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Autore: Il_Club_Delle_Felci    16/03/2013    2 recensioni
Lei è la classica pecora nera, lei è la non voluta.
Lei è una potenza gelida e distruttiva, lei è la non amata.
Lei è sarcasmo allo stato puro, lei è solo una ragazza.
Lei ha un nome, si chiama Eve.
Ma questa lei ha anche dei sentimenti.
E, sorprendentemente, saranno degli anelli di cipolla a costringerla a rivelarli.
Muovendosi in una città fuori dal tempo, riuscirà Eve a scoprire il suo destino trovando finalmente il suo passato?
FF scritta a 4 mani :3
Ci troverete anche l'ammhore e parecchio sarcasmo.
Durrie e Donnie
(questa storia è stata pubblicata su altri siti con account diversi, quindi NON DENUNCIATECI PER PLAGIO, siamo sempre noi due!)
OGNI 100 VISUALIZZAZIONI VI PERVERRA' UN SIMPATICO VIDEO IN CUI DAREMO SFOGO ALLA NOSTRA DEFICIENZA BALLANDO PER IL VOSTRO DILETTO.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Anelli di cipolla 8

Buonasera!
Ecocci qua con il capitolo otto.
Fateci sapere!
Un iper bacio e grazie a chi recensisce sempre <3 (se volete i cuoricini anche voi, RECENSITE! ù_ù)
Un bacione,
Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 8

Stavo arrancando sulle mura di Città Alta, trascinando i piedi sotto il peso della custodia rigida della mia ghironda.
Sì, ho detto ghironda.
Esiste davvero, giuro, non è uno scherzo, al massimo è una beffa del destino, di pessimo gusto aggiungerei.
Sin da quando eravamo molto piccoli, tipo quattro o cinque anni, i nostri genitori avevano tanto voluto che io e i miei fratelli imparassimo a suonare uno strumento musicale, per “coltivare il nostro spirito artistico e sensibile” e tante cavolate immani sui generis. La scelta per me era ricaduta su quella specie di coso, quella sottospecie di mandolino obeso senza manico e a manovella, un fottuto aggeggio medievale che nessuno suona più da secoli.
Perché chiamare la tua bambina Evelina e farle suonare una ghironda non potrà che aiutarla a socializzare, giusto?
Così mentre Tosca e Gualtiero iniziavano a strimpellare Mozart o Bach rispettivamente col violino e col corno inglese io imparavo canti popolari irlandesi del tardo Duecento, con uno strumento che in inglese ha l’affascinante nome di hurdy gurdy.
Cheppalle.
Mi tastai le tasche alla ricerca del pacchetto di tabacco, delle cartine e dei filtri, quindi iniziai a rollarmi una sigaretta mentre camminavo, destreggiandomi la tracolla della custodia. Chiusi la cartina con una leggera leccata, pregustandone il sapore con punta della lingua, e voilà, una sigaretta perfetta, pronta in meno di cinque minuti.
Avevo proprio una bella mano per fare quei cosi, notai compiaciuta di me stessa.
Feci scattare l’accendino, ma questo mi rispose con appena una scintilla deboluccia, e non ci fu verso di tirargli fuori nemmeno una fiammella minuscola.
Lo scossi più e più volte, inutilmente.
Morto.
Mugugnai un «Merde», gettandolo con violenza in un cestino lungo il marciapiede.
Misi via il mio capolavoro d’artigianato malandrino nel profondo delle tasche, inutilizzabile. Avevo seriamente bisogno di un po’ di tabacco per calmarmi prima di passare un’ora e passa a sentirmi dire mi confondevo sempre con il ritmo e che le mie dita non erano ancora abbastanza veloci nonostante fossero anni che studiassi quello strumento. Quel vecchio demente del mio maestro ancora credeva che a me importasse qualcosa della sua stupida stupida musica del cazzo.
Che illuso.
Mi guardai attorno per un po’, ma ovviamente in quel preciso momento nessuno che si vedesse fumare nei paraggi, solo famigliole allegre, coppiette insulse e jogger salutisti.
Rinunciai alla sigaretta e optai per una cicca, ma non mi diede nemmeno lontanamente la stessa soddisfazione.
Quel giorno ero particolarmente scazzata, persino per i miei standard, avevo l’umore sotto le scarpe, o meglio, sotto la suola degli anfibiozzi zavorrati che lottavano per regalarmi preziosi centimetri in più verso l’alto. Con quelli, diedi un calcio ad un provvidenziale sassolino, che ruzzolò in strada, finendo in mezzo alle ruote di una macchina che passava di lì.

