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Autore: vul95    03/04/2013    2 recensioni
[Questa fanfiction partecipa al Contest indetto da Zael (The Pridestalker) e Fay (Destroyed Fairy)]
[Two-shot| Inghilterra del XVIII secolo]
Una lettera è un messaggio intimo, un pezzo di vita che una persona desidera far conoscere a qualcun altro, uno scritto vero ed autentico in cui si profondono le proprie emozioni ed i propri sentimenti. Per scrivere una lettera ci vuole del tempo, e con una lettera si può dedicare questo tempo anche ad una persona lontana miglia. Con una lettera si rimane in contatto, e così facilmente.
Basta solo saper scrivere.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kurama Norihito, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Illiterate

Illiterate

How to write a letter

-2-

 

Gli anni passarono così, tranquillamente, e a me andava bene. Io e Masaki ci avvicinammo sempre di più, diventammo amici, cari amici. Cominciò ad assistere al mio “secondo lavoro” ad ogni momento libero che aveva, e con il tempo imparò a parlare meglio in inglese. Gli offrii un lavoro in tipografia, anche. Lui rifiutò. Non voleva dipendere da me più di quanto già non facesse. Gli proposi di insegnargli a leggere e scrivere. Rifiutò anche quello. Temeva che a quel modo il nostro rapporto si sarebbe rovinato, suppongo. Non me lo disse mai, io non indagai.

Mi feci un nome, io; lui continuò a cambiare lavoro a seconda delle necessità, e rimase sempre un’anima un po’ solitaria. Io ebbi dei figli; lui non si legò mai a nessuno oltre a me, e mai nel modo in cui si era legato ad A..

A. era una presenza perenne nella mia vita. Mi domandavo spesso chi fosse. Come fosse. Era bella? Aveva lunghi capelli biondi? E gli occhi scuri? Era curioso, perché non avevo idea di chi fosse ma conoscevo tutto di lei attraverso le sue lettere e gli sparuti racconti di Masaki.
Adorava i cavalli, ed i fiori. Il mare ed i libri. Non aveva un buon rapporto con suo padre ed amava Masaki così tanto, così profondamente, che leggere e scrivere le parole che si scambiavano mi annientava ogni volta. Imparai a dispiacermi con il mio amico per ogni cattiva notizia, a gioire per quelle buone. Ad attendere con trepidazione una nuova missiva, ad agitarmi per buttare giù una bella risposta. Mi emozionava così tanto essere silenzioso spettatore di quel sentimento, anche se non lo ammisi mai, non direttamente. Un po’ me ne vergognavo, forse. Mi affascinava, e non lo capivo appieno. Per quanto amassi mia moglie, il nostro rapporto era totalmente diverso da quello di Masaki ed A.. Loro vivevano lontani, ma il solo sapere che l’altro esisteva e viveva da qualche parte, seppur lontano da loro, li aiutava ad andare avanti, ed anzi alimentava il loro affetto.
Ogni due, tre anni, Masaki partiva per incontrarsi con lei, e stava via al massimo due mesi. Ne rientrava sempre più contento, sempre più provato. Ma il suo sentimento non si esauriva mai. Anzi, una volta, tornato da uno dei suoi viaggi (che pagava sempre a fatica con i soldi che guadagnava lui stesso), decise di mettersi a lavorare ancora di più, per racimolare maggior denaro. Pensai avesse messo incinta la sua compagna e che volesse darle un aiuto, in qualche modo. Ma non mi azzardai mai ad avanzare l’ipotesi ad alta voce.

Lo vedevo spegnersi lentamente per qualche periodo, per poi tirarsi improvvisamente su di morale, e poi di nuovo passare brutti momenti. E lui guardava me fare lo stesso.

Non avrei pensato, mai lo avrei immaginato, di poter avere un’amicizia così forte con qualcuno. Un’amicizia che stupiva anche me, che non mi spiegavo. Condividevamo tutto, anche la nostra semplice vita lì a Londra era qualcosa di cui rallegrarsi. Mia moglie lo adorava. I miei figli lo adoravano. Aveva sempre un sorriso per loro, anche se stava male. Aveva sempre un sorriso beffardo per me, sempre una presa in giro a fior di labbra per aiutarmi a superare i momenti di difficoltà.

