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Autore: sleepingwithghosts    24/03/2013    1 recensioni
Raccolta di missing moment della mia long "In ruins".
Dal primo capitolo: "Tutto in me urlava "Seth, hai bisogno di Seth". E il punto era proprio che avevo bisogno di lui per sopravvivere. Per sopravvivere quando avevo le mani, i piedi, il corpo e l'anima freddi. Quando ero triste, quando ero euforica, quando cadevo e non riuscivo ad alzarmi. Lui era affianco a me, sempre, nonostante tutte le liti e gli insulti."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Hurt me and tell me you’re mine.

(In ruins – missing moment #2)

 



« Evie, amore, metti giù quella pistola, per favore? » disse Seth, la voce che gli tremava appena. Impugnai meglio l’arma per paura mi scivolasse dalle mani, o peggio, partisse un colpo

 

 

 Camminavamo tenendoci per mano – era stato lui, a stringermela, quando stavo per perdermi fra la folla – e guardando le bancarelle al lato della strada. Ce ne stavo in silenzio, a osservare intorno a noi abiti vintage e braccialetti fatti a mano, con la luce grigiastra del cielo a colpirci dritta in faccia.

Eravamo usciti di casa dopo che lui aveva proposto una passeggiata e io avevo alzato le spalle, in segno di assenso. Mi aveva dato un bacio veloce sulla guancia ed era sgusciato in bagno, a prepararsi, per poi lasciare il posto a me. Si sentiva nell’aria che qualcosa non andava, che eravamo sfiniti, ma non avevamo più nemmeno la forza per parlarne, quindi tacevamo. Dopo essermi lavata i denti e sistemata i capelli, entrai in camera – che in realtà era il salotto, dato che il nostro letto era anche il nostro divano, e nell’unico armadio della stanza c’erano vestiti e tazzine per la colazione – e mi svestii, sentendo il suo sguardo fisso sulla schiena. Indossai una gonna corta nera, che mi fasciava le cosce perché molto aderente, una sua maglia bianca con una stampa infilata dentro, il giubbino di pelle nera, e degli stivali che stavano larghi sulle caviglie, e una volta finito mi guardai allo specchio incrociando il suoi occhi. « Andiamo? ». Annuì soltanto, aprendomi la porta e seguendomi giù per le scale. Da quel momento non avevamo più aperto bocca, neanche per proferire qualche monosillabo.

« Mangiamo qualcosa? Hai fame? » chiese dopo un po’, indicandomi con la testa la vetrina di un bar nell’angolo non troppo affollato.

« Okay. »

Entrammo, sedendoci in un tavolino vuoto, e presi un cappuccino, sorvolando quando Seth disse che forse era il caso che mangiassi qualcosa con uno sguardo che di carino e dolce aveva ben poco. Appoggiando il bicchiere alle labbra, poco dopo, pensai che in quei momenti io e lui non ci amavamo per niente. Non poteva essere amore, quella cosa che c’era fra di noi. Non c’era nulla, nei nostri sguardi, nelle nostre parole dette a fatica e nei nostri movimenti, che avesse potuto suggerire a qualcuno quell’amore che provavamo l’una per l’altro. Ma forse, pensai, noi non ci amiamo nemmeno più. Lo pensavo spesso nei momenti successivi alle discussioni, o la notte quando non riuscivo a dormire, sentendo il suo braccio lascivo attorno alla mia vita, come a stringermi senza forza. Pensavo spesso che quello non poteva essere amore, perché mi faceva soffrire troppo e ci stava distruggendo lentamente. E io sapevo bene che tutto non era come le favole, me ne ero resa conto più o meno dieci anni prima, ma ancora un po’ ci speravo che le cose si sarebbero potute sistemare, almeno con Seth, che sapeva tutto di me; almeno con lui, che mi capiva, mi ascoltava e diceva di amarmi.

Il punto era che ormai si era stancato di ascoltarmi e amarmi pure lui, come avevano fatto tutti nella mia vita, e il mio progetto di salvarlo e cercare di sopravvivere stava lentamente naufragando nel mare delle delusioni che di giorno in giorno mi si allargava dentro.

« Hai detto che non hai fame, e va bene, ma almeno potresti bere quel caffè e non fare finta? » disse interrompendo il flusso dei miei pensieri. Alzai gli occhi e poi li riabbassai, continuando a giocare con la bevanda, lo stomaco chiuso. Lo sentii sbuffare sonoramente, ma mi imposi di non scattare, di non mettermi ad urlare e soprattutto di non piangere. « Lo so che sei arrabbiata con me, e ne hai tutte le ragioni, ma risolverò tutto, te lo prometto. »

Lo guardai, ripensando ai giorni precedenti. Una sera se ne era tornato a casa, mentre io studiavo accovacciata nel letto per il compito di fisica del giorno successivo, mordicchiando la penna con cui prendevo appunti facendo schemi poco comprensibili pure a me su un quadernino, con un sorriso sulle labbra che mi aveva stupido. « Che succede? » avevo chiesto senza nemmeno salutarlo.

