Illiterate
How
to write a letter
-2-
Gli anni
passarono così, tranquillamente, e a me andava bene. Io e Masaki
ci avvicinammo sempre di più, diventammo amici, cari
amici. Cominciò ad assistere al mio “secondo lavoro” ad ogni momento libero che
aveva, e con il tempo imparò a parlare meglio in inglese. Gli offrii un lavoro
in tipografia, anche. Lui rifiutò. Non voleva dipendere da me più di quanto già
non facesse. Gli proposi di insegnargli a leggere e scrivere. Rifiutò anche
quello. Temeva che a quel modo il nostro rapporto si sarebbe rovinato, suppongo. Non me lo disse mai, io non
indagai.
Mi feci
un nome, io; lui continuò a cambiare lavoro a seconda delle
necessità, e rimase sempre un’anima un po’ solitaria. Io ebbi dei figli; lui
non si legò mai a nessuno oltre a me, e mai nel modo in cui si era legato ad A..
A. era una presenza perenne nella
mia vita. Mi domandavo spesso chi fosse. Come fosse. Era bella? Aveva lunghi capelli biondi? E gli occhi scuri? Era curioso, perché non avevo idea di chi
fosse ma conoscevo tutto di lei attraverso le sue
lettere e gli sparuti racconti di Masaki.
Adorava i cavalli, ed i fiori. Il mare ed i libri. Non aveva un buon rapporto
con suo padre ed amava Masaki così
tanto, così profondamente, che leggere e scrivere le parole che si
scambiavano mi annientava ogni volta. Imparai a dispiacermi con il mio amico
per ogni cattiva notizia, a gioire per quelle buone. Ad
attendere con trepidazione una nuova missiva, ad agitarmi per buttare giù una
bella risposta. Mi emozionava così tanto essere
silenzioso spettatore di quel sentimento, anche se non
lo ammisi mai, non direttamente. Un po’ me ne vergognavo, forse. Mi
affascinava, e non lo capivo appieno. Per quanto amassi
mia moglie, il nostro rapporto era totalmente diverso da quello di Masaki ed A..
Loro vivevano lontani, ma il solo sapere che l’altro esisteva e viveva da
qualche parte, seppur lontano da loro, li aiutava ad andare avanti, ed anzi
alimentava il loro affetto.
Ogni due, tre anni, Masaki partiva per incontrarsi
con lei, e stava via al massimo due mesi. Ne rientrava
sempre più contento, sempre più provato. Ma il suo
sentimento non si esauriva mai. Anzi, una volta, tornato da
uno dei suoi viaggi (che pagava sempre a fatica con i soldi che guadagnava lui
stesso), decise di mettersi a lavorare ancora di più, per racimolare maggior
denaro. Pensai avesse messo incinta la sua compagna e che volesse darle
un aiuto, in qualche modo. Ma non mi azzardai mai ad avanzare
l’ipotesi ad alta voce.
Lo vedevo
spegnersi lentamente per qualche periodo, per poi tirarsi improvvisamente su di
morale, e poi di nuovo passare brutti momenti. E lui
guardava me fare lo stesso.
Non avrei pensato, mai lo avrei immaginato, di poter avere
un’amicizia così forte con qualcuno. Un’amicizia che stupiva anche me, che non
mi spiegavo. Condividevamo tutto, anche la nostra
semplice vita lì a Londra era qualcosa di cui rallegrarsi. Mia moglie lo
adorava. I miei figli lo adoravano. Aveva sempre un sorriso per loro, anche se
stava male. Aveva sempre un sorriso beffardo per me, sempre una presa in giro a fior di labbra per aiutarmi a
superare i momenti di difficoltà.
Era una
persona strana, indubbiamente. Un po’ infantile, sempre sulle sue.
Non mi
disse mai “ti voglio bene” o “sono contento di averti conosciuto”. Nemmeno io lo
feci mai. Non ce lo dicevamo. Lo sapevamo e basta, forse.