Era una persona strana, indubbiamente. Un po’ infantile, sempre sulle sue.

Non mi disse mai “ti voglio bene” o “sono contento di averti conosciuto”. Nemmeno io lo feci mai. Non ce lo dicevamo. Lo sapevamo e basta, forse.

Nel 1719, a ventisei anni, riuscì a prendere in affitto uno stabile, dopo aver rifiutato per anni un mio aiuto economico. In periferia, si, ma era tutto suo, e ne era così felice. Ci era riuscito con le sue sole forze. Perché era forte, Masaki, anche se lui pensava il contrario. Aveva sempre dovuto vivere di stenti, strappare con i denti ciò che aveva potuto, e quella casa fu per lui come una sorta di certezza. La sua ancora. Mi disse che finalmente si sentiva parte di qualcosa, parte della città. Che stava raggiungendo me, che avrebbe potuto raggiungere A., forse, un giorno.

Mi accorsi che tutto il suo lavoro e la sua fatica lui li stava facendo per lei. Nonostante si odiasse per essere nato povero ed ignorante, stava dando l’anima per crescere, essere all’altezza della persona che amava. Anche se era impossibile, e lui lo sapeva, non avrebbe demorso. Lo conoscevo, ormai. E lo ammiravo, con tutto me stesso. In fondo a me, sapevo anche di invidiarlo, perché lui aveva trovato il coraggio di sfidare stesso, per tutta la vita.

Masaki scoppiava, di vita. Non stava mai fermo un attimo, e ricordo che amava farsi beffe di tutti, con quel suo ghignetto storto che tanto mi aveva dato ai nervi la prima volta che l’avevo visto. Aveva sofferto tanto, e la sua fortuna se la stava costruendo da solo, mattone dopo mattone.

Dagli abiti sporchi e laceri passò alle stoffe di bassa qualità (ma comunque qualità) della sartoria sotto casa mia. Imparò a lavarsi con regolarità. Pettinarsi i capelli. Rivolgersi alle persone in modo educato. A raccontare aneddoti come facevo io. Ma non perse mai stesso per strada.

Un giorno mi chiese persino di insegnargli, finalmente, a leggere e scrivere, perché voleva far sapere ad A., attraverso una lettera scritta di suo pugno, dei suoi progressivi miglioramenti. Io accettai volentieri.

Si stava conquistando il suo posto nel mondo, ed io ero felicissimo per lui.

Ma solo poche settimane dopo si ammalò.

Era il 1732.

 

***

 

-Ho detto che non voglio dettarti nessuna stupida lettera. Sto bene. Sto bene.- la presa di Masaki sulla mia camicia era debole.

Era a letto, ormai da due settimane. Tossì e si abbandonò sul cuscino, espirando pesantemente.

-Masaki, deve sapere delle tue condizioni. Potrebbe venire a trovarti. Di certo sarebbe meglio—

-Ah, tu mi dai già per morto, non è vero?- abbaiò, voltando lo sguardo verso di me –Io sono a posto, va bene?! E’ una cosa… una cosa passeggera.- mormorò, e tossì ancora, chiudendo gli occhi.

Mi si strinse il cuore, e mi alzai –Ho capito. Va bene così.- lo guardai, e lui ricambiò -Va bene così.- mi sorrise debolmente –Chiudi la finestra, prima di uscire, per favore. Ho freddo.- si raccomandò poi, ed io eseguii.

Uscii da casa sua completamente svuotato.

Lo sapevo. E lo sapeva anche lui. Le possibilità di guarire erano pressoché nulle, la malattia lo stava divorando dall’interno, ed io non riuscivo a capacitarmene in alcun modo. Avevo pensato che scrivere ad A. avrebbe potuto aiutarlo, ma lui si era rifiutato, come al solito.