Seth, ancora vicino alla porta, si avvicinò a me, abbassandomi sulle ginocchia per guardarmi meglio. « Ho trovato un lavoro. » Lo abbracciai soltanto, incrociando le braccia al suo collo e stringendolo a me. « Domani sera ho il primo turno di prova, poi vedranno se assumermi oppure no. » mi sussurrò in un orecchio.

« Dove? »

« In un locale, a portare bibite e cibo ai tavoli. » Con la consapevolezza che avrei dovuto stare da sola in quel letto aspettando con ansia il suo ritorno, gli lasciai un bacio sulla guancia, e lui mi disse solo « grazie ».

Avevo passato il resto della giornata a studiare, lui seduto vicino a me a leggere Gente di Dublino. Ogni tanto la sua mano si posava sulla mia pelle, e mi accarezzava. Ogni tanto mi attirava a sé per baciarmi e sorridere un po’.

Quando della fisica non ce la facevo proprio più, chiusi il libro e mi distesi affianco a lui, facendo aderire il suo fianco a me. Si voltò a guardarmi, con un sopracciglio alzato. « Se non prendi il massimo dei voti tu, dopo tutte queste ore di studio, non lo farà nessuno. » Sorrisi: la scuola era l’unica costante positiva della mia vita, e andava bene così. Avevo imparato a non ubriacarmi e a non sballarmi troppo prima dei compiti, per rimanere lucida e svolgerli a meglio, poi, tutti gli altri giorni mi limitavo a vegetare sui banchi di scuola, ascoltando quando ce la facevo e fingendo di ascoltare quando ero in qualche pianeta parallelo.

« Lo spero. »

« Vieni qui » disse posando il libro e avvicinandomi a sé, per baciarmi più intensamente di prima. Mi spostai, a cavalcioni su di lui, i pantaloncini corti del pigiama che si schiacciavano attorno alle cosce. Infilai le mani nei suoi capelli nello stesso momento in cui lui, con le sue, mi posizionava meglio su di sé, tenendomi per i fianchi. Si staccò dalle mie labbra, cominciando a lasciarmi dei baci soffici sul collo, sul mento, sulle guance, per poi scendere di nuovo, e dopo aver abbassato le coppe del reggiseno, lasciarmi un succhiotto appena sopra al seno. Nei suoi occhi, che mi capitava spesso di fermarmi ad osservare, mentre lui mi dava piacere, vedevo la passione che provava a toccarmi, il benessere. Non riuscivo a capire – o meglio, non me lo ricordavo – se nei suoi occhi ci fosse sempre stata quell’espressione. Non riuscivo a ricordare se quando ancora mi amava, avesse quello sguardo, o se nelle sue iridi ci fosse qualcosa di diverso. Un gemito che mi sfuggì dalle labbra premute sulla sua spalla, cacciò in fretta quel pensiero infelice.

Scesi più giù, prima sfilandogli la maglia e poi aprendogli ad uno ad uno i bottoni dei jeans, sentendo il suo respiro affannoso nelle orecchie. Alzò il bacino, che aderì con il mio provocandoci una scossa, per facilitarmi il compito di sfilargli i pantaloni. Poco dopo mi tolse la maglia del pigiama e mi sfilò il reggiseno, lasciandolo scivolare fra di noi.

Dopo quel giorni in libreria, quando ci eravamo detto che ci amavamo, avevo cercato di vedere il sesso con Seth in un altro modo dal sesso con gli altri ragazzi – o con mio padre. Mi ero imposta, inconsciamente, che con lui non era sesso, che con lui io facevo l’amore. Solo con lui. E lo dovevo ammettere, che era stato bello, per un po’, lasciarsi amare da lui. Perché sembrava sempre che il suo tocco non volesse violarmi, ma solo conoscermi. Perché sembrava sempre che il mio corpo, il modo in cui io lo facevo stare in quei momenti, gli procurassero gioia, e non solo piacere fisico. E allora sì, avevo pensato che con lui io facevo ogni volta l’amore, e non il sesso, anche quando in realtà l’unica cosa che facevamo era sbatterci in ogni superficie piana, ancora vestiti per metà, con la droga in corpo e i cervelli in un altro mondo.

