ZENZERO E CANNELLA
Capitolo 6.
Notre Dame era gremita
di gente alle ore dodici di quella domenica quasi estiva e molto calda.
I colombi appollaiati
sulla piazza erano ospiti aggiunti alla fiumana di persone ben vestite, in attesa
della sposa; tinte color sorbetto si alternavano a pregiate stoffe e gli
addobbi floreali color lavanda facevano sembrare l’ile de la citè quanto di più
vicino c’era a un dipinto di Monet.
Una bianca Rolls Royce
Princess avanzò fra la folla strimpellando il clacson a festa; dai vetri scuri
dell’auto il volto radioso di una ragazza faceva capolino dal velo di tulle
bianco. L’auto si fermò al centro esatto della piazza; la ragazza venne aiutata
da suo padre nel ridiscendere, un uomo impettito in uno smocking nero di satin
con un fiore di lavanda e il fazzoletto bianco nel taschino, mentre alcune
damigelle –sopraggiunte con una successiva auto- le furono subito intorno
danzando intorno alla lunga coda dell’abito che indossava.
Un raggio di sole la
colpì. Sorrise, bella come non mai. Uno sguardo complice con l’uomo che la
teneva sotto braccio fu il segnale del cadenzare i primi passi verso il portone
principale, dove ad attenderla c’era il principe azzurro di tutte le favole.
Ora della sua.
Quella ragazza, ero
io.
Era il dieci giugno
del millenovecentotrentotto, esattamente un mese dopo il nostro fidanzamento
Aurelien si apprestava a fare di me la signora Bonnet-Chedjou.
Era stato assai
difficile rimanere concentrata sulle parole del cardinale Jean Verdier, durante
la predica, perché le lacrime di mia madre avevano riempito la navata di sommessi
ansimi; guardavo estasiata i rosoni di vetro e le alte vetrate dai mille colori
sgargianti dipingere sul volto del mio compagno petali di meraviglia sul viso.
Non v’era altra luce se non quell’improvviso gioco che i raggi di sole
all’esterno conducevano con le nuvole, quando potenti le bucavano filtrando
all’interno della cattedrale sotto forma di arcobaleno. C’era un motivo, per
cui tutta la vita avevo sognato di essere sposa lì e quello che di lì a poco sarebbe
stato mio marito, sorrideva soddisfatto al di sotto del suo cilindro,
contemplando insieme a me l’incanto di tanta attesa; c’erano volute delle
promesse e onestamente qualche franco in più -Aurelien aveva posto come
clausola inscindibile il tempo, un mese esatto e non di più- per convincere il
prefetto a donare al rampollo di casa Chedjou lo straordinario consenso per
svolgere lo sposalizio in Notre Dame, ma alla fine ogni spasimo era stato ben
ricompensato e noi eravamo lì, mano nella mano a giurarci amore eterno in
quello che sembrava il paradiso in terra.
“Aurelien Jacque
Chedjou vuoi tu prendere la qui presente Deesire Anaelle Bonnet come tua
legittima sposa promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella
cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte
non vi separi?!”
“Lo voglio.”
“Deesire Anaelle
Bonnet vuoi tu qui prendere Aurelien Jacque Chedjou come tua legittimo sposo
promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella cattiva sorte, in
ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte non vi separi?!”
“Lo voglio.”
“Per i poteri
conferitemi dalla Santa Chiesa, Aurelien e Deesire, vi dichiaro marito e
moglie.”
Un bacio sugellò il
patto delle nostre famiglie.. e il nostro amore; agli occhi di molti eravamo solo delle banconote che messe
insieme ad altre banconote assicuravano la sopravvivenza dei nostri imperi
–nonostante la romantica e diventata ormai argomento da salotto per signore
dichiarazione di Aurelien- ma per noi era tutto straordinariamente vero e vivo.
Le campane suonarono a
festa, mi voltai raccogliendo il mio abito, guardando verso l’uscita, dove le
damigelle ci aspettavano ordinate per il lancio del riso; guardai alla volta di
mia madre, ai suoi occhi rossi e il fazzoletto stretto fra le mani guantate di
raso, scorsi il viso di Martin e Ines visibilmente emozionati e infine a lui,
mio marito, l’uomo più compito e soddisfatto sulla faccia della terra e sentii
che ero esattamente dove volevo essere. Anche se le gambe avevano preso e
tremare.