Risulterei solo uno stupido peso”, mi aveva detto. Pensava fosse meglio così. E se fosse morto, meglio per tutti. Questo mi aveva voluto dire, anche se non esplicitamente. Non lo sopportavo, perché non era giusto. Ed anche lui lo credeva, in fondo. Non era giusto, non era giusto.

Ogni giorno andavo a trovarlo, ed ogni giorno lo vedevo più bianco, più stanco.

Non volevo accettare che si stesse spegnendo, era troppo presto.

Forse fu in un momento di disperazione che decisi di prendere l’iniziativa. Non avevo mai preso veramente iniziativa da che ero nato.

Presi della carta e dell’inchiostro.

L’indirizzo, tanto, dopo più di vent’anni, lo conoscevo a memoria.

Fui lapidario: “Sto male. Voglio vederti.”. Scrissi la solita M puntata con gli occhi lucidi, con rabbia. Piegai la lettera e la misi nella busta. Uscii immediatamente e la lasciai alle poste.

Pioveva, quel giorno. A dirotto. Ricordo che dovetti nascondere la carta sotto la giacca per evitare che si bagnasse.

Calcolai che la missiva sarebbe dovuta arrivare in due, tre giorni al massimo. Forse entro la fine della settimana successiva la donna che Masaki amava sarebbe arrivata a Londra. Lo sperai.

 

La settimana passò, e nessuno oltre me e la mia famiglia andò a trovare Masaki. Non ebbi notizie nemmeno di una qualche risposta alla lettera. Mi sentivo ferito, ed anche tradito, nonostante non conoscessi direttamente A.. Mi infastidiva pesantemente. L’ultima speranza in cui avevo stupidamente creduto non si era presentata, ed io cominciavo a perdere fiducia.

Ero perennemente nervoso, rispondevo male a mia moglie e non riuscivo a prendere sonno la notte. La rabbia mi consumava e non ne capivo il perché. Era come essere io stesso il malato che aspettava la persona più importante della sua vita che non voleva arrivare.

Smisi di pregare per Masaki, perché mi accorsi che non funzionava. L’ansia mi rodeva lo stomaco, e non riuscivo ad ammettere a me stesso di avere paura, una dannata paura di vedere il mio più caro amico andarsene per sempre.

Un giorno mi fece chiamare. Era domenica, e stavo pranzando con la mia famiglia, quando un garzone venne a dirmi che Masaki aveva espresso il desiderio di vedermi.

Temetti il peggio, in quel momento, e corsi a casa sua immediatamente. Fortunatamente, non era successo nulla.

Lui era sempre a letto, e fissava il soffitto. Dovette sentirmi arrivare, ma non distolse lo sguardo.

Rimasi sulla porta, immobile, ed il silenzio cadde per qualche secondo.

Lo ruppe lui.

-Norihito, sto morendo.- disse. A voce alta, chiaramente, lo sguardo ambrato vacuo –Ho sentito il medico. Sto morendo.- ripetè, abbassando il tono della voce. Sgranai gli occhi, e fu come essere colpiti in piena faccia da una secchiata d’acqua gelida: fu orribile constatare che non potevo più fingere che non fosse vero.

-Non ho nemmeno imparato a leggere e scrivere.- continuò. Lo vidi socchiudere gli occhi e sorridere appena. Poi la sua espressione si incrinò e si sciolse.

Per la seconda volta in tutta la mia vita lo vidi piangere. Non riuscii a muovere un muscolo mentre lui singhiozzava e si portava una mano al volto, ripetendo quelle due parole come una nenia.

Ricordo come mi tremarono le gambe. Mi tremano ancora adesso, a pensarci. Mi avvicinai a lui e mi inginocchiai affianco al suo letto. Gli presi le mani tra le mie e mi feci forza, perché non dovevo piangere, non in quel momento –Masaki— cercai le parole, ma mi morirono in gola. La mano del mio migliore amico mi colpì piano dietro il collo. Lo vidi sorridere tra i respiri tremolanti di singhiozzo –Ah, non sto piangendo.- tirò su con il naso –Te lo sei immaginato, idiota.- ridacchiò, cercando di trattenersi inutilmente. Cercò la mia mano e la strinse –Non ti ho chiamato per fare questa stupida scenata patetica.- aggiunse poi, e mi fece cenno di alzarmi. Io annuii e mi misi a sedere sulla sedia di fianco al letto, mentre lui si girava a rovistare nel suo comodino.