Nel
Mi
accorsi che tutto il suo lavoro e la sua fatica lui li
stava facendo per lei. Nonostante si odiasse per essere nato
povero ed ignorante, stava dando l’anima per crescere, essere all’altezza della
persona che amava. Anche se era impossibile, e lui lo sapeva, non avrebbe demorso. Lo conoscevo, ormai. E
lo ammiravo, con tutto me stesso. In fondo a me, sapevo anche di invidiarlo,
perché lui aveva trovato il coraggio di sfidare sé
stesso, per tutta la vita.
Masaki
scoppiava, di vita. Non stava mai fermo un attimo, e ricordo che amava farsi
beffe di tutti, con quel suo ghignetto storto che
tanto mi aveva dato ai nervi la prima volta che l’avevo
visto. Aveva sofferto tanto, e la sua fortuna se la stava costruendo da solo,
mattone dopo mattone.
Dagli
abiti sporchi e laceri passò alle stoffe di bassa qualità (ma comunque qualità) della sartoria sotto casa mia. Imparò a
lavarsi con regolarità. Pettinarsi i capelli. Rivolgersi alle persone in modo
educato. A raccontare aneddoti come facevo io. Ma non
perse mai sé stesso per strada.
Un giorno
mi chiese persino di insegnargli, finalmente, a leggere e scrivere, perché
voleva far sapere ad A., attraverso una lettera scritta di suo
pugno, dei suoi progressivi miglioramenti. Io accettai volentieri.
Si stava
conquistando il suo posto nel mondo, ed io ero felicissimo per lui.
Ma
solo poche settimane dopo si ammalò.
Era il
1732.
***
-Ho detto che non voglio dettarti nessuna stupida lettera. Sto
bene. Sto bene.- la
presa di Masaki sulla mia camicia era debole.
Era a
letto, ormai da due settimane. Tossì e si abbandonò sul cuscino, espirando
pesantemente.
-Masaki,
deve sapere delle tue condizioni. Potrebbe venire a trovarti. Di certo sarebbe
meglio—
-Ah, tu
mi dai già per morto, non è vero?- abbaiò, voltando lo sguardo verso di me –Io
sono a posto, va bene?! E’ una cosa… una cosa passeggera.- mormorò, e tossì ancora, chiudendo gli
occhi.
Mi si
strinse il cuore, e mi alzai –Ho capito. Va bene così.- lo
guardai, e lui ricambiò -Va bene così.- mi sorrise debolmente –Chiudi la
finestra, prima di uscire, per favore. Ho freddo.- si
raccomandò poi, ed io eseguii.
Uscii da
casa sua completamente svuotato.
Lo sapevo.
E lo sapeva anche lui. Le possibilità di guarire erano
pressoché nulle, la malattia lo stava divorando dall’interno, ed io non
riuscivo a capacitarmene in alcun modo. Avevo pensato che scrivere ad A. avrebbe potuto aiutarlo, ma lui si
era rifiutato, come al solito.
“Risulterei solo uno stupido peso”, mi aveva detto. Pensava
fosse meglio così. E se fosse morto, meglio per tutti.
Questo mi aveva voluto dire, anche se non esplicitamente. Non lo sopportavo,
perché non era giusto. Ed anche lui lo credeva, in
fondo. Non era giusto, non era giusto.
Ogni
giorno andavo a trovarlo, ed ogni giorno lo vedevo più
bianco, più stanco.
Non
volevo accettare che si stesse spegnendo, era troppo presto.
Forse fu
in un momento di disperazione che decisi di prendere l’iniziativa. Non avevo mai preso veramente iniziativa da
che ero nato.
Presi
della carta e dell’inchiostro.
L’indirizzo,
tanto, dopo più di vent’anni, lo conoscevo a memoria.
Fui
lapidario: “Sto male. Voglio vederti.”. Scrissi la
solita M puntata con gli occhi lucidi, con rabbia. Piegai la lettera e la misi
nella busta. Uscii immediatamente e la lasciai alle poste.
Pioveva,
quel giorno. A dirotto. Ricordo che dovetti nascondere la carta sotto la giacca
per evitare che si bagnasse.