“Sto tremando di paura.”
Sussurrai all’orecchio dello sposo.
“Il peggio è passato.”
Mi sorrise, stringendomi più forte la mano. “Madame Chedjou…” Mi presentò il
suo braccio e lo afferrai con determinazione; scendemmo solennemente per la
navata centrale, qualcuno sussurrava impaziente le proprie felicitazioni,
qualcun altro ci sorrideva e i più compiti annuivano con il capo. Le bambine
timide e speranzose da dietro le gonne delle loro mamme guardavano quella sposa
e il suo abito innovativo di pizzo e trasparenze con inserti di perle e
cristalli lungo tutta la figura aderente fino al ginocchio e più ampio sul
finire in una interminabile coda di tulle; una principessa moderna per una
fiaba dal sapore antico.
Le tre opzioni di mia
madre erano chiaramente andate a farsi un bel giro.
Mi resi conto che era
fatta solo nell’istante in cui il riso volò sopra le nostre teste, mentre
Aurelien mi teneva stretto a sé svicolando le sei damigelle che avevamo scelto
fra parenti e amici e mi alzò da terra, facendomi volteggiare nell’aria; sorrise
ai fotografi, mi condusse alla macchina dove inserì la sicura e ordinò
all’autista di partire.
“Aurelien dove stiamo
andando?! Dovevamo girare per..”
Mi azzittì con un
bacio. “Voglio mia moglie tutta per me.” Lo baciai a mia volta eccitata
dall’improvviso cambio di programma e perché no sollevata al pensiero di poter
rimandare di un po’ l’orda di donne super eccitate e le loro mille domande.
“Si fermi qui,
grazie.”
Scendemmo al caffè
Allard, dove avevamo avuto il nostro primo appuntamento; sorrisi nervosa mentre
un cameriere ci scortava in un tavolino appartato e prenotato per l’occasione. Di
certo non passammo inosservati vestiti a quella maniera meritandoci gli
applausi delle donne e i fischi degli uomini stile occasione di caccia, mentre
sfilavamo timidi e affrettati.
“La tua cioccolata e
il mio caffè.”
Aurelien spinse verso
di me una fumante tazza; aveva riprodotto quel giorno fedele all’originale, mi
rilassai abbassando le spalle e accucciando la testa sulla sua spalla. “Si
domanderanno dove siamo finiti.” Tirai su il cucchiaino portandolo alle labbra;
solo in quel momento mi accorsi di avere fame e di averla almeno da un mese,
cioè da quando le estenuanti prove dell’abito mi avevano costretta a
controllarmi.
“Deesire se potessi
resterei in questo caffè, solo con te, tutto il giorno.”
“Ansia da prestazione,
Monsier Chedjou?!” Mi guardò sgranando gli occhi e lì capii che aveva travisato
del tutto le mie parole. “Aurelien, no, volevo dire per il pranzo.. le
persone..” Arrossii violentemente incartandomi nelle mie stesse intenzioni; lui
si chinò su di me mettendomi a tacere per la seconda volta con un bacio.
Cominciava a piacermi questo suo modo di togliermi.. il fiato.
“Anche.” Soffiò sulle
mie labbra, ridendo malizioso. “Non ho molta pratica con questo genere.. di
cose.”
“Ah.” Sobbalzai, il
caro maritino aveva la virtù ancora intatta; mi sentii spudoratamente e
scioccamente sollevata a quelle parole. “Beh anche io.” Mi coprii letteralmente
la faccia nascondendola dietro la tazza.
“Ovviamente.”