Quando si voltò di nuovo, aveva smesso di piangere.

-Prima che io muoia…- cominciò, ed io mi lasciai scappare una sorta di singulto. Calciai il letto –Non lo dire.- sbottai.

Lui mi lanciò uno sguardo in tralice –Dicevo. Prima che… io muoia, devo darti una cosa.- si muoveva lentamente, come se ogni movimento gli costasse una fatica enorme. Lo vidi tirare fuori un sacchetto tintinnante. Si rigirò verso di me, e me lo porse, con un sorriso raggiante –Non ti ho mai pagato per il disturbo.- mi disse –Ti ci volevo prendere quel libro costosissimo sull’astronomia che non ti sei mai deciso a comprare, ma non sono mai stati abbastanza, ahah— tossì ancora.

Io non capii subito. Poi spalancai la bocca. Non riuscii a trattenermi oltre e sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Non mi sopportavo. Mi odiavo per la mia stupida debolezza –Mettili via.- tremai, scuotendo il capo.

Lui non demorse –Non fare l’idiota, io con questi non ci faccio più niente.- mi sventolò i soldi sotto al naso –Un penny per ogni lettera letta e scritta. Ci sono tutti. Mi sono dovuto far aiutare da qualcuno che conosce la matematica, ma dovrebbero essere precisi.- ammiccò.

Io mi feci piccolo sulla sedia –No. Non puoi. Non ha senso.- protestai come un bambino, nonostante la mia età.

-Se non li prendi tu non ho idea di dove andranno a finire. Norihito, prendili e taci.- mi intimò.

Io digrignai i denti e li presi con rabbia, asciugandomi alla bell’e meglio il viso dalle lacrime che avevano preso a scendere fastidiosamente –Sei uno stupido.- sbottai.

-Non ho finito.- aggiunse, senza ascoltarmi.

Lo guardai.

-Là dentro c’è un penny in più, a dire il vero.- inspirò lentamente e distolse lo sguardo dal mio. Capii immediatamente -Credo tu debba fare un ultimo favore a questo rozzo ignorante.- sussurrò, e sorrise di nuovo.

Mi chiesi come diamine faceva a sorridere così tranquillamente, e lo odiai per un momento. Annuii, comunque.

-E’ l’ultima.- sottolineò –Inviala dopo che io—insomma, hai capito.- lo vidi deglutire, e non riuscii a fermare l’ennesimo fremito. Stringevo convulsamente il sacchetto dei penny in mano. Vedendomi immobile, Masaki continuò –C’è della carta e dell’inchiostro, nel cassetto affianco al letto.- mi informò –L’avevo presa per esercitarmi a scrivere.-

Io mi alzai, senza espressione, e presi quanto mi serviva.

Mi rimisi a sedere.

Strinsi la carta tra le mani.

-Masaki.- lo richiamai.

Lui si voltò verso di me.

Ci guardammo, ed io aprii la bocca per parlare, per dire qualcosa. Quanto gli volevo bene. Che mi sarebbe mancato. Che mi doveva i soldi di quel thè di qualche mese prima. Che mio figlio aspettava ancora di giocare con lui. Che era l’unico amico che avessi mai avuto, l’unica persona con cui avessi condiviso i miei pensieri, che nonostante l’avessi dapprima poco sopportato, non sapevo come avrei fatto senza di lui. Quanto volevo che lui ed A. fossero felici insieme. Quanto gli volevo bene.

Ma non riuscii a dire nulla.

Lui si limitò a sorridere di nuovo –Si, lo so. Anche io.- mormorò. Poi chinò il capo e i suoi ciuffi turchesi, appena striati di grigio, gli ricaddero sugli occhi. Mi tirò debolmente il cuscino –Idiota, non farmi piangere. Cretino.-

Ridemmo insieme, in mezzo alle lacrime. Ci abbracciammo.