La sera prima avevo litigato di nuovo con la mia allegra famigliola, questa volta in merito a ciò che avrei dovuto fare durante le vacanze di Pasqua.
Loro ovviamente avevano già programmato tutto senza consultarmi e avevano deciso che mi avrebbero spedito, come tutti gli anni da troppo tempo oramai, vicino a Yate, in una specie di pallosissimo college cattolico femminile inglese per ragazze ricche, dove avrei dovuto passare le mie due settimane di pausa dalla scuola a sbattermi a studiare come riuscire a chiedere al maggiordomo il the delle cinque con perfetto accento British, dividendo la camera con due altre spocchiosissime ragazze straniere iperviziate e bulimiche.
No grazie.
Io volevo solo stare tranquilla e dedicarmi ai miei hobby, magari dipingere un po’ all’aperto in giardino, staccare dallo stress del liceo, e soprattutto non dover sottostare ai dettami delle suore che dirigevano il collegio. Specialmente perché la badessa mi aveva preso in leggera antipatia da quando, durante il discorso alla cena di gala del terzo anno che avevo passato lì, che verteva su i valori che tutte noi giovini rampolle di famiglie importanti avremmo dovuto apprendere e trasmettere, avevo detto –o per meglio dire urlato dall’altro capo della tavolata di circa cinquanta persone– che se avessero voluto davvero insegnarci qualcosa di utile e di realmente nobile invece di farci studiare araldica o imparare a ricamare e fare la riverenza o cazzate del genere, avrebbero dovuto mandarci a sgobbare alla mensa dei poveri della città vicina. Quella sarebbe stata una vera lezione di vita.
Avevo anche visto degli sguardi comprensivi e anche ammirati tra le altre suore, ma al solito nessuno aveva preso le mie parti.
Le altre ragazze avevano ridacchiato, sadiche, nascondendo "educatamente" i ghigni divertiti dietro i tovaglioli di lino ricamato. A causa si ciò, avevo passato il resto della “vacanza” a pulire le scuderie ogni volta che avevo un momento libero, e la punizione ironicamente era stata meglio della vacanza stessa: pulire le poste erano un’ottima alternativa allo stare seduta in un angolo
nella sala comune del dormitorio in silenzio, nel più totale imbarazzo, mentre tutte le altre spettegolavano su questa o quella cantante o attrice.
E poi i cavalli lì erano proprio delle magnifiche bestie.