Rimbrottò lui in maniera molto mascolina, come se avessi detto l’ovvietà del
secolo. “Non sarebbe bello vivere con il costante desiderio di uccidere
qualcuno.” Mi sorrise in modo affascinante e ipnotizzante; ero totalmente persa
nei suoi occhi verde bottiglia, ma una leggera sensazione di panico mi prese
alla bocca dello stomaco. Voltai lo sguardo altrove cercando di non fissarmi
sul pensiero di me e lui e i nostri corpi nudi incastrati come anaconde furenti;
fu tutto inutile, perché mi sentivo come un truciolo accanto alla scintilla..
presto, molto presto, avrei preso inesorabilmente fuoco.
Il nostro ricevimento
di nozze fu dato in una delle più importanti sale dell’Opera e non ricordo
granchè del resto della giornata, a parte il non aver toccato cibo, la miriade
di persone con cui mi ero intrattenuta, alcuni parenti giunti dal lontano
Marocco del quale ignoravo categoricamente l’esistenza, più tutta una serie di
consuetudini abbinate anche al peggior matrimonio mai visto; una cosa la
ricordo bene, Juliette Dupont aveva afferrato –dal suo metro e settantasette-
il mio bouquet di calle bianche e lavanda, lasciando a bocca asciutta tutte le
mademoiselle da marito di mezza Parigi che contava, fra cui le isteriche cugine
di Aurelien –le compativo, ai loro occhi ero quanto di più detestabile
esistesse e la sola vicinanza quando cercavano di intrattenermi mi faceva
venire l’orticaria- e l’incontro con Madeleine Chedjou, la famosa reietta delle
aziende più importanti della città, l’anticonformista della famiglia e madre di
Fabien.
Era una donna
straordinariamente elegante, sebbene frequentasse i pittoreschi vicoli di
Montmartre e la sua nomina da bohemien la precedesse, con lunghi capelli color
cenere e degli occhi verdi da far girare la testa, del tutto uguale a suo
figlio e del tutto differente da quello che era stato suo marito, Baptiste
Moreau. I due erano arrivati insieme, stavolta senza la giovane dama di
Baptiste –a letto con una terribile influenza- al seguito e rimasi colpita e
ammirata dal loro rispetto reciproco e affiatamento. Altra grande assenza che
non potei fare a meno di notare fu quella dello stesso Fabien; sì, era
presente, ma se ne stava così defilato e decisamente meno chiassoso e ubriaco rispetto
all’ultima volta che ci eravamo visti -e decisamente scontrati- che sembrava
non ci fosse. Non me ne preoccupai e gli fui grata, dato le cinque dita che gli
avevo rifilato sul viso e le parole infamanti che avevo pronunciato dopo il
tentativo maldestro di baciarmi.
“Vieni, comincia la
quadriglia!” Aurelien mi rubò ad un gruppo di attempate carampane e mi trascinò
sul lato della sala dove un altrettanto gruppo di attempate stavano
disponendosi per il ballo più faticoso e dispendioso del repertorio francese.
Declinai con il capo, ma sorrise così speranzoso che non potei fare altro che
accettare. A malincuore mio e dei miei poveri piedi.
“Solo questo! Ho
bisogno di respirare!” Annuì e ci lanciammo nella foga.
Quando la musica scemò
pregai mia madre di occuparsi del cambio d’abito; ero sudata, i capelli una
matassa informe, per di più il mio bellissimo abito era diventato d’intralcio
dato lo svolgimento della festa. Mio marito mi avrebbe costretta a ballare
tutta la notte e chissà, non ero proprio deliziata al pensiero di doverlo fare
per tutto il tempo racchiusa in un bozzolo di tulle, costoso, ma pur sempre
asfissiante e ingombrante. Neanche a dirlo il salottino per la rimise in forme
era pieno zeppo di grucce e scintillanti abiti; afferrai disinvolta il primo che
mi desse la sensazione di essere comodo, pratico ma sufficientemente
appariscente da accontentare le voglie di Clorine Fontaine; certo mi sarebbe
mancata la mia ingombrante mamma, ma il pensiero di non dover più dipendere dai
suoi sguardi accusatori quando aprivo un armadio, mi aveva fatto tirare più di
un sospiro di sollievo. Una coiffer si occupò di far sembrare la mia capigliatura
appena fresca di lavaggio, acconciandola con un semi raccolto di lato,
rianimando le mie onde attorcigliandole fra le dita. Annuimmo tutte e tre
soddisfatte, baciai Clorine e tornai dove ero.
