un po’ tanto ipocrita, che ho sempre avuto tutto e non mi
è mai andato bene niente, però mi è sempre mancata la cosa più importante.
Che
tutt’oggi non ho ancora capito cosa sia, credo sia uno di quei nomi astratti
che la gente insiste ad usare per parlare di sentimenti troppo profondi per
essere espressi a parole.
Mi sentivo (e alla fin fine ero) solo una piccola macchia di sporco sullo specchio lucidissimo della mia famiglia,
un’incrostazione fastidiosa sulla loro patina di perfezione.
Sì,
Tosca mi voleva bene, ma istintivamente finiva per stare sempre coi suoi
simili, e non gliene facevo una colpa: nemmeno io avrei voluto stare con me
stessa, spesso.
In ogni caso non le volevo male né la biasimavo, da lei non
avrei potuto pretendere di più.
Specie negli ultimi tempi. Nonostante la storia
dell’università e tutto, mi ero sentita sempre più legata a lei, e avevo capito
che avrei dovuto approfittare prima della sua candida presenza, invece di
accorgermene quando lei ormai non c’era più sempre per me.
Perché mi sveglio
sempre troppo tardi? Forse se mi fossi rapportata a lei (e di conseguenza alla
mia famiglia) in modo diverso ora sarei una persona totalmente differente, chi
lo sa, magari sarei stata una persona felice…
Escludendo futili speculazioni, unica
compagna fissa di tutta la mia vita, sempre fedele, è stata la Rabbia.
Quella
vecchia amica che mi prendeva per mano e finiva sempre per risucchiarmi
nel suo
allettante, oscuro abbraccio di tenebra. A volte m’immaginavo di
riuscire a
vederla, di poterle dare un corpo, e la sua figura coincideva sempre
con la mia,
solo in una versione senza colori e volumi, se non un rosso sanguigno e
travolgente nelle iridi che ardevano come le fiamme dell’inferno,
da cui molto
probabilmente proveniva la Rabbia stessa. Quando piangevo mi sembrava
di sentire la sua risata
riecheggiare nel mio stesso grido. Ogni lacrima che versavo, per lei
era fonte
di gioia assoluta, eppure non riuscivo a dirle mai addio. La sua
presenza e forza spesso era l’unica cosa alla quale potevo
appoggiarmi, per cui mi ero da tempo arresa
alla sua silenziosa compagnia, sentirla agitarsi nel mio petto ormai
era una
vecchia abitudine.
Fanculo, avevo davvero bisogno di una
sigaretta, e subito.
Purtroppo intanto ero arrivata sotto la casa del maestro.
Dlin dlan dlon. Pure il campanello che faceva la scala fino al Mi doveva
avere, quel vecchio del cazzo.
Il riflesso nel vetro opaco della porta mi
restituì una ragazza accigliata, arruffata, pallida e stanca. Scostai il ciuffo
ondulato dagli occhi con la mano libera. Avevo i capelli troppo lunghi,
era un bel po’ che non li tagliavo, e mi sembrava che fossero cresciuti ad una
velocità assurda, ma non me ne importava più di tanto, anche se c’era una netta
ricrescita bionda che spiccava come un faro alla base.
Erano poche le cose di
cui m’importava davvero, ultimamente.
Un clack secco e la porta finalmente si aprì, così
salii i pochi gradini e tirai dritta per il corridoio, infilandomi nella
laboratorio del vecchio liutaio.
Qualunque superficie disponibile era completamente
occupata e coperta da una quantità di oggetti a dir poco assurda: spartiti,
strumenti per intagliare, casse di risonanza da finire, bei pannelli di legno
appena sbozzati, violini finiti appesi con amorevole cura alle pareti. Mi feci
largo tra un contrabbasso a cui mancava solo la laccatura e uno sgabello, per
arrivare alla piccola porta celeste che dava sulla camera in cui il vecchio
insegnava da anni le basi della sua arte a viziatissimi bambini con le dita
grasse.