Calcolai
che la missiva sarebbe dovuta arrivare in due, tre giorni al massimo. Forse
entro la fine della settimana successiva la donna che Masaki amava sarebbe arrivata a Londra. Lo sperai.
La
settimana passò, e nessuno oltre me e la mia famiglia
andò a trovare Masaki. Non ebbi notizie nemmeno di
una qualche risposta alla lettera. Mi sentivo ferito, ed anche tradito,
nonostante non conoscessi direttamente A..
Mi infastidiva pesantemente. L’ultima speranza in cui avevo
stupidamente creduto non si era presentata, ed io cominciavo a perdere fiducia.
Ero
perennemente nervoso, rispondevo male a mia moglie e non riuscivo a prendere
sonno la notte. La rabbia mi consumava e non ne capivo il perché. Era come essere io stesso il malato che aspettava la persona più
importante della sua vita che non voleva arrivare.
Smisi di
pregare per Masaki, perché mi accorsi che non
funzionava. L’ansia mi rodeva lo stomaco, e non riuscivo ad ammettere a me
stesso di avere paura, una dannata paura di vedere il
mio più caro amico andarsene per sempre.
Un giorno
mi fece chiamare. Era domenica, e stavo pranzando con la mia famiglia, quando
un garzone venne a dirmi che Masaki
aveva espresso il desiderio di vedermi.
Temetti
il peggio, in quel momento, e corsi a casa sua immediatamente. Fortunatamente,
non era successo nulla.
Lui era
sempre a letto, e fissava il soffitto. Dovette sentirmi arrivare, ma non
distolse lo sguardo.
Rimasi
sulla porta, immobile, ed il silenzio cadde per qualche secondo.
Lo ruppe
lui.
-Norihito,
sto morendo.- disse. A voce alta, chiaramente, lo sguardo
ambrato vacuo –Ho sentito il medico. Sto morendo.- ripetè, abbassando il tono della voce. Sgranai gli occhi, e
fu come essere colpiti in piena faccia da una
secchiata d’acqua gelida: fu orribile constatare che non potevo più fingere che
non fosse vero.
-Non ho
nemmeno imparato a leggere e scrivere.- continuò. Lo
vidi socchiudere gli occhi e sorridere appena. Poi la sua espressione si incrinò e si sciolse.
Per la
seconda volta in tutta la mia vita lo vidi piangere. Non riuscii a muovere un muscolo mentre lui singhiozzava e si portava una mano al
volto, ripetendo quelle due parole come una nenia.
Ricordo come mi tremarono le gambe. Mi tremano ancora adesso, a
pensarci. Mi avvicinai a lui e mi inginocchiai
affianco al suo letto. Gli presi le mani tra le mie e mi feci forza, perché non
dovevo piangere, non in quel momento –Masaki— cercai
le parole, ma mi morirono in gola. La mano del mio migliore amico mi colpì
piano dietro il collo. Lo vidi sorridere tra i respiri tremolanti di singhiozzo
–Ah, non sto piangendo.- tirò su con il naso –Te lo
sei immaginato, idiota.- ridacchiò, cercando di trattenersi inutilmente. Cercò
la mia mano e la strinse –Non ti ho chiamato per fare questa stupida scenata
patetica.- aggiunse poi, e mi fece cenno di alzarmi. Io annuii e mi misi a
sedere sulla sedia di fianco al letto, mentre lui si girava a rovistare nel suo
comodino.
Quando si
voltò di nuovo, aveva smesso di piangere.
-Prima
che io muoia…- cominciò, ed io mi lasciai scappare una
sorta di singulto. Calciai il letto –Non lo dire.- sbottai.
Lui mi lanciò uno sguardo in tralice –Dicevo. Prima che… io muoia, devo darti una cosa.- si muoveva lentamente, come se
ogni movimento gli costasse una fatica enorme. Lo vidi tirare fuori un
sacchetto tintinnante. Si rigirò verso di me, e me lo porse, con un sorriso
raggiante –Non ti ho mai pagato per il disturbo.- mi disse –Ti ci volevo
prendere quel libro costosissimo sull’astronomia che non ti sei
mai deciso a comprare, ma non sono mai stati abbastanza, ahah—
tossì ancora.