Poi io mi asciugai le guance e cominciai a scrivere.

 

Non inviai la lettera, come mi era stato chiesto.

Masaki, prima di imbustarla, mi aveva chiesto di porgergli la carta e la penna. Aveva scritto qualcosa, l’aveva piegata e l’aveva messa in una busta. “Quel poco che ho imparato a scrivere”, mi disse con un sorriso.

Le giornate passavano troppo velocemente e troppo uguali. Masaki peggiorò. Smise di mangiare. Di parlare del suo lavoro. Del suo posto nel mondo. Perse il sorriso.

Mi parlò di A., di come si erano conosciuti nel giardino della sua villa, per l’ultima volta nel Maggio del 1732, il giorno in cui mi salutò in un modo diverso dal solito, e mi ringraziò per tutto. Come se di lì a poco sarebbe dovuto partire per un lungo viaggio. Sentiva di stare andando via davvero. Il dottore aveva detto che stava durando anche troppo, e si stupiva della sua enorme forza. “E’ una testaccia dura”, gli dicevo io.

-Norihito Kurama?- ero appena tornato in tipografia, completamente senza forze. Pioveva. Stavo chiudendo il negozio prima del solito, troppo stanco, troppo provato, troppo triste per fare qualsiasi cosa, quando mi sentii chiamare. Era una voce sconosciuta, bassa, e triste come la mia.

Mi voltai.

-Norihito Kurama?- chiese nuovamente la voce. Inquadrai un uomo appena oltre i quaranta, vestito elegante. Portava il cilindro in testa, su corti capelli color prugna brizzolati, tirati indietro. Portava corti baffi, ed i suoi occhi erano entrambi di due colori, viola ed ocra. Di buona famiglia. Fuori Londra, probabilmente.

Annuii –Siamo chiusi, al momento.- avvertii, facendo per voltarmi.

Mi fermò –Siete voi che scrivete le missive per conto di Masaki Kariya?- mi domandò, ed io sgranai gli occhi, voltandomi verso di lui. Dovette prenderlo per un si, perché la sua espressione tesa si sciolse appena. Si rizzò sulla schiena e mi porse una mano. Apparentemente calmo, ma nervoso, come se avesse voluto trovarsi da tutt’altra parte che con me –Atsushi Minamisawa.- si presentò lapidario –Da Hull.- mi informò.

Boccheggiai.

Ero confuso.

Alle spalle dell’uomo scorsi una carrozza. Gli occhi mi brillarono e mi sporsi –Hull? C’è la signorina A., dentro quella carrozza?- collegai in un secondo: lei doveva aver ricevuto la lettera, ed era arrivata, appena in tempo, per vedere Masaki. Non c’era altra spiegazione. Mi sentii rincuorato, e ricominciai a sperare.

Ma durò solo un attimo.

L’uomo mi prese per il polso e mi guardò intensamente. Scosse la testa.

Crollai. Lo stress di quei mesi mi ricadde sulle spalle come un macigno –Perché?- sbottai, divincolandomi dalla sua presa, facendo per raggiungere il carro –Perché non è venuta?- gridai, in preda alla rabbia. Non me ne capacitavo. Tutte quelle parole, quella dolcezza che avevo lette nelle sue lettere: perché non si era presentata? Perché aveva mandato qualcuno al suo posto? Come poteva fare questo all’uomo che l’aveva sempre amata senza riserve?

-Lei era l’unica dannata cosa che— mi sentii trascinare indietro ed un paio di mani mi costrinsero a fermarmi, bloccandomi per le spalle. Mi ritrovai faccia a faccia con Atsushi. Pioveva. E io piangevo. Di nuovo. Davanti ad un completo sconosciuto, inerme.

-Portatemi da lui.- mi incitò mesto l’uomo di fronte a me.

Io lo scansai. Imprecai, battei un piede a terra, scossi la testa ed sollevai gli occhi al cielo, le mani al volto.

Alzai il mento, respirando pesantemente, e mi odiai. Guardai l’elegante signore vicino a me, ancora asciutto sotto la tettoia del mio negozio. Zuppo, socchiusi gli occhi e mi voltai.

