Storie originali > Soprannaturale > Licantropi
Segui la storia  |       
Autore: Mary P_Stark    25/03/2013    6 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

9.

 
 
 
 


 

La riunione tra clan, che io avevo tanto temuto, si era finalmente conclusa.
Pur se avevo vissuto dei momenti di autentica paura – vedasi Alec e Gregory e il combattimento di Duncan –  era anche vero che avevo annoverato nuove amicizie nel mio carnet.
Potevo dire, con ragionevole margine di sicurezza, di avere dalla mia parte la maggioranza dei Fenrir della Gran Bretagna, il che non era poco.
Certo, restava l’incognita di Sebastian che, ancor prima del termine della riunione tra Clan, si era ritirato in buon ordine assieme ai suoi sottoposti, per fare ritorno all’Isola di Man.
Non aveva fatto alcun mistero di non approvare in alcun modo la mia presenza, non solo come wicca e Prima Lupa di Duncan, ma anche sul suolo inglese.
Questo mi aveva portato a chiedermi se, anche solo innavvertitamente, gli avessi fatto qualche sgarro ben prima di conoscerlo.
Non lo ricordavo affatto, né mi pareva che la mia famiglia umana potesse aver mai avuto a che fare con lui, ma non volli chiedergli se, per disgrazia, Patrick avesse per caso ucciso uno dei suoi.
Saperlo non mi avrebbe aiutato e, di certo, non avrebbe migliorato i rapporti con Sebastian.
Dubitavo fortemente che a lui sarebbero interessate le mie eventuali scuse, fosse stata quella la causa della sua irritazione nei miei confronti, perciò, preferendo evitare guai, non avevo approfondito il problema.
Forse, col tempo, se la sarebbe fatta passare.
Era passata a Napoleone…
Di comune accordo con Lance, Branson e Sarah, loro tornarono verso casa, in direzione di Matlock, mentre noi risalimmo l’isola per raggiungere Glasgow.
Quella era la tanto sospirata sorpresa messa in piedi da Duncan.
Di nascosto – e dimostrando una dolcezza che raramente sbandierava pubblicamente – si era messo in contatto con le mie vecchie amiche.
Dopo essersi assicurato della loro presenza in città per quel periodo, aveva contattato Frederick per chiedere ospitalità, e permettermi così di passare un po’ di tempo con loro.
Perciò, seguendo il clan di Glasgow con la Volvo V50 di Duncan – la mia Volkswagen Lupo (che fantasia, eh?) era rimasta a casa – ci dirigemmo verso la città che mi aveva ospitato per tre anni, e che aveva segnato in maniera indelebile la mia vita.
Quando Duncan mi aveva presa da parte per parlarmi di quella sorpresa, avevo strillato come una pazza e lo avevo abbracciato con foga, stampandogli in faccia una marea di baci tanto.
Alla fine, aveva dovuto allontanarmi a forza per poter finire di parlare.
Pur senza più soffocarlo con la mia gioia, avevo continuato a saltellare intorno a lui per tutta la durata del suo monologo, non stando più nella pelle all’idea di ritrovarmi di nuovo in mezzo a Elspeth e socie.
Certo, la mia vita a Matlock mi soddisfaceva.
Erika era la migliore amica che avrei potuto sperare di avere, Eliza e Morgan erano compagne di party notturni davvero inimitabili, ma mi mancava un po’ la mia vecchia vita.
Insomma, ero incontentabile.
Duncan aveva perciò pensato bene di dar libero sfogo alla mia incontentabilità, offrendomi questa vacanza a sorpresa in mezzo alle mie vecchie compagne di scuola.
Ovviamente, loro sapevano soltanto che io e Duncan ci eravamo conosciuti grazie ai buoni uffici di un gatto (Jasmine, di cui avevo mostrato loro le foto), che avevo portato dal veterinario (Duncan, per l’appunto).
Non sapevano nulla della mia esperienza pre e post-licantropo, né avrebbero mai potuto – e dovuto – conoscerla.
Era il prezzo da pagare per poter vivere con Duncan e tutto il mio branco, ed era un prezzo che pagavo volentieri, ma a volte mi pesava.
Non avrei comunque rovinato la mia vacanza a Glasgow con quei tristi pensieri. Mi sarei divertita e basta.