Io non
capii subito. Poi spalancai la bocca. Non riuscii a trattenermi oltre e sentii
gli occhi riempirsi di lacrime. Non mi sopportavo. Mi odiavo
per la mia stupida debolezza –Mettili via.- tremai, scuotendo il capo.
Lui non
demorse –Non fare l’idiota, io con questi non ci faccio più niente.- mi
sventolò i soldi sotto al naso –Un penny
per ogni lettera letta e scritta. Ci sono tutti. Mi sono dovuto far aiutare da
qualcuno che conosce la matematica, ma dovrebbero
essere precisi.- ammiccò.
Io mi feci piccolo sulla sedia –No. Non puoi. Non ha senso.- protestai come un bambino, nonostante la mia età.
-Se
non li prendi tu non ho idea di dove andranno a finire. Norihito,
prendili e taci.- mi intimò.
Io
digrignai i denti e li presi con rabbia, asciugandomi alla bell’e meglio il viso dalle lacrime che avevano preso
a scendere fastidiosamente –Sei uno stupido.- sbottai.
-Non ho
finito.- aggiunse, senza ascoltarmi.
Lo
guardai.
-Là
dentro c’è un penny in più, a dire il vero.- inspirò lentamente e distolse lo sguardo dal mio. Capii immediatamente -Credo tu debba fare un ultimo favore a
questo rozzo ignorante.- sussurrò, e sorrise di nuovo.
Mi chiesi
come diamine faceva a sorridere così tranquillamente, e lo odiai per un
momento. Annuii, comunque.
-E’
l’ultima.- sottolineò –Inviala dopo che io—insomma,
hai capito.- lo vidi deglutire, e non riuscii a fermare l’ennesimo fremito.
Stringevo convulsamente il sacchetto dei penny in
mano. Vedendomi immobile, Masaki continuò –C’è della
carta e dell’inchiostro, nel cassetto affianco al letto.- mi informò
–L’avevo presa per esercitarmi a scrivere.-
Io mi
alzai, senza espressione, e presi quanto mi serviva.
Mi rimisi
a sedere.
Strinsi
la carta tra le mani.
-Masaki.-
lo richiamai.
Lui si
voltò verso di me.
Ci
guardammo, ed io aprii la bocca per parlare, per dire qualcosa. Quanto gli volevo bene. Che mi sarebbe
mancato. Che mi doveva i soldi di quel thè di qualche mese prima. Che mio
figlio aspettava ancora di giocare con lui. Che era l’unico amico che
avessi mai avuto, l’unica persona con cui avessi
condiviso i miei pensieri, che nonostante l’avessi dapprima poco sopportato,
non sapevo come avrei fatto senza di lui. Quanto volevo
che lui ed A. fossero felici insieme.
Quanto gli volevo bene.
Ma
non riuscii a dire nulla.
Lui si limitò a sorridere di nuovo –Si, lo so. Anche
io.- mormorò. Poi chinò il capo e i suoi ciuffi turchesi, appena striati di
grigio, gli ricaddero sugli occhi. Mi tirò debolmente il cuscino –Idiota, non
farmi piangere. Cretino.-
Ridemmo
insieme, in mezzo alle lacrime. Ci abbracciammo.
Poi io mi
asciugai le guance e cominciai a scrivere.
Non
inviai la lettera, come mi era stato chiesto.
Masaki,
prima di imbustarla, mi aveva chiesto di porgergli la carta e la penna. Aveva
scritto qualcosa, l’aveva piegata e l’aveva messa in una busta. “Quel poco che
ho imparato a scrivere”, mi disse con un sorriso.
Le
giornate passavano troppo velocemente e troppo uguali. Masaki
peggiorò. Smise di mangiare. Di parlare del suo lavoro. Del suo posto nel
mondo. Perse il sorriso.