-Dannazione!- calciai l’acqua con rabbia.

E poi gli feci strada.

 

Non ci dicemmo niente.

Semplicemente, lo condussi di fronte alla casa del mio migliore amico.

Rimasi sotto la pioggia.

-Non entrate?- mi domandò lui.

-Perché non è venuta?- chiesi ancora, mordendomi le labbra.

Lui sospirò –E’ complicato.- mi rispose.

-Sta morendo.- replicai schietto –Questo non è complicato.- me la stavo prendendo troppo, ma mi sentivo fremere, e la delusione mi bruciava lo stomaco. Masaki non lo meritava.

Atsushi serrò le labbra: non era troppo alto, ma aveva un portamento che metteva in soggezione. Non aggiunse altro e si voltò, entrando in casa –Non mi aspettate qui.- sussurrò solo, e feci fatica a sentirlo, sotto il rumore di tutta quella pioggia.

 

Nei due giorni seguenti, Masaki non fece entrare nessuno in casa, e non vidi l’uomo di Hull uscirne.

Ero inquieto.

Mi chiedevo cosa si dicessero.

Se parlassero di lei.

Se Masaki avesse pianto.

Se avesse smesso di amarla (no, impossibile).

Se l’avrei rivisto più.

Camminavo su e giù come un’anima in pena.

Rimasi sempre nei pressi della casa del mio migliore amico.

Non sapevo cosa pensare.

Ricevetti risposta solo al terzo giorno.

 

La porta di quella casa che era stata l’orgoglio e la speranza di Masaki si aprì lentamente.

Il sole splendeva fastidiosamente.

La figura di Atsushi uscì lenta in controluce. Sembrava un’ombra.

Non indossava più la giacca.

Stringeva il cilindro in mano.

Quando fu più vicino, mi accorsi che il suo volto sembrava più scarno, gli occhi più gonfi, l’espressione meno viva.

Mi guardò e fu straziante -Che giorno è oggi?- mi chiese, a bassa voce –Dobbiamo chiamare il medico.- la voce era calma.

Capii subito e qualcosa si spezzò. Tolsi a mia volta il cappello ed abbassai lo sguardo, gli occhi sgranati.

-E’- è— cominciai a respirare più velocemente.

Pensavo di essere preparato. Non si è mai preparati.

-Alle 15:10. Ha chiuso gli occhi.- ci fu una lunga pausa –Sorrideva.- lo sentii aggiungere, e il tono vibrò per un secondo.

Cominciai a piangere in silenzio, e lo sguardo mi si appannò –Era il mio migliore amico.- guaii –Anche se era un idiota. Era il mio- il mio dannato migliore- amico— presi a singhiozzare, e non riuscii a trattenermi dallo sfogarmi a voce più alta, tremando.

Non smisi nemmeno quando sentii Atsushi avvicinarsi ed abbracciarmi come nulla fosse. Piansi l’anima, mentre mi rendevo conto che una delle persone più importanti della mia vita se ne era andata per sempre.

-A-aspettate.- mi divisi dall’uomo di Hull, gli occhi bagnati, e mi misi una mano nella tasca del gilet, tremante –Questa. Dovete darle questa.- tirai su con il naso ed estrassi la lettera di Masaki. L’ultima –Dovete dargliela. Quando sarete tornato, avete capito? A-Ad A.- gliela porsi e lui, dopo un attimo di silenzio, la prese senza dire una parola.

La fissò per un paio di secondi, poi, febbrilmente, cominciò ad aprirla. Lo guardai come se fosse matto, come se stesse compiendo un omicidio, ma lui non mi degnava più di uno sguardo. Tirò fuori i fogli e lasciò cadere a terra la busta, e senza che io potessi dire o fare niente, inchiodato dall’incredulità, la lesse, sotto ai miei occhi.

Socchiudeva lo sguardo, stringeva la carta, tratteneva il respiro.