E avrei escogitato un sistema per ringraziare degnamente Duncan per il suo gesto.
Quando alla fine raggiungemmo Glasgow, era quasi mezzogiorno.
Frederick ci invitò a pranzo in casa sua, una bella villetta in stile Tudor situata nell’hinterland della città, circondata da un filare di pini.
All'interno, nell'ampio giardino erboso, sottili betulle e aiuole ricche di erica multicolore crescevano rigogliose.
Sul lato sud di quello splendido giardino, nascosto da una serie di paraventi in legno, sorgeva anche un angolo interamente dedicato ai giochi del piccolo Matthew.
Non appena parcheggiammo le auto nel cortile in selciato, scesi e presi un gran respiro, inalando dentro di me i profumi e gli odori familiari di quella parte di mondo.
Questi, andarono a solleticare nella mente i ricordi della mia vita precedente, quella della teen-ager e della studentessa modello.
I profumi dei fiori, mescolati alle esalazioni delle auto e dei gas delle fabbriche poco lontane, non sminuirono la mia gioia per quel ritorno inaspettato.
Era davvero strano tornare dopo tanto tempo e, soprattutto, così cambiata, ma ero certa che questo non sarebbe stato uno svantaggio, per me.
Convivere con il mio lupo non era più un problema da tempo.
Annullai dopo alcuni istanti di concentrazione quelle sensazioni sensoriali troppo violente, dopodiché mi volsi per prendere la mia valigia dal baule. A Duncan, domandai: “Come ti sei messo d’accordo, a proposito?”
“Le tue amiche ti aspettano in centro, per le tre del pomeriggio. Ho pensato di disertare, per oggi, e concedervi un po’ di tempo per chiacchierare in santa pace, senza l’assillo di un uomo alle spalle” mi spiegò, chiudendo il baule dell’auto prima di seguire i padroni di casa.
“Grazie” gli sorrisi.
Mi conosceva fin troppo bene, e sapeva quanto avessi bisogno di stare sola con loro.
Lui mi strizzò l’occhio, complice, prima di sospingermi verso la casa e sussurrare: “Mi ringrazierai più tardi.”
Annuii, già pregustando il modo in cui l’avrei ringraziato per quel favore e, curiosa, dedicai un’occhiata interessata alla casa di Fred e Becca.
Le pareti esterne, bianco latte, erano state tinteggiate di fresco, tanto che potevo ancora percepire il sentore della vernice.
Le lunghe travi trasversali – che percorrevano, incrociandosi, tutta la facciata della casa – erano di un caldo color mogano, su cui iniziavano a vedersi i primi segni delle intemperie e del sole.
Nei pressi della porta d’ingresso, in enormi vasi panciuti, due cespugli di rose rampicanti si avvolgevano a spirale attorno a un arco metallico, che fungeva da entrata sulla veranda, ricoperta di sottile zanzariera.
Sotto il portico, notai un dondolo, alcune sedie e un tavolini in vimini chiaro, oltre ad alcuni giocattoli sparsi a terra.
Ridacchiando, Becca esalò, come per scusarsi: “Si vede che Matt abita qui?”
“Direi di sì” annuii, dando un buffetto sulla guancia al piccolo, che ridacchiò, accucciandosi contro la spalla della madre.
“Fa il timido” sorrise adorante Becca, dandogli un bacio sui capelli ricci e scuri.
Era pazzesco pensare che Rebecca, a soli ventotto anni, fosse già riuscita ad avere un figlio.
Sapevo fin troppo bene quanto potesse essere tremendo, per un licantropo donna, portare avanti una gravidanza in giovane età, e questo la diceva lunga su quanto fosse forte e potente Becca.
Nel vederla coccolare il figlio, però, non si sarebbe mai detto.
 Sorrisi deliziata nell’osservarli e, quando finalmente entrammo in casa, dovetti stupirmi ulteriormente.
Se, all’esterno, la casa appariva tradizionale e dai tratti antiquati, l’interno era l’esatto opposto.
I mobili erano moderni e dalle linee minimaliste, squadrati e caratterizzati da tinte chiare, che andavano dal grigio ghiaccio al lavanda pallido, il tutto interamente immerso in un enorme open-space bianco panna.