Mi parlò di A., di come si erano conosciuti nel
giardino della sua villa, per l’ultima volta nel Maggio del 1732, il giorno in
cui mi salutò in un modo diverso dal solito, e mi ringraziò per tutto. Come se di lì a poco sarebbe dovuto partire per un lungo viaggio.
Sentiva di stare andando via davvero. Il dottore aveva detto
che stava durando anche troppo, e si stupiva della sua enorme forza. “E’ una
testaccia dura”, gli dicevo io.
-Norihito
Kurama?- ero appena tornato in tipografia,
completamente senza forze. Pioveva. Stavo chiudendo il
negozio prima del solito, troppo stanco, troppo provato, troppo triste
per fare qualsiasi cosa, quando mi sentii chiamare. Era una voce sconosciuta,
bassa, e triste come la mia.
Mi
voltai.
-Norihito
Kurama?- chiese nuovamente la voce. Inquadrai un uomo
appena oltre i quaranta, vestito elegante. Portava il
cilindro in testa, su corti capelli color prugna brizzolati, tirati indietro.
Portava corti baffi, ed i suoi occhi erano entrambi di due colori, viola ed
ocra. Di buona famiglia. Fuori Londra, probabilmente.
Annuii –Siamo chiusi, al momento.- avvertii, facendo per voltarmi.
Mi fermò
–Siete voi che scrivete le missive per conto di Masaki Kariya?- mi domandò, ed io
sgranai gli occhi, voltandomi verso di lui. Dovette prenderlo per un si, perché
la sua espressione tesa si sciolse appena. Si rizzò sulla schiena e mi porse
una mano. Apparentemente calmo, ma nervoso, come se avesse voluto trovarsi da
tutt’altra parte che con me –Atsushi Minamisawa.- si presentò lapidario –Da Hull.-
mi informò.
Boccheggiai.
Ero
confuso.
Alle spalle dell’uomo scorsi una carrozza. Gli occhi mi brillarono e mi sporsi –Hull? C’è la signorina A.,
dentro quella carrozza?- collegai in un secondo: lei doveva aver ricevuto la
lettera, ed era arrivata, appena in tempo, per vedere Masaki.
Non c’era altra spiegazione. Mi sentii rincuorato, e ricominciai a sperare.
Ma
durò solo un attimo.
L’uomo mi
prese per il polso e mi guardò intensamente. Scosse la testa.
Crollai.
Lo stress di quei mesi mi ricadde sulle spalle come un macigno –Perché?- sbottai,
divincolandomi dalla sua presa, facendo per raggiungere il carro –Perché non è
venuta?- gridai, in preda alla rabbia. Non me ne capacitavo. Tutte quelle
parole, quella dolcezza che avevo lette nelle sue
lettere: perché non si era presentata? Perché aveva
mandato qualcuno al suo posto? Come poteva fare questo all’uomo che l’aveva
sempre amata senza riserve?
-Lei era
l’unica dannata cosa che— mi sentii trascinare indietro ed un paio di mani mi costrinsero a fermarmi, bloccandomi per le spalle. Mi ritrovai
faccia a faccia con Atsushi.
Pioveva. E io piangevo. Di nuovo. Davanti ad un
completo sconosciuto, inerme.
-Portatemi
da lui.- mi incitò mesto l’uomo di fronte a me.
Io lo
scansai. Imprecai, battei un piede a terra, scossi la testa ed
sollevai gli occhi al cielo, le mani al volto.
Alzai il
mento, respirando pesantemente, e mi odiai. Guardai l’elegante signore vicino a
me, ancora asciutto sotto la tettoia del mio negozio. Zuppo, socchiusi gli
occhi e mi voltai.
-Dannazione!-
calciai l’acqua con rabbia.
E poi gli feci strada.
Non ci
dicemmo niente.
Semplicemente,
lo condussi di fronte alla casa del mio migliore amico.
Rimasi
sotto la pioggia.
-Non entrate?- mi domandò lui.
-Perché
non è venuta?- chiesi ancora, mordendomi le labbra.
Lui sospirò –E’ complicato.- mi rispose.