E a me, che mi ero convinta di non rientrare nella categoria
sopracitata.
Finché fossi stata minorenne, i miei mi
avrebbero obbligato ad andare da lui tutte le settimane, ogni martedì e giovedì
per circa due o tre ore. Altro motivo più che valido per desiderare con sempre più forza
il mio diciottesimo compleanno.
Se il laboratorio era un caos totale
e poco illuminato, la sala delle prove metteva quasi ansia per quanto era
spoglia e perfetta. Era una stanza a forma di ferro di cavallo e con le pareti di
legno leggero, ricoperte di drappeggi,
per favorire l’acustica. Il lato piano si schiudeva con un’ampia vetrata, che
si affacciava su un bellissimo panorama di Città Bassa, che appariva ora
avvolta in una nebbia leggera. Il pavimento era in moquette verde acqua, c’era un
pianoforte in un angolo, e due sgabelli, di cui uno occupato dal culo rachitico
del mio insegnante.
«Sei in ritardo, come al solito.»
Non
c’era rimprovero, solo un sottile divertimento sotto quelle sopracciglia
scarmigliate.
«No Lucio, sono in orario, come al
solito. Sono le 16 spaccate.»
«Ma io ti avevo detto 15:45 settimana
scorsa, sai?», ridacchiò.
Odiavo quel giochino.
Ogni volta,
ogni santa lezione mi diceva che avevo sbagliato orario, e da piccola tipo le
prime due volte ci ero anche cascata, mi ero sentita in supercolpa e gli avevo
persino chiesto scusa, ma erano già anni che non sprecavo più nemmeno energie per
controbattere.
Assentii senza dire una parola,
giusto per dargli il solito contentino.
Mi sorrise sornione, incoraggiandomi
con la mano verso la custodia, quindi tirai fuori la ghironda e, sulle note
inadeguatamente gioiose di una ballata di tanto tempo fa, iniziai le mie due
ore d’inferno bisettimanale.
***
«Evelina, concentrati. Dopo il
ritornello, cosa devi fare?»
«Uhm, continuare a girare la cavolo
di manovella e suonare altre note a caso?»
«Sempre acida, neh, la ragazza?»,
sorrise guardandomi dall’alto in basso, paternalmente. «Ora riprendi dall’inizio,
salta le battute di pausa, voglio sentire bene che fai vibrare quegli acuti
come sai fare tu, dacci dentro col polso che male non ti fai.»
«’mkay.»
Aveva ragione, ce la potevo benissimo
fare, quell’inno di guerra dell’anno mille era nelle mie corde. Normalmente,
l’avrei eseguito tutto senza problemi, se solo fossi riuscita a fare calma nel
mio cervello in tempesta, ero solo troppo terribilmente incacchiata col mondo in
generale per riuscire a metterci la concentrazione necessaria.
Inspira, espira.
Metti la cera, togli
la cera. Dai che ce la fai, dai che ce la fai.
L’hai suonata a casa e ti veniva, ora
devi solo dire alle mani di rifare esattamente come ieri.
Se arrivi dritta fino
alla fine, te ne puoi tornare a casa.
Corrucciata, riprovai per la
centesima volta il brano, le dita che scorrevano velocissime sulla tastiera in
ebano e amaranto. Ok Eve, ce la stai facendo. Arriva alla fine e per oggi avrai
finito, non dimenticartelo.
All’improvviso, sentii come uno
schiocco, come quello che fa una corda tesa che alla fine cede sotto la forza
che la tira, e un gran calore mi pervase le mani.
Chiusi gli occhi e m’isolai da ogni
cosa a parte la musica, dimenticai il mondo, c’era solo il suono.
Stavo andando davvero alla grande, sentivo
il ritmo che mi cresceva nelle vene, seguendo i miei battiti impazziti. La canzone
era pulsante, celtica, sapeva di boschi che probabilmente non c’erano più.
Sapeva di battaglia, di rabbia, di vittoria, della terra inzuppata del sangue
dei nemici.