L’unico accenno di separazione era dato da un piccolo muretto di mattoncini faccia a vista, che divideva la cucina in acciaio cromato dal resto della zona giorno.
Al termine di un breve corridoio, una scala a vista in legno chiaro, ricoperta da tappetini damascati, portava al piano superiore e alle camere da letto.
Duncan salì assieme a Fred, lasciandomi in compagnia di Becca e Matthew, perché dessi un’occhiata al resto dell’abitazione.
Becca posò a terra il piccolo, dove cominciò a trotterellare un po’ instabile sul pesante tappeto dinanzi ai lunghissimi divani di pelle color lavanda chiaro.
Con un sorriso cordiale, Becca mi domandò: “Posso offrirti qualcosa da bere, mentre metto a scaldare il pranzo?”
“No, grazie. Sono a posto. Piuttosto, posso aiutarti in qualcosa?” replicai, seguendola in cucina.
“Se vuoi” ammiccò, indicandomi un cassetto. “Lì c’è il necessario per apparecchiare” poi, alzando la voce, aggiunse: “Matt, cosa vuoi da mangiare?”
“’Izza!” strillò per diretta conseguenza il bambino, lanciando poi alte risate.
Risi divertita, commentando: “E’ piccolo, ma si fa intendere.”
“Ci ha sorpresi tutti. A nove mesi se n’è uscito indicando Fred, dicendo ripetutamente ‘upo’, ‘upo’, ‘upo’. Ci abbiamo messo un po’ per capire che stava parlando di Fred in forma di lupo” sorrise Becca, lanciando uno sguardo orgoglioso al figlio che, in quel momento, stava cercando di tirare a terra uno dei cuscini del divano.
“Scommetto che Fred sarà stato orgogliosissimo di lui” sorrisi, immaginandomi la scena.
Annuendo, Becca commentò: “Ha pianto come un bambino.”
Dal piano superiore, Fred replicò piccato: “Ti ho sentito, Becca! Sai che non è assolutamente vero!”
Scoppiammo a ridere entrambe e Matt, vedendoci così allegre, si unì alla risata prima di riuscire nel suo intento.
Con un tonfo sul tappeto e ricoperto dal pesante cuscino, rise ancora più forte e Becca, scuotendo indolente il capo, decretò: “E’ proprio il dio della distruzione.”

***

La Willow Tea Room era esattamente come la ricordavo.
Gli specchi alle pareti decorati in stile liberty, le tinte tenui delle sue pareti, le sue stranissime lampade metalliche, che penzolavano insicure dal soffitto, i piccoli tavoli bianchi.
Non avevamo mai voluto salire al piano superiore, dove l’ambiente era diverso – molto più spartano e standardizzato – , perché ci saremmo perse lo spettacolo offerto dalle persone in passeggiata lungo la via.
Ci eravamo sempre accaparrate un tavolo al piano terra, sbirciando divertite in direzione della porta a vetri, chiedendoci chi sarebbe entrato e cosa avrebbe ordinato.
E, nel frattempo, avevamo speso ore a chiacchierare del nostro futuro, ammirandoci negli specchi che decoravano l’ambiente e chiedendoci scioccamente quale fosse, di volta in volta, l’acconciatura migliore o l’abbigliamento perfetto.
Sembrava essere passato un secolo. Eppure, quelle chiacchiere allegre e spensierate risalivano solo a un anno e mezzo prima.
A volte mi sentivo vecchia di decenni, specialmente quando i problemi del branco mi facevano dimenticare i miei vent’anni.
Quando, però, entrai nella Tea Room, oltrepassando l’arcata della porta, mi parve di tornare ai tempi della scuola, quasi non avessi mai abbandonato Glasgow.
Laggiù, in un angolo illuminato dai lampadari squadrati di metallo, sostenuti da robusti fili appesi al soffitto, stavano Elspeth, Maggie e Nancy.
Il quartetto era di nuovo assieme. Eravamo di nuovo pronte per far danni.
Sorrisi spontaneamente nel vederle e, dopo averle raggiunte, mi piegai per baciarle e stringerle in un abbraccio rapido quanto stritolante, pregandole nel contempo di non alzarsi.