-Sta
morendo.- replicai schietto –Questo non è complicato.- me la stavo
prendendo troppo, ma mi sentivo fremere, e la delusione mi bruciava lo stomaco.
Masaki non lo meritava.
Atsushi
serrò le labbra: non era troppo alto, ma aveva un portamento che metteva in
soggezione. Non aggiunse altro e si voltò, entrando in casa –Non mi aspettate
qui.- sussurrò solo, e feci fatica a sentirlo, sotto
il rumore di tutta quella pioggia.
Nei due
giorni seguenti, Masaki non fece entrare nessuno in
casa, e non vidi l’uomo di Hull
uscirne.
Ero
inquieto.
Mi
chiedevo cosa si dicessero.
Se
parlassero di lei.
Se Masaki avesse pianto.
Se avesse smesso di amarla (no, impossibile).
Se
l’avrei rivisto più.
Camminavo
su e giù come un’anima in pena.
Rimasi
sempre nei pressi della casa del mio migliore amico.
Non
sapevo cosa pensare.
Ricevetti
risposta solo al terzo giorno.
La porta
di quella casa che era stata l’orgoglio e la speranza di Masaki si aprì lentamente.
Il sole
splendeva fastidiosamente.
La figura
di Atsushi uscì lenta in
controluce. Sembrava un’ombra.
Non
indossava più la giacca.
Stringeva
il cilindro in mano.
Quando fu
più vicino, mi accorsi che il suo volto sembrava più scarno,
gli occhi più gonfi, l’espressione meno viva.
Mi guardò
e fu straziante -Che giorno è oggi?- mi chiese, a
bassa voce –Dobbiamo chiamare il medico.- la voce era calma.
Capii
subito e qualcosa si spezzò. Tolsi a mia volta il cappello ed abbassai lo
sguardo, gli occhi sgranati.
-E’- è— cominciai a respirare più velocemente.
Pensavo di
essere preparato. Non si è mai preparati.
-Alle 15:10. Ha chiuso gli occhi.- ci fu una lunga pausa
–Sorrideva.- lo sentii aggiungere, e il tono vibrò per
un secondo.
Cominciai
a piangere in silenzio, e lo sguardo mi si appannò –Era il mio migliore amico.-
guaii –Anche se era un idiota. Era il mio- il mio dannato migliore- amico— presi a singhiozzare, e non
riuscii a trattenermi dallo sfogarmi a voce più alta, tremando.
Non smisi
nemmeno quando sentii Atsushi
avvicinarsi ed abbracciarmi come nulla fosse. Piansi l’anima, mentre mi rendevo
conto che una delle persone più importanti della mia vita se ne
era andata per sempre.
-A-aspettate.- mi divisi dall’uomo di Hull, gli occhi bagnati, e mi misi una mano nella tasca del
gilet, tremante –Questa. Dovete darle questa.- tirai
su con il naso ed estrassi la lettera di Masaki.
L’ultima –Dovete dargliela. Quando sarete tornato,
avete capito? A-Ad A.- gliela porsi e lui, dopo un attimo di silenzio, la prese senza
dire una parola.
La fissò per un paio di secondi, poi, febbrilmente, cominciò ad
aprirla. Lo guardai come se fosse matto, come se stesse compiendo un omicidio,
ma lui non mi degnava più di uno sguardo. Tirò fuori i fogli e lasciò cadere a
terra la busta, e senza che io potessi dire o fare niente, inchiodato dall’incredulità,
la lesse, sotto ai miei occhi.
Socchiudeva
lo sguardo, stringeva la carta, tratteneva il respiro.
Non capii
perché, quand’ebbe finito, dopo aver rilassato le spalle ed aver lasciato
ricadere le braccia lungo i fianchi, scoppiò a sua volta a piangere. Silenziosamente, coprendosi il volto con le mani. Piangeva e
io ne rimasi totalmente annientato. Non lo compresi. Ma
fu come se il mio dolore non significasse niente, di fronte alle lacrime di
quello sconosciuto.