Ricordai, mentre sentivo che Seth spostava la mia biancheria con una mano, quella volta in cui mi ero presa quell’infezione del diavolo. Per un periodo non eccessivamente lungo, ma nemmeno tanto breve, il medico mi aveva tassativamente proibito di fare sesso. Quello mi aveva inevitabilmente portato a dare di matto: ero arrivata a pensare che Seth mi tenesse con sé solo per sfogare i suoi bisogni di ragazzo ancora adolescente su di me. Si rivelò invece uno dei periodi più belli della nostra non-storia. Era sempre prudente con me, e stava sempre bene attento a non superare i limiti stabiliti dal medico e da quell’infezione. In quel periodo mi sentii amata da Seth come poi, non mi sentii più. E forse era solo che sembrava tutto più dolce e tenero, come se avessi una vita normale, e forse era che non si drogava per non eccedere, e forse erano solo tante piccole coincidenze, ma mi sentivo bene, con tutta quella dolcezza che mi dava.

In quel momento sul divano, mentre mi si sconnetteva il cervello nell’esatto istante in cui Seth infilava due dita dentro la mia eccitazione, sentivo che forse, fra di noi, ci sarebbe potuto essere ancora un po’ di quell’amore che continuavamo a sussurrarci nelle orecchie. Che noi, io diciassette anni, lui diciannove appena compiuti, non avevamo ancora distrutto le nostre vite del tutto, che c’era ancora un minimo di speranza per noi. Per il nostro amore malato, anche.

Mi lascia trasportare da Seth in un posto in cui nulla faceva più male, anche se sapevo bene che stavo mentendo, perché piansi le lacrime che mi stagnavano negli occhi da giorni quando oramai eravamo così uniti da apparire una cosa sola. Non capivo mai se lui se ne accorgeva, quando piangevo mentre facevamo l’amore, e spesso non capivo nemmeno perché piangevo, ma seppi comunque che quel pomeriggio, sul divano di casa nostra, quella che pagavamo con i soldi che riuscivo a guadagnare io, con quelli che Seth riusciva a racimolare in modi che non sapevo, e con quelli che ci passava suo fratello, quando ci beccava a mangiare cereali, sentì le mie lacrime bagnargli la spalla e colargli giù sulla schiena, perché rabbrividì e mi strinse più forte, dicendomi all’orecchio che mi amava, che mi amava, che mi amava, ripetendolo come un mantra mentre eravamo uno perso nell’altra.

Mi addormentai sfinita, risvegliandomi in piena notte in un letto vuoto se non di un biglietto “ Sono dovuto scappare. Torno presto. Ti amo, Seth “. E mi scese una lacrima, forse qualcuna in più di una, e mi riaddormentai con un gusto amaro sulle labbra e un peso sullo stomaco.

 

La sera successiva, quella in cui avrebbe provato il nuovo lavoro, mi lasciò seduta sul divano ad ascoltare un cd che aveva portato a casa il pomeriggio, dicendo che ci aveva masterizzato delle canzoni che mi sarebbero piaciute sicuramente. E io le ascoltai, le ascoltai sentendo ogni parola scagliarsi addosso alla mia pelle, ferirmi e portarmi sollievo contemporaneamente. Ma il dolore era troppo forte, e io non riuscivo a contenerlo. Chiusi gli occhi e ingoiai il groppo creatosi alla gola. Non devi tagliarti di nuovo, l’hai promesso, ricordi? Niente più segni freschi sulle cosce, sulle caviglie, sulle braccia. Gliel’hai promesso. E fu così che evitai di sentire davvero il dolore. Fu così che mi nascosi sotto le lenzuola fine tremando, e abbandonandomi alla stanchezza.

Ore dopo, al ritorno di Seth avrei sentito il rumore di un cassetto chiudersi, il materasso abbassarsi al mio fianco e delle labbra baciarmi le palpebre. « Mi dispiace, troverò qualcos’altro. » Puzzava così tanto d’alcol che continuai a far finta di dormire, perché non ce l’avrei fatta a sopportare niente quella sera, con il mare che mi stava dentro in tempesta, in burrasca, la marea alta, pronto a fuoriuscire, pronto a sommergermi.

Era così, che ci eravamo trovati in quel bar a guardarci e a non amarci. « Non sono arrabbiata, Seth. »

« Sì, certo, come no. »

« Sì, Seth, io non sono arrabbiata con te, sono delusa. Dovevi servire delle stupide bevande ai tavoli, come cazzo hai fatto a non farti assumere? »

Spostò lo sguardo al bicchiere, e dopo aver bevuto un sorso della birra che stringeva – erano le dieci di mattina, cristo – disse « Mi è sfuggito tutto di male, ho bevuto un po’ troppo con degli amici che mi erano venuti a trovare. »

« Tu non hai amici. » mi ritrovai a dire, con un tono strozzato. Poi mi resi conto di quali amici parlasse: quelli della stazione, quelli della droga. « Quegli amici, Seth? »

« Sì. »

Mi alzai, lasciando il cappuccino sul tavolo, e stringendomi le braccia al petto mentre correvo fuori dal locale. Sentii Seth dietro di me, che mi seguiva, ma fu subito fermato poiché non aveva ancora pagato il conto. Corsi velocemente, confondendomi fra la folla, prendendo la metro e, arrivata a casa sbattendo forte la porta dietro di me, gli occhi pieni di lacrime. Poi ricordai il rumore del cassetto aperto e chiuso da Seth durante la notte. Mi ricordai di quel particolare e lo aprì trovandoci dentro quello che non avrei mai pensato di trovare.