Se mi fossi lasciata andare a un vero abbraccio orsesco, sarei scoppiata in lacrime.
Non volevo passare mezz’ora del nostro tempo assieme a asciugarmi gli occhi, dopo un attacco di sentimentalismo spicciolo.
Volevo godermi ogni attimo, ogni respiro assieme a loro, poiché sapevo quanto di rado avremmo potuto vederci, nei prossimi anni.
La cameriera raccolse le nostre ordinazioni – the alla menta per tutte, il nostro marchio di fabbrica, accompagnato da dolcetti al pistacchio – lasciandoci poi la privacy necessaria per riappropriarci del tempo passato lontane.
“Beh, che dire…” esordì Elspeth, lo sguardo brillante e felice “… sei splendida. L’aria del sud ti fa bene. Oppure è solo Duncan, chissà.”
“Concordo con Ellie. Ma speravamo di vederlo” precisò Maggie, storcendo appena la bocca generosa in una buffa smorfia.
“Ce lo vuoi tenere nascosto ancora per molto?” chiese a quel punto Nancy, intrecciando le braccia sotto il seno generoso.
Risi sollevata, riconoscendo in quei commenti classici le mie vecchie amiche di un tempo e, sospirando felice, esalai: “Non sapete quanto mi siete mancate, ragazze.”
“E tu manchi a noi” dissero in coro, sorridendomi generosamente.
“Ma non è un buon motivo per tener segregato Duncan!” obiettò poi Nancy, ghignando.
Ghignando, le strinsi affettuosamente una mano per un momento, prima di dire: “Prometto che domani sera verrà anche lui”
“Lo spero bene!” esclamò Elspeth, sollevando l’indice come una maestrina intenta a spiegare a recalcitranti studentesse. “Non ho prenotato un tavolo in uno dei più bei pub di Glasgow, per niente!”
Sollevando le mani in segno di resa, le spiegai: “Proprio in questo momento l’amica che ci ospita sta preparando i nostri costumi per la festa, per cui non preoccuparti.”
“E tu l’hai lasciato alle cure di un’altra donna? Ma non ti ho insegnato niente, tesoro?” protestò Nancy, scuotendo il capo con aria falsamente contrariata. “Questo è un errore gravissimo!”
Sollevai ironica un sopracciglio, replicando: “E’ sposata e con un figlio, e suo marito è presente. Che vuoi che facciano? Un ménage à trois?”
Nancy sgranò gli occhi, sentendomi parlare a quel modo e, portandosi le mani alle guance con aria fintamente inorridita, esclamò: “Oh, Dio! Ma cosa è successo alla mia amica Brie!? Lei neppure conosceva l’espressione ‘ménage à trois’!”
La fissai malamente – mi prendeva per scema? – e replicai abbastanza duramente: “Non sono nata ieri, e so perfettamente cos’è.”
“L’hai provato?” chiese allora Nancy, facendosi subito molto interessata.
Elspeth e Maggie scoppiarono a ridere di gusto mentre io, scuotendo il capo esasperata e passandomi una mano sul viso, ribattei con un grugnito: “Ma che ti salta in mente?”
Brontolando a sua volta, Nancy sbottò: “Mi metti addosso una gola assurda, e poi te ne esci con una frase così?”
Ridacchiai di fronte al suo sguardo falsamente adirato e celiai: “Non sei davvero cambiata, Nancy.”
“E perché dovrei?” ghignò per contro, dandomi un pizzicotto affettuoso su una mano. “Gli uomini sono un piacere. Se non li sfrutti, che piacere è?”
“No comment” decretò Elspeth, sollevando le mani per chiedere pietà.
“Mi dissocio completamente da ciò che ha detto” disse a sua volta Maggie, ridacchiando. “Non voglio essere scambiata per una mangia uomini.”
“Non sapete neppure di cosa state parlando, verginelle sante” sbuffò Nancy, sollevando nel contempo un sopracciglio con fare da cospiratore, nel guardare me. “Brie, invece, sa di cosa parlo.”
Arrossii leggermente – neppure con loro avrei ammesso quanto fosse piacevole stare con Duncan anche dal punto di vista fisico – e dichiarai lapidaria: “Non parlo in pubblico di certe cose.”