Ma tornando a noi.
Quando a cena avevo obbiettato che, cavolo, avrebbero almeno potuto chiedere il mio parere prima di decidere per me, mia madre era saltata su blaterando qualcosa rispetto del fatto che molte ragazze avrebbero ucciso per avere le opportunità che avevo io, e che dovevo esser loro grata per tutto quello che mi davano, e che dovevo un po’ imparare ad accettare di ubbidire a ciò che i miei genitori mi dicevano o non sarei andata molto in là nella vita, e che per una volta potevo semplicemente dire “grazie” e chinare il capo.
Anche se mi sfugge quale sia il tipo di ragazza che ucciderebbe per imparare a suonare la ghironda.
Tosca era già tornata da qualche giorno al suo appartamento a Venezia, così nessuno aveva ovviamente preso le mie parti.
Non ne potevo più di quelle situazioni, io ormai stavo letteralmente contando i giorni che mi separavano dalla maggiore età. Non vedevo l’ora di prendere e andarmene da quella gabbia dorata, per girare il mondo in motoslitta o ritirarmi in un monastero sull’Himalaya, non avevo ancora deciso bene.
Ok, ammetto che sono un po’ tanto ipocrita, che ho sempre avuto tutto e non mi è mai andato bene niente, però mi è sempre mancata la cosa più importante.
Che tutt’oggi non ho ancora capito cosa sia, credo sia uno di quei nomi astratti che la gente insiste ad usare per parlare di sentimenti troppo profondi per essere espressi a parole.
Mi sentivo (e alla fin fine ero) solo una piccola macchia di sporco sullo specchio lucidissimo della mia famiglia, un’incrostazione fastidiosa sulla loro patina di perfezione.
Sì, Tosca mi voleva bene, ma istintivamente finiva per stare sempre coi suoi simili, e non gliene facevo una colpa: nemmeno io avrei voluto stare con me stessa, spesso.
In ogni caso non le volevo male né la biasimavo, da lei non avrei potuto pretendere di più.
Specie negli ultimi tempi. Nonostante la storia dell’università e tutto, mi ero sentita sempre più legata a lei, e avevo capito che avrei dovuto approfittare prima della sua candida presenza, invece di accorgermene quando lei ormai non c’era più sempre per me.
Perché mi sveglio sempre troppo tardi? Forse se mi fossi rapportata a lei (e di conseguenza alla mia famiglia) in modo diverso ora sarei una persona totalmente differente, chi lo sa, magari sarei stata una persona felice…
Escludendo futili speculazioni, unica compagna fissa di tutta la mia vita, sempre fedele, è stata la Rabbia.
Quella vecchia amica che mi prendeva per mano e finiva sempre per risucchiarmi nel suo allettante, oscuro abbraccio di tenebra. A volte m’immaginavo di riuscire a vederla, di poterle dare un corpo, e la sua figura coincideva sempre con la mia, solo in una versione senza colori e volumi, se non un rosso sanguigno e travolgente nelle iridi che ardevano come le fiamme dell’inferno, da cui molto probabilmente proveniva la Rabbia stessa. Quando piangevo mi sembrava di sentire la sua risata riecheggiare nel mio stesso grido. Ogni lacrima che versavo, per lei era fonte di gioia assoluta, eppure non riuscivo a dirle mai addio. La sua presenza e forza spesso era l’unica cosa alla quale potevo appoggiarmi, per cui mi ero da tempo arresa alla sua silenziosa compagnia, sentirla agitarsi nel mio petto ormai era una vecchia abitudine.

Fanculo, avevo davvero bisogno di una sigaretta, e subito.