Mi
avvicinai, e lo abbracciai, come lui aveva fatto con
me.
E lui
mi si aggrappò come se avesse avuto paura di cadere.
Era il 25
Maggio 1732.
Masaki
voleva essere sepolto alla villa di campagna dove aveva conosciuto la persona
che aveva amato per tutta la vita, e le sue volontà vennero
rispettate.
Atsushi
se ne andò quasi subito, ringraziandomi di tutto, ed
io non sentii più parlare di lui per molto tempo.
Con i penny che il mio migliore amico mi aveva lasciato, assieme
ai miei soldi, comprai la sua casa. Ed anche quel libro di astronomia
costosissimo che avrebbe tanto voluto regalarmi e che io adoravo. Lo tengo
ancora con me.
Di A. non seppi più nulla. Perché non si fosse fatta viva, perché non avesse più scritto
niente. La odiai, per molto tempo, per il suo egoismo.
Ma
qualche anno dopo, arrivò della posta per me.
Atsushi
Minamisawa era deceduto, e nel suo testamento aveva
voluto che mi fosse recapitato un pacco di lettere. Un enorme pacco di lettere,
la cui metà, mi resi conto, era stata scritta da me, e
l’altra metà letta dalla mia voce. L’intera corrispondenza di Masaki, e della persona che aveva amato.
Allegata
vi era un’ultima missiva, indirizzata a me.
Fu così
che venni a scoprire che non era mai esistita una signorina A., perché la persona a cui Masaki mi aveva chiesto di scrivere per anni era quello
stesso Atsushi Minamisawa
che lo aveva assistito fino alla sua morte.
A. non era rimasta a casa. Era
arrivata in tempo, e aveva dato il suo ultimo saluto a
Masaki. Aveva esaudito il suo ultimo desiderio
inespresso: essere con lui fino alla fine.
Quella
considerazione mi bastò, e non giudicai il mio amico. Non volli. Mi bastava
sapere che quel sorriso sulle sue labbra, quell’ultimo
sorriso, fosse vero. Che avesse vissuto e fosse morto sorridendo, comunque. Ero felice per lui.
Scoprii
anche che spesso, molto spesso, durante i loro incontri, Atsushi
aveva proposto a Masaki di trasferirsi ad Hull, presso la sua famiglia,
così da poter stare assieme. Ma Masaki,
quel testone, aveva sempre rifiutato, perché non voleva essergli di peso.
Poi il più
nobile si era sposato, ed aveva avuto dei figli, ma nonostante questo non aveva
mai smesso di amare il mio migliore amico.
Nella
lettera mi ringraziava, perché senza di me non sarebbero mai riusciti a
rimanere così in contatto. Mi lasciò in eredità anche una piccola somma di
denaro, e mi comunicava con gioia che sarebbe stato seppellito di fianco a Masaki, nel luogo in cui si erano incontrati, così sarebbero potuti rimanere assieme per sempre.
Non ho
mai raccontato a nessuno questa storia, e la conservo gelosamente, anche ora
che sono vecchio. Ne faccio parte anche io, mi ci sono ritrovato in mezzo, ed
in parte la sento anche mia.
Masaki
è stato l’unico amico che abbia mai avuto, l’unico vero, e lo ricorderò per sempre, anche dopo la morte. Sono molte le cose
che non ho conosciuto di lui, della sua vita, del suo
amore. Non dimenticherò mai il suo viso sporco la prima volta che lo vidi, la sua forza d’animo, il suo sorriso ed il suo
prendermi in giro. Era una testa calda, ma era buono. Ha
sempre cercato il suo posto nel mondo, ha sempre combattuto per
qualcosa.
Ci è
riuscito, io lo so.
Per curiosità, lessi anche quell’ultima lettera che mi aveva fatto scrivere, e a cui
aveva aggiunto qualcosa.
Piansi. E fui orgoglioso di lui.
E lo
sono ancora.
