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Autore: Vioccia    26/03/2013    1 recensioni
Accese la sigaretta assaporando il fumo, guardandolo uscire dalle sue narici ed insinuarsi nell’aria aperta della mattina, scomparendo. Diede altre due boccate, poi prese in mano la sigaretta e la osservò, mentre il fuoco sottile e luminoso bruciava la carta e il tabacco. Sotto alla terrazza, sulla strada, un ragazzino stava in piedi, fissandola insistentemente dal basso. Non l’aveva mai visto in giro. Era piuttosto esile, e magro. Non molto alto, probabilmente di appena una decina d’anni. Aveva i capelli a spazzola, biondi e brillanti, e mentre la fissava non mostrava una vera e propria espressione sul volto. Non sorrideva, e non era imbronciato. Sembrava quasi ipnotizzato, incantato a guardare la ragazza, allo stesso modo in cui la ragazza poco prima si era fatta catturare dalla sigaretta, che lentamente si consumava fra le sue dita.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La biblioteca era il luogo più inconcludente dell’universo. Anche per questo Elisa e Beatrice, intente a preparare gli esami estivi, non lasciavano passare una mattina senza andare lì a “studiare”. Quella mattina in particolare, Elisa non riusciva a non pensare ai brividi della sera precedente, alle risate e agli applausi. Leggeva le stesse frasi per svariati minuti, senza capirne il significato. Sottolineava a matita quelle con parole in grassetto, senza assimilare assolutamente nulla. «Odio questa materia». Beatrice alzò la testa dai libri, con sguardo interrogativo. Lei era sempre a suo agio, ovunque la mettessi. Doveva studiare? Studiava anche per delle ore. Doveva vedere un film? Non aveva fatto una piega nemmeno con la versione integrale di “Via col vento”. Aveva sonno? Una volta si era addormentata in piedi, appoggiata ad un albero. «Che materia è?». Elisa guardò per un secondo il libro, sconsolata. «Glottologia». «Che?!», Beatrice aveva esclamato con così tanto fervore da attirare gli sguardi del resto della saletta. Insomma, di quelli che a studiare ci stavano provando sul serio. Nell’istante seguente, la pancia di Elisa brontolò di fame così rumorosamente da far girare tutte le teste un’altra volta, stupite. Le due disgraziate risero. «Pausa?»
Appena uscite dalla biblioteca Beatrice disse: «Ti amo quando usi quella parola». Elisa sorrise e porse il volto al sole estivo, che quel giorno era a dir poco soffocante. Si sedettero al bar di fronte, due caffè macchiati e due brioche, come al solito. In silenzio, bevendo e mangiando, osservarono passare per la via gli elementi peggiori che Ravenna potesse offrire loro. Dolci vecchietti dalle movenze estremamente lente, signore di mezza età insaccate in vestiti decisamente troppo aderenti, bande di maschiacci preadolescenti urlanti e bestemmianti, ragazzine costrette in abiti, come dire, da donne di facili costumi.
«Ma le mutande ce le hanno almeno?», chiese Elisa ridendo. Beatrice sorrise rimproverandola: «Non fare la ravennate pettegola». Elisa alzò le sopracciglia: «Ma io sono una ravennate pettegola!»
«Che fai oggi?». Fece scorrere il dito sulla tazzina. «Pensavo che se voglio continuare a mangiare come una vacca senza ingrassare, devo iniziare a fare un po’ di tapis-roulant. Tra l’altro, è un po’ la metafora della mia vita: corro come una scema e resto sempre nello stesso punto ».
Naturalmente, Elisa era già consapevole del fatto che il suo rapporto con l’attività fisica, quel giorno e molti altri a venire, sarebbe rimasto mentale. Si era buttata sulla frase ad effetto solo per irritare Beatrice, che le tirò addosso due bustine di zucchero. «Idiota».
La mattinata proseguì in questo modo: tornarono in biblioteca, si sedettero, lasciarono passare indicativamente 17 minuti di “studio”, si alzarono, decisero di passare la giornata seguente al mare, e se ne andarono nelle rispettive case.