“Allora è bravo” ridacchiò a quel punto Nancy, scrutandomi con occhi curiosi e pieni di malizia.
“E da cosa lo deduci?” replicai serafica, cercando di contenere il mio imbarazzo.
“Dal rossore e dagli occhi. Hanno tante stelline, sai?” sghignazzò Nancy, mentre la cameriera ci consegnava le tazze per il the, oltre a un vassoio colmo di biscottini a forma di mezze lune, ricoperti di polvere di pistacchio.
“Sei matta come un cavallo, lasciatelo dire” risi nervosamente, afferrando in fretta un biscotto per infilarmelo in bocca.
Il sapore dolceamaro del pistacchio esplose sulle mie papille gustative, riempiendomi il palato di sapori deliziosi, mentre il biscotto – che si sciolse nella mia bocca come neve al sole – scivolò in gola, lasciandomi un piacevole aroma a ricordo del suo morbido passaggio.
Sospirai estasiata, chiudendo un momento gli occhi per approfondire il piacere di quegli istanti, prima di sussurrare: “Davvero squisito.”
“Mai vista una persona godersi tanto un singolo biscotto” chiosò Nancy, assaggiando il suo prima di accompagnarlo con un sorso di the fumante.
Sorrisi senza dire nulla, non potendo spiegare loro il motivo delle mie reazioni ai sapori o agli odori.
Da quando ero diventata un licantropo, tutto aveva assunto dei contorni e delle forme nuove, per me.
Anche ciò che, fino al giorno prima, avevo considerato insignificante poiché, visto con gli occhi di un lupo mannaro, era mutato in qualcosa di completamente nuovo e inaspettato.
Cibo compreso.
Mangiare, era diventata quasi una questione di Stato, almeno nei primi mesi dopo la mutazione.
Avevo passato intere settimane a mangiare qualsiasi cosa con un’attenzione e una meticolosità quasi ridicola.
Gordon aveva finito con il soprannominarmi Chef Ramsay1, tanto mi ero fissata con la scelta degli abbinamenti di sapori e odori.
Duncan aveva assistito al tutto con indulgenza spiegandomi che, per una neofita, era perfettamente normale provare quelle sensazioni così soverchianti.
Finché quella smania di provare ogni cosa non si era esaurita, mi ero sentita vagamente idiota.
Ora riuscivo a convivere meglio con quella parte di me ma, in ogni caso, percepire con così tanta precisione i sapori, attraverso i sensi sovrasviluppati, mi procurava ancora un piacere assurdo, ed era difficile dissimularlo.
Specialmente, quando ero in compagnia di persone con cui mi sentivo a mio agio.
Sorrisi, fingendo fosse tutto normale, e bevvi il mio the ma, quando risollevai gli occhi, mi ritrovai addosso lo sguardo curioso di Elspeth.
Quasi in trance, stava scrutando la mano che sorreggeva la tazza.
Incuriosita, la fissai a mia volta, prima di ricordare cosa vi fosse di particolare in quella mano.
Sorpresa, mi chiesi il perché dell’interesse quasi morboso che leggevo nello sguardo di Elspeth.
Duncan, durante la cerimonia ufficiale che si era svolta al Vigrond per riconoscermi come nuova Prima Lupa del clan, mi aveva fatto dono di un anello d’oro molto particolare.
Era un cimelio vecchio di secoli, ed era appartenuto ai suoi avi da tempi immemori, fin da quando il primo Fenrir era apparso nella sua famiglia.
Una testa di lupo in oro brunito adornava ora il mio anulare e, incastonati nei suoi occhi aperti, due piccole giade splendevano calde sotto le luci delle lampade, al punto da renderli quasi vivi.
Solitamente, non vi facevo caso – dopo i primi giorni, era diventato quasi un tutt’uno con me, tanto che a volte dimenticavo anche di averlo sempre al dito – ma, sotto lo sguardo interessato di Elspeth, mi ritrovai a scrutare attenta quel capolavoro di artigianato antico.
Dubbiosa, chiesi alla mia amica: “Ti piace?”
Elspeth si riscosse alla mia domanda, quasi si fosse addormentata per alcuni attimi in contemplazione dell’anello.