Purtroppo intanto ero arrivata sotto la casa del maestro.
Dlin dlan dlon.
Pure il campanello che faceva la scala fino al Mi doveva avere, quel vecchio del cazzo.
Il riflesso nel vetro opaco della porta mi restituì una ragazza accigliata, arruffata, pallida e stanca. Scostai il ciuffo ondulato dagli occhi con la mano libera. Avevo i capelli troppo lunghi, era un bel po’ che non li tagliavo, e mi sembrava che fossero cresciuti ad una velocità assurda, ma non me ne importava più di tanto, anche se c’era una netta ricrescita bionda che spiccava come un faro alla base.
Erano poche le cose di cui m’importava davvero, ultimamente.
Un clack  secco e la porta finalmente si aprì, così salii i pochi gradini e tirai dritta per il corridoio, infilandomi nella laboratorio del vecchio liutaio.
Qualunque superficie disponibile era completamente occupata e coperta da una quantità di oggetti a dir poco assurda: spartiti, strumenti per intagliare, casse di risonanza da finire, bei pannelli di legno appena sbozzati, violini finiti appesi con amorevole cura alle pareti. Mi feci largo tra un contrabbasso a cui mancava solo la laccatura e uno sgabello, per arrivare alla piccola porta celeste che dava sulla camera in cui il vecchio insegnava da anni le basi della sua arte a viziatissimi bambini con le dita grasse.
E a me, che mi ero convinta di non rientrare nella categoria sopracitata.
Finché fossi stata minorenne, i miei mi avrebbero obbligato ad andare da lui tutte le settimane, ogni martedì e giovedì per circa due o tre ore. Altro motivo più che valido per desiderare con sempre più forza il mio diciottesimo compleanno.
Se il laboratorio era un caos totale e poco illuminato, la sala delle prove metteva quasi ansia per quanto era spoglia e perfetta. Era una stanza a forma di ferro di cavallo e con le pareti di legno leggero,  ricoperte di drappeggi, per favorire l’acustica. Il lato piano si schiudeva con un’ampia vetrata, che si affacciava su un bellissimo panorama di Città Bassa, che appariva ora avvolta in una nebbia leggera. Il pavimento era in moquette verde acqua, c’era un pianoforte in un angolo, e due sgabelli, di cui uno occupato dal culo rachitico del mio insegnante.
«Sei in ritardo, come al solito.»
Non c’era rimprovero, solo un sottile divertimento sotto quelle sopracciglia scarmigliate.
«No Lucio, sono in orario, come al solito. Sono le 16 spaccate.»
«Ma io ti avevo detto 15:45 settimana scorsa, sai?», ridacchiò.

Odiavo quel giochino.
Ogni volta, ogni santa lezione mi diceva che avevo sbagliato orario, e da piccola tipo le prime due volte ci ero anche cascata, mi ero sentita in supercolpa e gli avevo persino chiesto scusa, ma erano già anni che non sprecavo più nemmeno energie per controbattere.
Assentii senza dire una parola, giusto per dargli il solito contentino.
Mi sorrise sornione, incoraggiandomi con la mano verso la custodia, quindi tirai fuori la ghironda e, sulle note inadeguatamente gioiose di una ballata di tanto tempo fa, iniziai le mie due ore d’inferno bisettimanale.

 