Camminando per il
corridoio che separava i salottini privati alla sala principale del ballo di
nozze mi soffermai su una sala più piccola da quale uscivano zaffate di sigaro;
una voce a me familiare e una decisamente roca e sensuale sparlavano di questo
e di quello, infilando dentro un angusto di battito su l’oggettiva bellezza
architettonica del posto in cui ci trovavamo. Madeleine Chedjou mi intravide e
mi fece cenno d’avanzare; Fabien era seduto scomposto alla sua destra e mi
guardò per tutto il tempo ci misi a mettermi seduta; la donna aveva alle labbra
uno di quei sigari che si vedono solo a tizi con baffi alla Salvador Dalì.
“Spero non ti dia
fastidio.” Boccheggiò del fumo denso e dolciastro squadrandomi da capo a piedi.
“No Madame Chedjou.”
La vidi sorridere per aver accentuato il suo cognome da nubile, “Mio padre è
marocchino e un grande estimatore di tutto ciò che fa fumo.”
Sorrise porgendomi il
sigaro. “Ecco spiegato il bellissimo colore ambrato della tua pelle.”
Negai con il capo.
“Ahmed Bonnet non è quello che si direbbe un pallido francese.” Rise stavolta
veramente divertita, girando il capo verso Fabien.
“Non mi avevi detto
fosse così simpatica.” Tornò su di me, accorciando la distanza che ci separava.
“So che sei un estimatrice d’arte.” Annuii riflettendo su quanto altro Fabien
le avesse raccontato di me. “Perfetto, allora gradirai senza dubbio lo
splendido Bacio di Klimt che mi ha costretto a scovare per te.” Cosa c’era di
perfetto nella voglia di prendere a calci Fabien fino a sentirlo piangere? Lei
mi sorrise incantata ed io ero sempre più piccola e sprofondata nella mia
strana posizione su quel divano d’un tratto scomodo come una seduta su un rovo
di rose. Avvampai. Mi poggiò la mano sul braccio e sussurrando continuò.
“Tranquilla è il mio mestiere scovare occasioni. E’ stato un colpo di fortuna.”
Inspirai lieta che avesse interpretato in altro modo il mio rossore e quasi
certa che Fabien non avesse -diciamo- “spifferato” altro.
“Non doveva darsi
pena, signora Chedjou, ma la ringrazio.”
“Chiamami Madeleine,
cara. Allora, dato che siamo ormai parenti, posso dirti una cosa in tutta
franchezza?” Fabien la guardò piuttosto preoccupato, poi si fermò su di me e
alzò le spalle. “Auguri Deesire, ti serviranno cara ragazza, questa famiglia
è.. diciamo assai ingombrante. Spero tu sia sufficientemente pronta.” Non avevo
mai visto Ines e Martin sotto questo aspetto, ma chiaramente so che mirava al
Chedjou senior, Jacque, soffermandomi per un attimo alla austera figura dell’uomo;
sì poteva metter una certa sensazione di disagio ma.. io avevo Aurelien, ero
certa che non sarebbe successo niente con lui al mio fianco. Le sorrisi
benevola, non doveva essere facile vestire i panni della reietta, come non
doveva essere facile vivere una vita classificata da tutti “outsider” solo
perché si è perseguiti il sogno della libertà, accettando tutti i risvolti
della medaglia. Fabien le somigliava moltissimo, al di là dell’aspetto fisico,
i loro occhi erano accesi dal sacro fuoco dell’arte, in loro era vivo e potevi
toccarlo con la mano l’ardore dell’animale selvatico, l’istinto del cacciatore
e il volo dell’aquila. Erano affascinanti e ipnotici. Letali, da un certo punto
di vista. Ed io mi sentii stranamente a disagio con i loro quattro occhi verde-azzurro
puntati addosso.
“Pare che da stasera
mi converrà tenere una carabina sotto al letto.” Ero piuttosto ironica ma
Madeleine rise battendo energicamente la mano sul divano. “Ti ringrazio, sono
sinceramente contenta di averti conosciuto e di far parte della tua famiglia.”