Maggie e Nancy che, fino a quel momento, avevano scherzato sulla mia ritrosia a parlare di Duncan, si ammutolirono per scrutare la nostra comune amica.
Amica che, ritrovandosi tre paia d’occhi addosso, divenne paonazza e, ridacchiando, si passò una mano tra i folti capelli castano scuri, esalando: “Scusate! Penso di essere andata in oca.”
“Ce ne siamo accorte!” esclamammo quasi all’unisono, mettendoci a ridere con lei.
Elspeth si grattò nervosamente il cuoio capelluto, apparendo veramente imbarazzata per quel suo strano comportamento – che in lei era diventato quasi una prassi, da quando ci eravamo conosciute.
Pur trovando la faccenda divertente, mi domandai turbata cosa avesse visto, nel mio anello, di così interessante. O preoccupante.
Sperai ardentemente non fosse un oggetto appartenente a riti esoterici, o vecchi credi pagani – Ellie era un’esperta in quel genere di cose – perché non avrei assolutamente saputo cosa dirle, per giustificarne la presenza al mio dito.
E sperai ardentemente che Duncan non mi avesse cacciata in un guaio, donandomi quell’anello. Perché non mi ero informata meglio sulla sua storia?!
Che domande.
Perché ero troppo impegnata a godermi il regalo, per pensarci.
Per ogni evenienza, afferrai la tazza con la mano destra e posai casualmente la sinistra sulle gambe, così da nasconderla allo sguardo di Elspeth che, passato il momento di impasse, non cercò più con lo sguardo il mio anello e si dedicò con me e le altre a ben altri passatempi.
Meglio non parlare di cose che non potevo spiegare.

***

Sdraiata sul letto accanto a Duncan, che osservava assieme a me un film alla televisione – sia lodata la passione di Becca per la tecnologia – mi stiracchiai e gli chiesi: “Com’è andata la giornata, qui?”
“Tutto bene. Abbiamo fatto giocare Matt e controllato gli ultimi resoconti della polizia di Londra. Tabula rasa. Non hanno trovato nulla” mi spiegò Duncan, abbassando leggermente il volume.
Non volevamo disturbare Fred e Becca, pur sapendo che le pareti erano insonorizzate e, decisamente, Die Hard era un film piuttosto rumoroso.
“Non mi sorprende” sbuffai. “Probabilmente, era solo un pazzo scatenato che, dopo aver visto quanti licantropi lo stanno cercando, avrà pensato bene di nascondersi a vita. Ora che ci ha mobilitati tutti, non sarà così stupido da riprovarci, ti pare?”
“Lo spero” mormorò Duncan, volgendo un momento lo sguardo per scrutarmi in viso. “Ti sei divertita?”
“Sì. Anche se è stato strano non poter parlare apertamente con loro, come facevo un tempo” ammisi, giocherellando con il ciondolo che Duncan portava al collo.
Anch’io gli avevo regalato un monile in oro, quando ero diventata ufficialmente la sua compagna.
Primo, perché mi era parso assurdo che solo lui potesse regalarmi qualcosa, secondo, perché pensavo fosse carino che, con lui, ci fosse sempre una parte di me.
Duncan lo aveva trovato buffo, asserendo che ogni parte di me era sempre con lui, anche grazie al nostro legame di sangue ma, a ogni modo, era parso lieto del mio dono.
Aveva scrutato con piacere il piccolo lupo in oro, affisso su uno spicchio di luna in alabastro.
Con un gesto che a me era parso quasi un rito, lo aveva infilato in una cordella di cuoio e se l’era legato al collo, promettendomi che mai e poi mai lo avrebbe tolto.
Ora brillava solitario alla base della sua gola, pallido al confronto della sua pelle bronzea.
Socchiudendo gli occhi nell’ammirare le venature più scure dell’alabastro, sussurrai: “Ricordo ancora quando te lo regalai. Mi sentivo tremendamente in imbarazzo.”
“Tu hai la capacità di tramutare in una difficoltà anche il gesto più semplice” ridacchiò, baciandomi sul naso. “Ritieni di essere più debole, quando ammetti di amarmi?”
“No!” esclamai, anche se troppo in fretta, smentendomi immediatamente.
Lui rise, e replicò: “Ammetterai che entrambi siamo stati abbastanza male, quando io non ho accettato ciò che provavo per te.”