***

«Evelina, concentrati. Dopo il ritornello, cosa devi fare?»
«Uhm, continuare a girare la cavolo di manovella e suonare altre note a caso?»
«Sempre acida, neh, la ragazza?», sorrise guardandomi dall’alto in basso, paternalmente. «Ora riprendi dall’inizio, salta le battute di pausa, voglio sentire bene che fai vibrare quegli acuti come sai fare tu, dacci dentro col polso che male non ti fai.»
«’mkay.»
Aveva ragione, ce la potevo benissimo fare, quell’inno di guerra dell’anno mille era nelle mie corde. Normalmente, l’avrei eseguito tutto senza problemi, se solo fossi riuscita a fare calma nel mio cervello in tempesta, ero solo troppo terribilmente incacchiata col mondo in generale per riuscire a metterci la concentrazione necessaria.
Inspira, espira.
Metti la cera, togli la cera. Dai che ce la fai, dai che ce la fai.
L’hai suonata a casa e ti veniva, ora devi solo dire alle mani di rifare esattamente come ieri.
Se arrivi dritta fino alla fine, te ne puoi tornare a casa.
Corrucciata, riprovai per la centesima volta il brano, le dita che scorrevano velocissime sulla tastiera in ebano e amaranto.  Ok Eve, ce la stai facendo. Arriva alla fine e per oggi avrai finito, non dimenticartelo.
All’improvviso, sentii come uno schiocco, come quello che fa una corda tesa che alla fine cede sotto la forza che la tira, e un gran calore mi pervase le mani.
Chiusi gli occhi e m’isolai da ogni cosa a parte la musica, dimenticai il mondo, c’era solo il suono.
Stavo andando davvero alla grande, sentivo il ritmo che mi cresceva nelle vene, seguendo i miei battiti impazziti. La canzone era pulsante, celtica, sapeva di boschi che probabilmente non c’erano più.
Sapeva di battaglia, di rabbia, di vittoria, della terra inzuppata del sangue dei nemici.
Decisi di abbandonarmi alle note, agli arpeggi delicati e alla musica stessa.
Stavo volando nella canzone, ne ero parte, al punto che non distinguevo più chi stava suonando cosa. Rabbia si agitò nel profondo del mio essere, tendendosi e avviluppandosi alle immagini che io stessa andavo evocando. Iniziai ad imprimere una rotazione più forte, seguendo l’allegro con brio. Il ritmo cresceva e cresceva, finché non raggiunsi il culmine.
Ero così ipnotizzata dalla mia stessa musica che stavo grondando di sudore dall’emozione, una gocciolina solitaria mi solcò la tempia, finendo sulla tastiera.
Arrivai al fortissimo delle ultime due note, poi silenzio, totale.
Una doppia linea verticale a fine spartito, una barriera troppo scarna per contenere il fiume di note che la precedeva.
Il calore alle mani se ne andò, rapido come se n’era arrivato, lasciandomele ghiacciate e rigide. Mi riscossi, stranita, e guardai il maestro, una muta domanda dipinta in faccia.
Mi fece un cenno d’assenso, accompagnato da una pacca sulle spalle, quindi senza dire una parola impacchettai le mie cose e mi alzai, intimorita dalla forza di ciò avevo appena suonato, che era arrivato a farmi vibrare le corde dell’anima come poche cose prima d’ora.
Ero già sulla porta, quando le sue parole mi raggiunsero, fermandomi.
«Hai così tanto dentro, fallo uscire, io sono qui per questo. La musica non ti può tradire, perché sei tu che la governi, Evelina, sei tu che le dici cosa deve tirare fuori dal tuo io. La musica è solo una forma d’espressione, e io so che tu hai tante cose da esprimere, oggi mi sa che per la prima volta in tanto tempo, hai davvero imparato qualcosa in una mia lezione. Hai imparato a fidarti delle tue capacità, e non vale solo per la ghironda. Tu sei una che può fare di tutto, Evelina»
La sua voce bassa e roca, calda, mi fece venire un principio di groppo alla gola. Riuscivo a sentire la sua voce sorridere.
«Per la prossima volta sarebbe carino che tu mi scrivessi una breve partitura, qualsiasi cosa tu voglia, così iniziamo a lavorare sugli arrangiamenti timbrici. Ah, e dovresti proprio smettere di fumare, vedo che ti manca un po’ il fiato e respiri male. Ci vediamo settimana prossima, stessa ora.»
Gli davo ancora le spalle, ma seppi che mi stava facendo l’occhiolino.
Intimorita, lasciai la casa sbattendo la porta, non prima di aver approfittato di un piccolo cannello ossidrico, malamente abbandonato su uno dei tavoli del laboratorio, per accendermi, finalmente, una meritata sigaretta.
Fuori mi aspettava un meraviglioso tramonto.
Il sole bassissimo all’orizzonte accendeva la nebbia che avvolgeva il paesaggio sotto di me con mille sfumature rosse e arancioni, e un venticello sottile spirava alle mie spalle, scombinandomi i capelli e sollevando gli angoli del mio bel cappotto beige. Un grande senso di solitudine mi pervase.
Ora che avevo smesso di suonare mi sentivo sola, in quella città così più grande di me. Il fumo che avevo in bocca veniva catturato dalla corrente giocosa, volando giù dalle mura e si disperdeva nel nulla, unendosi allo scarico delle automobili e al fumo dai comignoli, volteggiando senza sosta.
Vidi che il mio autobus era già lì alla fermata, così dopo una leggera imprecazione affrettai il passo per attraversare la strada e raggiungerlo prima che partisse.
Non avevo proprio voglia di aspettare in pensilina al freddo.
Così corsi, agitando la mano per richiamare l’attenzione dell’autista.

 

Nulla avrebbe potuto prepararmi a quel terribile rumore di freni.

 

  
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