Non capii perché, quand’ebbe finito, dopo aver rilassato le spalle ed aver lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi, scoppiò a sua volta a piangere. Silenziosamente, coprendosi il volto con le mani. Piangeva e io ne rimasi totalmente annientato. Non lo compresi. Ma fu come se il mio dolore non significasse niente, di fronte alle lacrime di quello sconosciuto.

Mi avvicinai, e lo abbracciai, come lui aveva fatto con me.

E lui mi si aggrappò come se avesse avuto paura di cadere.

Era il 25 Maggio 1732.

 

Masaki voleva essere sepolto alla villa di campagna dove aveva conosciuto la persona che aveva amato per tutta la vita, e le sue volontà vennero rispettate.

Atsushi se ne andò quasi subito, ringraziandomi di tutto, ed io non sentii più parlare di lui per molto tempo.

Con i penny che il mio migliore amico mi aveva lasciato, assieme ai miei soldi, comprai la sua casa. Ed anche quel libro di astronomia costosissimo che avrebbe tanto voluto regalarmi e che io adoravo. Lo tengo ancora con me.

Di A. non seppi più nulla. Perché non si fosse fatta viva, perché non avesse più scritto niente. La odiai, per molto tempo, per il suo egoismo.

Ma qualche anno dopo, arrivò della posta per me.

Atsushi Minamisawa era deceduto, e nel suo testamento aveva voluto che mi fosse recapitato un pacco di lettere. Un enorme pacco di lettere, la cui metà, mi resi conto, era stata scritta da me, e l’altra metà letta dalla mia voce. L’intera corrispondenza di Masaki, e della persona che aveva amato.

Allegata vi era un’ultima missiva, indirizzata a me.

Fu così che venni a scoprire che non era mai esistita una signorina A., perché la persona a cui Masaki mi aveva chiesto di scrivere per anni era quello stesso Atsushi Minamisawa che lo aveva assistito fino alla sua morte.

A. non era rimasta a casa. Era arrivata in tempo, e aveva dato il suo ultimo saluto a Masaki. Aveva esaudito il suo ultimo desiderio inespresso: essere con lui fino alla fine.

Quella considerazione mi bastò, e non giudicai il mio amico. Non volli. Mi bastava sapere che quel sorriso sulle sue labbra, quell’ultimo sorriso, fosse vero. Che avesse vissuto e fosse morto sorridendo, comunque. Ero felice per lui.

Scoprii anche che spesso, molto spesso, durante i loro incontri, Atsushi aveva proposto a Masaki di trasferirsi ad Hull, presso la sua famiglia, così da poter stare assieme. Ma Masaki, quel testone, aveva sempre rifiutato, perché non voleva essergli di peso.

Poi il più nobile si era sposato, ed aveva avuto dei figli, ma nonostante questo non aveva mai smesso di amare il mio migliore amico.

Nella lettera mi ringraziava, perché senza di me non sarebbero mai riusciti a rimanere così in contatto. Mi lasciò in eredità anche una piccola somma di denaro, e mi comunicava con gioia che sarebbe stato seppellito di fianco a Masaki, nel luogo in cui si erano incontrati, così sarebbero potuti rimanere assieme per sempre.

Non ho mai raccontato a nessuno questa storia, e la conservo gelosamente, anche ora che sono vecchio. Ne faccio parte anche io, mi ci sono ritrovato in mezzo, ed in parte la sento anche mia.

Masaki è stato l’unico amico che abbia mai avuto, l’unico vero, e lo ricorderò per sempre, anche dopo la morte. Sono molte le cose che non ho conosciuto di lui, della sua vita, del suo amore. Non dimenticherò mai il suo viso sporco la prima volta che lo vidi, la sua forza d’animo, il suo sorriso ed il suo prendermi in giro. Era una testa calda, ma era buono. Ha sempre cercato il suo posto nel mondo, ha sempre combattuto per qualcosa.

Ci è riuscito, io lo so.

Per curiosità, lessi anche quell’ultima lettera che mi aveva fatto scrivere, e a cui aveva aggiunto qualcosa.

Piansi. E fui orgoglioso di lui.

E lo sono ancora.