“Eccome!” asserii con veemenza.
“E questo non ci ha reso deboli?” replicò allora lui.
“Sì.”
Mugugnai a mezza voce, rammentando molto bene quel tremendo periodo passato lontano da lui e dal branco. Il cuore mi faceva male ogni volta che la mia mente tornava a quei pochi giorni di inferno in terra.
“Quindi non è stato meglio, quando ho finalmente capito ciò che dovevo fare?” sorrise poi Duncan.
“Tu hai sbagliato, ma sono io a sentirmi una stupida. C’è qualcosa che non quadra” brontolai, stringendomi a lui.
“E’ solo che continui a credere che, ponendo al di sopra di tutto le tue emozioni e il tuo cuore, fallirai. Ti sei abituata a contare solo su te stessa, a essere una muraglia invalicabile per difendere tuo fratello dal dolore, dopo che esso vi ha attaccato con così crudele ferocia, e ora è solo difficile sbarazzarsi di tutte quelle difese” mi spiegò quietamente, avvolgendomi con un braccio e sussurrando dolci parole d’amore tra i miei capelli, sparsi sul cuscino.
“Dovevo difenderlo. Finché c’erano papà e mamma sapevo che, nell’eventualità avessi avuto bisogno di qualche aiuto, loro ci sarebbero stati. Si fidavano di noi e delle nostre scelte, e ci hanno insegnato a prenderle, ma erano loro la nostra muraglia. Da quando sono scomparsi, ho cercato di esserlo per Gordon, ma ora è difficile capire fino a che punto devo spingermi prima di tirarmi indietro per lasciare che tu e gli altri facciate la vostra parte. E, soprattutto, è difficile rendermi conto che lui non ha più così bisogno del mio sostegno” ammisi controvoglia, sentendomi tremendamente a disagio.
Tutto stava cambiando così rapidamente, intorno a me. In un solo anno, il mio mondo si era completamente stravolto.
Avevo scoperto l’esistenza di esseri ancestrali, di poteri sconosciuti dentro di me, di un mondo che non avevo neppure sognato di conoscere.
Avevo dovuto fare i conti con nemici fin troppo vicini a me, e che avevano fatto del male a persone a me care.
Oltre a tutto ciò, ero cambiata io stessa, evolvendomi in qualcosa di inaspettato e che aveva portato anche la vita di mio fratello a mutare drasticamente.
E di questo, non sapevo se esserne o meno fiera.
Era dovuto maturare nell’arco di una sola estate, passando dall’adolescenza tranquilla e spensierata all’età adulta e a tutti i problemi ad essa legati.
Avevo dovuto osservarlo mentre abbandonava i tratti del bambino, che avevo conosciuto da una vita, per diventare un adulto dallo sguardo impenetrabile e i modi di una persona controllata e seriosa.
Non ero sicura che fosse questo ciò che avevo voluto per lui, e lasciare le redini della sua vita e smettere di guidarlo era dura, per me.
Mi sembrava quasi di non prendermi cura di lui.
“Smettila di tediarti. Non è più un bambino già da tempo. Sarai sempre sua sorella, anche se allenterai la presa, e lui avrà sempre bisogno di te e della tua presenza, anche se in modo diverso.”
“Sei sicuro?”
“Fidati di me.”
“Vorrei solo avergli potuto dare…”
“Basta!” mi rimproverò gentilmente, aggrottando impercettibilmente la fronte.
“Scusa. Mi sto comportando come una chioccia apprensiva” ammisi controvoglia, facendo la lingua.
“Solo come una brava sorella. Forse un po’ melodrammatica, ma una brava sorella.”
“Grazie.”
“Di nulla, principessa. Ora pensa solo a dormire. Domani abbiamo un po’ di impegni mannari, prima di poterci preparare per la festa al pub, per cui è meglio se ci svegliamo freschi e riposati.”
“Perché, tu vuoi dormire subito?” lo presi in giro.
“No”
Quello era parlare.



__________________________
1 Chef Ramsay: Per chi non lo conoscesse tramite il programma Hell's Kitchen, é un famoso chef britannico.

  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Licantropi / Vai alla pagina dell'autore: Mary P_Stark