La donna mi sorrise di
un bel sorriso di porcellana. “Credo che le mie chiacchiere possono bastare per
ora, vi lascio miei cari.” Sfilò dalla borsetta un ampolla di profumo e se ne
spruzzò una quantità tale da farci tossire, guardandoci. “Tuo padre mi sta
addosso come quando avevamo vent’anni.. un sigaro ogni tanto fa bene
all’anima.” E se ne andò volteggiando lasciando nella stanza un silenzio
assordante.
Feci per alzarmi e
andare via dal muto e laconico Fabien quando quest’ultimo sfilò dal suo posto
al mio; lo guardai agghiacciata spostandomi indietro verso il bordo più estremo
del divano, assottigliandomi affianco al bracciolo. “Ti prego resta, non ho
avuto modo di farteli, ma volevo porti i miei più sentiti auguri.” Lo guardai
come se avesse detto un ingiuria pesantissima, imbronciando il volto. “Sono qui
in pace.” Aggiunse con voce flautata, alzando le mani, ma non bastò a farmi
rilassare.
“Lo splendido bacio di
Klimt dice il contrario però.”
“E’ un quadro
bellissimo..” Sorrise isterico, prendendomi la mano; il contatto mi fece
irrigidire. “Non avercela per quel bacio è stato solo uno stupido errore.” Mi
guardai attorno nervosa e lo pregai con lo sguardo di calmare la voce, non che
se lo fosse dimenticato dato il modo in cui eravamo abbigliati, ma eravamo ad
un matrimonio, al mio matrimonio e se malauguratamente una pettegola da salotto
ci avesse udito ci saremo trovati a un funerale. Il suo funerale!
“Parliamo del quadro
Fabien?! Un bellissimo quadro, quanto al bacio uno stupido errore, certo. Uno
stupido errore da non ripetere.” Mi guardò accigliato ma non riusciva a
trattenersi dal ridere, riuscivo a percepire le sue smorfiette all’angolo della
bocca, trovandolo irritante, come i suoi costanti cambi d’umore. “Devo andare,
mio marito si starà domandando dove sia.” Alla parola marito guardò in basso,
quasi deluso. Cominciavo a dubitare che si rendesse conto dove si trovava e
cosa era venuto a fare. Mi alzai e lui con me, di rimando. Un riflesso cauto.
“Non succederà più
puoi stare tranquilla.” Si sistemò il colletto della giacca, prendendo un
respiro a pieni polmoni. “Auguri Deesire, che tu e Aurelien possiate godere
della felicità che meritate.” Oltrepassò la mia figura sfiorandomi con la
spalla; in quell’istante tutte le fiamme si spensero nei suoi occhi.
Tutto ciò che mi
raccontarono a seguire fu che la famiglia Moreau –pare che Baptiste si prodigò
in lunghe scuse- abbandonò il ricevimento a metà in preda ad urgenze
inderogabili. Tutti pensarono alla giovane damina di monsieur Moreau a casa
malata, ma la fretta dei passi di Fabien la diceva lunga.
Dieci ore dopo il
nostro sì, dieci ore di balli, cibo, chiacchiere e intrattenimento Aurelien
fece caricare la nostra auto con i nostri bagagli direzione St. Honore Fabourg;
i miei genitori ci avevano fatto dono di un delizioso appartamento pochi numeri
più giù di quello dei miei suoceri. Ero stata perentoria, niente di troppo
eccessivo e nulla di così sfarzoso da richiedere la presenza di troppa servitù;
eravamo così giovani da non desiderare di avere troppo spazio vuoto e troppo
via vai fra di noi.
“Stai attenta.” Mia
madre mi circondò le spalle con il soprabito; l’incrollabile fede di Clorine
cadde nell’istante in cui realizzò che la sua bambina stava lasciando il nido.
Era umana, dunque. Mi ritrovai a sorridere provando un misto di sensazioni
indecifrabili guardandola; ansia, aspettative, passione, ma anche felicità, gioia,
speranza. “Ricorda, non sono mai troppo lontana per te.”