 

 

« Evie, amore, metti giù quella pistola, per favore? » disse Seth, la voce che gli tremava appena. Impugnai meglio l’arma per paura mi scivolasse dalle mani, o peggio, partisse un colpo.

Ma forse sarebbe stato giusto. Forse sarebbe stato giusto eliminare uno di quei problemi che mi stavano facendo impazzire.

« Mi metti voglia di morire, Seth. » glielo dissi così, con le lacrime in gola.

« Ti prego, parliamo. »

« Parlare? Non facciamo altro che parlare dalla mattina alla sera. Non facciamo altro che parlare di cazzate. »

Pensavo che quella cosa che vedevo nei suoi occhi fosse paura. Pensavo che sicuramente c’era anche nei miei occhi la stessa cosa strana. « Non mi ami più? »

Deglutii. « No, sei tu che non mi ami più. Sei tu quello che mi fa del male, che mi scopa come si fossi davvero una puttana, che tiene una pistola in casa per non si sa quale ragione, che si ubriaca mentre lavora e quel lavoro, di cui ha disperatamente bisogno, lo perde. Sei tu Seth, sei tu. »

« Stronzate! » urlò, e fece un passo verso di me. Impugnai più stretta l’arma, ormai ero sicura di avere dei segni rossi sulle mani. « Perché cazzo ti sei messa in testa che io non ti amo più, vuoi spiegarmelo? »

« Sei strafatto tutte le volte che mi tocchi. »

« Cazzate. »

« Sì, dico solo cazzate io, vero? Sono una pazza troia che dice solo stronzate, hai ragione tu! »

Mi si avvicinò, tanto che la pistola quasi gli toccava il petto. Rimase a guardarmi, silenzioso, il respiro accelerato. « Io ti amo, Evie. Ti amo come se fossi il mio ossigeno e nel mondo non ce ne fosse più nell’aria. Ti amo perché nonostante tutte le stronzate che faccio, sei ancora qui. Ti amo perché sei l’unica cosa che rimane, perché i miei genitori sono morti, di mio fratello non me ne frega un cazzo, degli amici nemmeno. Mi drogo perché soffro. Soffro a vedere che tu, con me, stai male. E lo so che è solo colpa mia, so che ti metto voglia di morire, ma se tu muori Evie, se tu non ci sei più a questo mondo, io vengo con te. Non aspetto altro, io non aspetto altro che rimanere sempre con te, senza tutto questo dolore. »

Le lacrime mi scesero dagli occhi, e fui costretta ad aprire un po’ la bocca per tornare a respirare. Seth si avvicinò e mi prese la pistola dalle mani, riponendola di nuovo nel cassetto alle mie spalle, per poi tornare davanti a me, gli occhi spaventati.

Ero sicura che sarei morta per quel dolore che sentivo premermi contro le ossa, riempirmi. Perché quando qualcosa comincia a fare così male non c’è niente da fare, non c’è più niente di vivo in te, non c’è più niente che abbia voglia di continuare a sperare che un giorno andrà tutto bene. Perdi la speranza perché ormai hai perso anche te. Ti sei persa e non riesci a trovarti, non riesci a trovarti da nessuna parte, anche se ti chiami, anche se ti cerchi in tutte quelle stanze oscure che hai nella mente, facendo un sospiro di sollievo vedendoti rannicchiata a tremare. Ma non ti trovi in nessuna stanza buia, non ti trovi proprio più.

Sentivo la fine di me e Seth ogni volta che i suoi occhi si posavano di me, sentivo franarmi dentro, sentivo che quelle sue mani che tanto amavo non sarebbero riuscite a salvarmi mai più.

Soprattutto, comunque, sentii la mia fine quando mi buttai fra le sue braccia, quell’oceano che avevo dentro che mi sommergeva, gli occhi sbarrati davanti a me, e le mie mani che cercavano le sue, perché si rifiutavano di smettere di sperare. Come quando stai annegando e il tuo corpo ti porta a respirare a pieni polmoni, per aiutarti, per salvarti, senza sapere che in realtà si sta uccidendo da solo.

 

 

 

 


Ispirazione che mi esce da tutti i pori.
Niente, non credo ci sia molto da dire, questo capitolo si commenta da solo. Fatemi sapere se siete ancora vivi da qualche parte, grazie. 
Love, Deborah.

  
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