Decisi di abbandonarmi alle note, agli arpeggi delicati e alla
musica stessa.
Stavo volando nella canzone, ne ero
parte, al punto che non distinguevo più chi stava suonando cosa. Rabbia si agitò nel
profondo del mio essere, tendendosi e avviluppandosi alle immagini che io
stessa andavo evocando. Iniziai ad imprimere una rotazione più forte, seguendo
l’allegro con brio. Il ritmo cresceva
e cresceva, finché non raggiunsi il culmine.
Ero così ipnotizzata dalla mia
stessa musica che stavo grondando di sudore dall’emozione, una gocciolina solitaria
mi solcò la tempia, finendo sulla tastiera.
Arrivai al fortissimo delle ultime due note, poi silenzio, totale.
Una doppia
linea verticale a fine spartito, una barriera troppo scarna per contenere il
fiume di note che la precedeva.
Il calore alle mani se ne andò, rapido come se
n’era arrivato, lasciandomele ghiacciate e rigide. Mi riscossi,
stranita, e guardai il maestro, una muta domanda dipinta in faccia.
Mi fece un
cenno d’assenso, accompagnato da una pacca sulle spalle, quindi senza dire una
parola impacchettai le mie cose e mi alzai, intimorita dalla forza di ciò avevo
appena suonato, che era arrivato a farmi vibrare le corde dell’anima come poche
cose prima d’ora.
Ero già sulla porta, quando le sue
parole mi raggiunsero, fermandomi.
«Hai così tanto dentro, fallo uscire,
io sono qui per questo. La musica non ti può tradire, perché sei tu che la
governi, Evelina, sei tu che le dici cosa deve tirare fuori dal tuo io. La
musica è solo una forma d’espressione, e io so che tu hai tante cose da
esprimere, oggi mi sa che per la prima volta in tanto tempo, hai davvero
imparato qualcosa in una mia lezione. Hai imparato a fidarti delle tue
capacità, e non vale solo per la ghironda. Tu sei una che può fare di tutto,
Evelina»
La sua voce bassa e roca, calda, mi fece venire un principio di
groppo alla gola. Riuscivo a sentire la sua voce sorridere.
«Per la prossima volta sarebbe carino
che tu mi scrivessi una breve partitura, qualsiasi cosa tu voglia, così
iniziamo a lavorare sugli arrangiamenti timbrici. Ah, e dovresti proprio smettere
di fumare, vedo che ti manca un po’ il fiato e respiri male. Ci vediamo
settimana prossima, stessa ora.»
Gli davo ancora le spalle, ma seppi che mi
stava facendo l’occhiolino.
Intimorita, lasciai la casa sbattendo
la porta, non prima di aver approfittato di un piccolo cannello ossidrico, malamente
abbandonato su uno dei tavoli del laboratorio, per accendermi, finalmente, una meritata
sigaretta.
Il sole bassissimo all’orizzonte accendeva la nebbia che avvolgeva il
paesaggio sotto di me con mille sfumature rosse e arancioni, e un venticello
sottile spirava alle mie spalle, scombinandomi i capelli e sollevando gli
angoli del mio bel cappotto beige. Un grande senso di solitudine mi pervase.
Ora che avevo smesso di suonare mi sentivo sola, in quella città così più
grande di me. Il fumo che avevo in bocca veniva catturato dalla corrente
giocosa, volando giù dalle mura e si disperdeva nel nulla, unendosi allo
scarico delle automobili e al fumo dai comignoli, volteggiando senza sosta.
Vidi che il mio autobus era già lì alla fermata, così dopo una
leggera imprecazione affrettai il passo per attraversare la strada e
raggiungerlo prima che partisse.
Non avevo proprio voglia di aspettare in
pensilina al freddo.
Così corsi, agitando la mano per
richiamare l’attenzione dell’autista.
Nulla avrebbe potuto prepararmi a quel terribile rumore di freni.