Le sorrisi coprendola
con un largo abbraccio. “Sono solo dall’altra parte del fiume.” Mio padre ci
guardava come una sentinella vigile, feci segno con la mano di avvicinarsi e
restammo così, fermi in un abbraccio solidale e familiare. “Vi voglio bene, ma
adesso dovete lasciarmi andare..” Dissi quasi soffocata dal troppo amore e papà
rise slegandoci. “Ti vogliamo bene. Auguri figlia mia.”
“A presto papà.” Li
baciai sulle guance ed entrai in auto; la mia mano li accompagnò salutandoli
fino a quando i loro profili non si persero con il buio della notte.
“Aspetta.” Giunta al
grande portone con le maniglie di ottone Aurelien mi bloccò il passaggio. Mi
sollevò da terra prima di varcare la soglia, facendosi spazio nell’immensa sala
d’apertura; c’eravamo già stati ovviamente -Ines e Clorine ci avevano
scarrozzato nei sobborghi più malfamati alla ricerca di oggetti d’arredamento
unici- ma metterci piede da marito e moglie significava adesso tutta un'altra cosa.
Quello sarebbe stato ora il nostro nido d’amore, niente più fughe notturne,
niente lettere e inviti al prossimo appuntamento al sapor di lavanda, niente
più lunghe attese; avrei avuto Aurelien quando avrei voluto e lui avrebbe avuto
me alla stessa maniera, avremmo condiviso il quotidiano, le abitudini e in
qualche modo ci saremmo conosciuti più a fondo. Ero pronta, impaziente di
cominciare quell’avventura insieme a lui.
“Credo ci vorranno
anni prima di far entrare tutta quella roba.” Lo osservavo mentre gestiva i
facchini con i regali in una sala attigua che con più calma avremo sistemato
come piccola sala cocktail; mi sorrise di rimando, posando sul pavimento un
qualcosa dalla mole ingombrante. Fissai inorridita il trambusto e il caos
attorno a noi quando mi si avvicinò massaggiandomi le spalle.
“Perché non vai a
farti un bel bagno caldo amore mio?” Mi baciò il collo arditamente; mi sentii
improvvisamente accaldata. “Ti raggiungo appena mi libero di loro.” Sussurrò,
prima di accarezzarmi i fianchi. Lo guardai fintamente sconvolta e salii ai
piani superiori; c’era un odore di mobili nuovi, il marmo era perfettamente
lucido e le porte smaltate di fresco, i lampadari barocchi illuminavano le
stanze, ovunque mi girassi fiori. In punta di piedi entrai in quella che era la
camera padronale; sussultai come la prima volta che l’avevo vista, perché era
enorme, con una tappezzeria alle pareti di grandi fiori neri che si
intrinsecavano fra di loro e il letto a baldacchino di ferro battuto al centro.
Attigua alla stanza avevamo un bagno personale, dal quale si accedeva mediante
un arcata che nascondeva un corridoio circoscritto da panche in legno, dove la
santa donna che era mia madre aveva fatto riporre ciò che non era entrato nei
vagoni letto che erano gli armadi circostanti e questo, era tutto un dire circa
la mole di abiti, soprabiti e camicie da notte mi avesse fatto recapitare.
Aprii nervosa le ante sperando che non si fosse dimenticata che adesso avevo un
marito e notai con un certo stupore una fila di abiti freschi dal taglio
maschile suddivisi per colore e fattezza; mio marito doveva essere della
categoria più vicina a quella di mia madre.
Sbuffai richiudendole
con forza, andai spedita in bagno e lasciai scorrere dell’acqua nella vasca con
i piedi di ottone; l’adoravo, era grande da permettere a più di una persona di
starci comodamente dentro e… arrossii ai miei pensieri indecentemente arditi.
Quando fui ben soddisfatta della quantità e temperatura dell’acqua mi sfilai
l’abito a tunica togliendomi la soddisfazione di mandarlo in un angolo con un
calcio formidabile; mi rilassai non appena le membra entrarono in contatto con
l’acqua, immersi la testa espirando e lasciai che ogni peso e fatica scivolasse
sul fondo della vasca assieme a ogni pensiero.