Una lettera è un messaggio intimo,
un pezzo di vita che una persona desidera far conoscere a qualcun altro, uno
scritto vero ed autentico in cui si profondono le proprie emozioni ed i propri sentimenti. Per scrivere una lettera ci vuole del tempo, e con una lettera si può dedicare questo
tempo anche ad una persona lontana miglia. Con una lettera si rimane in
contatto, e così facilmente.
Basta solo saper scrivere.
“Atsushi.
Volevo vederlo
scritto, almeno una volta.
Masaki.”
Illiterate-
how to write a letter- END
*****
Orbene.
Ho
finito.
Oddio,
non ci credo.
Ho finito
davvero-
Ok, la
smetto, scusate.
Si, è
davvero lunga, ho quasi sforato le 8000 parole, e devo
ringraziare che Fay e Zael
abbiano permesso le two-shots, altrimenti sarei stata
fuori-
Che
dire. Come avete potuto constatare, la fic si ambienta
nella Londra del XVIII secolo. Ho preso ispirazione dalla vita di Samuel Richardson, un romanziere di quegli anni, famoso per essere
stato il primo a scrivere il cosidetto “romanzo
epistolare”, ossia composto da lettere scritte in
prima persona che narrano gli eventi. Qui il narratore cessa di
essere onnisciente, e si cala nel punto di vista del personaggio che
scrive la lettera. Io non ho usato la lettera, come metodo di narrazione, ma ho
mantenuto la prima persona. Ammetto di essermi divertita parecchio ad
immedesimarmi in Kurama, perché è un personaggio che
non mi va molto a genio (anzi, non lo sopporto proprio, si può dire). L’ho “riscoperto”,
a mio modo. La prima persona mi ha anche aiutato (e spero di esserci riuscita),
a fuordeviarvi dalla reale identità della signorina A.. Se ci fate caso, nel discorso
indiretto che riporta le parole di Masaki, o nelle
sue stesse parole nel discorso diretto, non c’è nulla che possa indicare
esattamente il sesso della persona a cui scrive, avendo usato aggettivi neutri
e/o giri di parole vari xD L’ho fatto forte del fatto che, in inglese, gli
aggettivi non hanno genere, e dunque in una lettera scritta in prima persona si
può benissimo scambiare l’uomo per la donna e viceversa. E’ Kurama
che, logicamente, fraintende e dà ad A.
una connotazione femminile (ovviamente, insomma, mica andava a pensare che
fosse un uomo, visti i tempi). Ho preferito non approfondire l’argomento dell’omofobia
e lasciare che Kurama lasci
passare la cosa senza soffermarcisi troppo, perché ho creduto che avrebbe stonato
con tutto il resto della fic. In ogni caso, di certo non approva, non del
tutto. E’ solo contento per il suo migliore amico, tutto qua.
Ho messo “het” tra le coppie, nell’anteprima, perché se avessi
scritto shonen-ai, l’effetto che volevo dare non ci
sarebbe stato, e il mio puntare tutto sulla rivelazione shock (?) della coppia
uomo/uomo sarebbe andata a farsi friggere amorevolmente
(?).
Per
quanto riguarda la sua occupazione, quella di aiutare gli illetterati a
scrivere e leggere lettere, è un qualcosa che esisteva sul serio, a quel tempo,
e lo stesso Richardson lo faceva
(grazie Rich, merito tuo se mi è venuta l’ispirazione
<3).
Per
quanto riguarda le poste, a quell’epoca si pagava una
tassa, a carico del destinatario, per le lettere ricevute, ed il francobollo
ancora non esisteva.
La moglie
di Kurama è Hamano. Si, non
lo dico, ma è così, fidatevi (?) *fugge*
Non ho
resistito agli accenni Yuukina, pardon-
Ho
cercato di mantenere anche, parlando del romanzo settecentesco inglese, quel
realismo e quella descrizione dettagliata delle cose che ne è
propria, e spero di esserci riuscita.
Spero che la fic vi sia piaciuta, e che la mia interpretazione di Kurama possa considerarsi relativamente passabile (?).
Ringrazio
Fay e Zael per aver indetto
il contest, in bocca al lupo a tutti i partecipanti!
Alla
prossima!
Greta.