Elisa sentì l’aria della mattina, frizzante, prima che il sole si alzasse. Non aveva ancora aperto le palpebre al mondo, si limitava a girarsi e rigirarsi sul materasso, caldo della sua presenza. Quando constatò definitivamente che non sarebbe riuscita a riaddormentarsi, sollevò le spalle e guardò la sveglia: mancavano due ore prima che Beatrice passasse a prenderla. Sbuffò, consapevole che la carenza di sonno sarebbe tornata a farsi sentire in giornata. Si mise a sedere sul bordo del materasso. Sgranchì il collo, si prese la testa fra le mani e restò qualche secondo a fissare le curiose fantasie del tappeto. Da piccola riusciva a vederci le più disparate scene: mostri dalle fauci spalancate, fiori di forme improbabili, calderoni fumanti di sostanze misteriose. Ora vedeva solo un mucchio di ghirigori, comprati al mercato da sua madre e liberati dalla polvere che li impregnava circa una volta ogni mese e mezzo. Che tristezza sentirsi vecchi a vent’anni.
Uscì dalla camera e controllò se i suoi genitori fossero già al lavoro. Non un rumore uscì dalle stanze. Elisa si preparò una tazzina di caffè e recuperò dal doppio fondo del suo cassetto un pacchetto di sigarette accuratamente nascosto. Si piazzò in terrazza, seduta sulla sedia di vimini che suo nonno adorava, con i piedi prepotentemente poggiati sul tavolo. Bevve il caffè in un solo sorso, notando che riusciva finalmente a non contrarre il viso in una smorfia a causa della mancanza di zucchero. Da qualche mese, era l’unico accorgimento che aveva preso ai fini di iniziare una dieta. Accese la sigaretta assaporando il fumo, guardandolo uscire dalle sue narici ed insinuarsi nell’aria aperta della mattina, scomparendo. Diede altre due boccate, poi prese in mano la sigaretta e la osservò, mentre il fuoco sottile e luminoso bruciava la carta e il tabacco. Sotto alla terrazza, sulla strada, un ragazzino stava in piedi, fissandola insistentemente dal basso. Il primo pensiero di Elisa fu il rischio che fosse del quartiere, e che in qualche modo la voce del suo vizio si spargesse fino ai suoi genitori. Tuttavia, non l’aveva mai visto in giro. Era piuttosto esile, e magro. Non molto alto, probabilmente di appena una decina d’anni. Aveva i capelli a spazzola, biondi e brillanti, e mentre la fissava non mostrava una vera e propria espressione sul volto. Non sorrideva, e non era imbronciato. Sembrava quasi ipnotizzato, incantato a guardare la ragazza, allo stesso modo in cui la ragazza poco prima si era fatta catturare dalla sigaretta, che lentamente si consumava fra le sue dita. In quel momento il citofono squillò, rompendo violentemente quell’afoso incantesimo. Era Beatrice, in pauroso anticipo. «Io vorrei farmi una doccia» la avvertì Elisa. «Prima di andare al mare? Non ha molto senso…» replicò Beatrice, che subito dopo la guardò dall’alto in basso, inspirando rumorosamente. «In effetti puzzi un po’ di fumo». Elisa allargò le braccia, avviandosi al bagno. «Aspetta Eli,» Beatrice la fermò, «lasciami almeno le sigarette!» Elisa sorrise, scuotendo la testa. Uscì di nuovo in terrazza, indicò il pacchetto all’amica e le intimò di rimanere a fumare lì fuori, se non voleva essere vittima della sua furia omicida. Poi, prima di rientrare, diede un’occhiata alla strada. Il ragazzino era scomparso.
Probabilmente era questo che le impediva, con sua estrema felicità, di iniziare a fumare costantemente: non riusciva a sopportare di puzzare. La puzza di fumo la percepiva diversamente da qualsiasi altro cattivo odore. Era più pesante, malaticcia. Le faceva pensare allo smog, all’inquinamento, al tumore. Mentre si faceva la doccia, chiuse un attimo gli occhi, sentendo l’acqua scorrerle sul corpo. Pensò a chi potesse essere quel ragazzetto, se fosse figlio di nuovi vicini, se stesse gironzolando da solo lontano da casa, esposto ai pericoli della strada. Si riscosse immediatamente, passandosi entrambe le mani lungo il capo, fino al collo, scoperto dai capelli corti. Doveva andare al mare, non aveva voglia di pensare a quanti pedofili potessero esserci a Ravenna.
  
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