“D-da quanto sei lì?!”
Aprii gli occhi dopo un tempo incalcolabile, Aurelien era appoggiato al bordo
della vasca e mi guardava. Lo guardai famelica; si era cambiato, indossava dei
pantaloni color kaki sorretti da un paio di straccali calati sui fianchi e dove
prima c’era una camicia capeggiava una canottiera di flanella scomposta e dei
bicipiti allungati dalla pelle dorata.
“Da troppo poco
tempo..” Lasciò cadere la frase innocentemente fra le labbra rosse. “Sei così
bella Deesire.”
Incoraggiata dalla sua
carezza fra i capelli, fermai la mano stringendola forte nella mia, con lo
sguardo più eloquente che potessi indossare; e capì, perché si alzò facendo
volare pantaloni e canottiera sul pavimento freddo, l’intimo, rimanendo nudo e
bello, forte e potente come non lo avevo mai visto prima. Accovacciai le gambe
al petto e lo aiutai ad entrare in acqua; non so dire se fossero i nostri fiati
sommessi dall’emozione di stare nudi così a contatto o i battiti dei nostri
cuori a far più rumore in quella grande ma allora piccola vasca, in quella
stanza, di quella casa, in quella notte di Parigi di quasi estate.
La brezza entrava
leggera fra le imposte, quando Aurelien posò delicatamente il mio capo sui
cuscini, baciandomi delicatamente; potevo sentire i grilli cantare dagli alberi
la loro litania dell’estate, il loro canto d’amore. Poi sarebbe tutto finito.
Ma non per noi.
La pelle di Aurelien
scottava contro la mia, ogni sua estremità aderiva perfettamente al mio corpo
giovane e voluttuoso; restò su di me ad osservare ogni declino, ogni curva,
ogni incavo, percorso dal suo sguardo vorace, aiutato da una mano coraggiosa
dal tocco gentile e da labbra ardenti a seguire. Mi sentii come se potessi
esplodere da un momento all’altro, come polvere di stella dopo l’incendio, un
micro cristallo in una notte buia e tempestosa. Aurelien era la terra brulla
sulla quale posarmi, il porto per i marinai dopo il viaggio di anni. Il suo
corpo potente, formato e per nulla infantile, visto dalla prospettiva inclinata
delle mie gambe intrecciate alle sue, era ancora più deliziosamente squisito,
come i movimenti leggeri che le sue spalle percorrevano dopo ogni risalita, come
i muscoli flessuosi delle gambe che creavano nuove spinte, le vene del collo
che pulsavano l’ardore con cui mi stava facendo sua. Avevo scritto fiumi di
parole mai pubblicate nei miei racconti, su che genere di fantasia e
aspirazione nutrivo per gli incontri amorosi dei protagonisti delle mie storie,
ma nessuna parola o immagine avrebbe mai potuto competere con quello che il
corpo mio e di Aurelien stavano creando, fra quelle coperte di seta scure, sul
letto grande in quella stanza, in quella casa nel cuore della città, durante
una notte quasi alba che mai più avrei
dimenticato.
***
NDA:
Dire che sono contenta
è dire poco.
Sì lo so.. è solo una
recensione -che una storia la ami a prescindere e la scrivi per te prima di
tutto- ma sapere che almeno una fra voi mi ha concesso l’onore di
trascrivermi i suoi pensieri.. beh mi rende pazza di gioia! E non scherzo.
Quindi, grazie None to Blame tu mi hai resa proprio orgogliosa J
Come ti sono sembrati gli altri capitoli?
Qui si va avanti,
nella mia testa la storia c’è già tutta, devo solo metterla in pratica; in queste
settimane ho scritto e cancellato questo capitolo almeno 10 volte. E mi succede
di rado, non perché sia ‘sta cima ma perché sono un irrazionale, istintiva
“scrittrice” che non guarda mai troppo ai suoi passi. O meglio, scritti.
Mi auguro comunque che
i capitoli vi piacciano.. ovvio.
Vi ringrazio tutte/i per le visite e per le nuove aggiunte
nei seguiti/preferiti.
Un saluto, a presto!
Lunadreamy.