 

Una lettera è un messaggio intimo, un pezzo di vita che una persona desidera far conoscere a qualcun altro, uno scritto vero ed autentico in cui si profondono le proprie emozioni ed i propri sentimenti. Per scrivere una lettera ci vuole del tempo, e con una lettera si può dedicare questo tempo anche ad una persona lontana miglia. Con una lettera si rimane in contatto, e così facilmente.

Basta solo saper scrivere.

 

Atsushi.

Volevo vederlo scritto, almeno una volta.

 

Masaki.”

 

Illiterate- how to write a letter- END

 

 

*****

 

Orbene.

Ho finito.

Oddio, non ci credo.

Ho finito davvero-

Ok, la smetto, scusate.

Si, è davvero lunga, ho quasi sforato le 8000 parole, e devo ringraziare che Fay e Zael abbiano permesso le two-shots, altrimenti sarei stata fuori-

Che dire. Come avete potuto constatare, la fic si ambienta nella Londra del XVIII secolo. Ho preso ispirazione dalla vita di Samuel Richardson, un romanziere di quegli anni, famoso per essere stato il primo a scrivere il cosidetto “romanzo epistolare”, ossia composto da lettere scritte in prima persona che narrano gli eventi. Qui il narratore cessa di essere onnisciente, e si cala nel punto di vista del personaggio che scrive la lettera. Io non ho usato la lettera, come metodo di narrazione, ma ho mantenuto la prima persona. Ammetto di essermi divertita parecchio ad immedesimarmi in Kurama, perché è un personaggio che non mi va molto a genio (anzi, non lo sopporto proprio, si può dire). L’ho “riscoperto”, a mio modo. La prima persona mi ha anche aiutato (e spero di esserci riuscita), a fuordeviarvi dalla reale identità della signorina A.. Se ci fate caso, nel discorso indiretto che riporta le parole di Masaki, o nelle sue stesse parole nel discorso diretto, non c’è nulla che possa indicare esattamente il sesso della persona a cui scrive, avendo usato aggettivi neutri e/o giri di parole vari xD L’ho fatto forte del fatto che, in inglese, gli aggettivi non hanno genere, e dunque in una lettera scritta in prima persona si può benissimo scambiare l’uomo per la donna e viceversa. E’ Kurama che, logicamente, fraintende e dà ad A. una connotazione femminile (ovviamente, insomma, mica andava a pensare che fosse un uomo, visti i tempi). Ho preferito non approfondire l’argomento dell’omofobia e lasciare che Kurama lasci passare la cosa senza soffermarcisi troppo, perché ho creduto che avrebbe stonato con tutto il resto della fic. In ogni caso, di certo non approva, non del tutto. E’ solo contento per il suo migliore amico, tutto qua.

Ho messo “het” tra le coppie, nell’anteprima, perché se avessi scritto shonen-ai, l’effetto che volevo dare non ci sarebbe stato, e il mio puntare tutto sulla rivelazione shock (?) della coppia uomo/uomo sarebbe andata a farsi friggere amorevolmente (?).

Per quanto riguarda la sua occupazione, quella di aiutare gli illetterati a scrivere e leggere lettere, è un qualcosa che esisteva sul serio, a quel tempo, e lo stesso Richardson lo faceva (grazie Rich, merito tuo se mi è venuta l’ispirazione <3).

Per quanto riguarda le poste, a quell’epoca si pagava una tassa, a carico del destinatario, per le lettere ricevute, ed il francobollo ancora non esisteva.

La moglie di Kurama è Hamano. Si, non lo dico, ma è così, fidatevi (?) *fugge*

Non ho resistito agli accenni Yuukina, pardon-

Ho cercato di mantenere anche, parlando del romanzo settecentesco inglese, quel realismo e quella descrizione dettagliata delle cose che ne è propria, e spero di esserci riuscita.

Spero che la fic vi sia piaciuta, e che la mia interpretazione di Kurama possa considerarsi relativamente passabile (?).

Ringrazio Fay e Zael per aver indetto il contest, in bocca al lupo a tutti i partecipanti!

Alla prossima!

 

Greta.

 

 

 

 

 

  
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