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Autore: Luna_R    10/04/2013    1 recensioni
“Posso invitare la mia futura sposa per un ballo?!”
Quelle furono le prime parole che gli sentii pronunciare.
Acconsentii a farmi trascinare al centro della pista sotto i gridolini eccitati delle giovani presenti; eccoci quà, la fiaba vivente del vissero per sempre felici e contenti. O perlomeno questo era quello che gli altri vedevano in noi. Soprattutto mia madre che nel momento esatto in cui le nostre mani si sfiorarono si sciolse in un brodo di giuggiole.
DAL CAPITOLO 12:
“Io ti credo. Se fossimo di facile comprensione non esisterebbe la scienza. L’uomo non si porrebbe domande e ci costringeremo a vivere una vita piatta, blanda, senza trasporto. Siamo fatti di emozioni incalcolabili e imprevedibili. Credi nel destino, Deesire?!”
Annuii; non ero forse la miglior rappresentazione di foglio bianco sul quale si era sfogato?!
“Le cose accadono perché siamo noi che vogliamo succedano. Dio mi liberi da questa società retrograda e puritana, siamo donne e possiamo decidere della nostra vita! Perciò ti dico: il destino è una bufala amica mia, ascolta il tuo cuore e segui ciò che dice, senti la tua pancia, le vibrazioni del tuo corpo, ascolta la mente ma filtra i divieti.. e non sbaglierai. Decidi. Tu.”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 6.

 

Notre Dame era gremita di gente alle ore dodici di quella domenica quasi estiva e molto calda.

I colombi appollaiati sulla piazza erano ospiti aggiunti alla fiumana di persone ben vestite, in attesa della sposa; tinte color sorbetto si alternavano a pregiate stoffe e gli addobbi floreali color lavanda facevano sembrare l’ile de la citè quanto di più vicino c’era a un dipinto di Monet.

Una bianca Rolls Royce Princess avanzò fra la folla strimpellando il clacson a festa; dai vetri scuri dell’auto il volto radioso di una ragazza faceva capolino dal velo di tulle bianco. L’auto si fermò al centro esatto della piazza; la ragazza venne aiutata da suo padre nel ridiscendere, un uomo impettito in uno smocking nero di satin con un fiore di lavanda e il fazzoletto bianco nel taschino, mentre alcune damigelle –sopraggiunte con una successiva auto- le furono subito intorno danzando intorno alla lunga coda dell’abito che indossava.

Un raggio di sole la colpì. Sorrise, bella come non mai. Uno sguardo complice con l’uomo che la teneva sotto braccio fu il segnale del cadenzare i primi passi verso il portone principale, dove ad attenderla c’era il principe azzurro di tutte le favole. Ora della sua.

Quella ragazza, ero io.

Era il dieci giugno del millenovecentotrentotto, esattamente un mese dopo il nostro fidanzamento Aurelien si apprestava a fare di me la signora Bonnet-Chedjou.

 

Era stato assai difficile rimanere concentrata sulle parole del cardinale Jean Verdier, durante la predica, perché le lacrime di mia madre avevano riempito la navata di sommessi ansimi; guardavo estasiata i rosoni di vetro e le alte vetrate dai mille colori sgargianti dipingere sul volto del mio compagno petali di meraviglia sul viso. Non v’era altra luce se non quell’improvviso gioco che i raggi di sole all’esterno conducevano con le nuvole, quando potenti le bucavano filtrando all’interno della cattedrale sotto forma di arcobaleno. C’era un motivo, per cui tutta la vita avevo sognato di essere sposa lì e quello che di lì a poco sarebbe stato mio marito, sorrideva soddisfatto al di sotto del suo cilindro, contemplando insieme a me l’incanto di tanta attesa; c’erano volute delle promesse e onestamente qualche franco in più -Aurelien aveva posto come clausola inscindibile il tempo, un mese esatto e non di più- per convincere il prefetto a donare al rampollo di casa Chedjou lo straordinario consenso per svolgere lo sposalizio in Notre Dame, ma alla fine ogni spasimo era stato ben ricompensato e noi eravamo lì, mano nella mano a giurarci amore eterno in quello che sembrava il paradiso in terra.

“Aurelien Jacque Chedjou vuoi tu prendere la qui presente Deesire Anaelle Bonnet come tua legittima sposa promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte non vi separi?!”

“Lo voglio.”

“Deesire Anaelle Bonnet vuoi tu qui prendere Aurelien Jacque Chedjou come tua legittimo sposo promettendo di essergli fedele sempre nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finchè morte non vi separi?!”

“Lo voglio.”

“Per i poteri conferitemi dalla Santa Chiesa, Aurelien e Deesire, vi dichiaro marito e moglie.”

Un bacio sugellò il patto delle nostre famiglie.. e il nostro amore; agli occhi di molti eravamo solo delle banconote che messe insieme ad altre banconote assicuravano la sopravvivenza dei nostri imperi –nonostante la romantica e diventata ormai argomento da salotto per signore dichiarazione di Aurelien- ma per noi era tutto straordinariamente vero e vivo.

Le campane suonarono a festa, mi voltai raccogliendo il mio abito, guardando verso l’uscita, dove le damigelle ci aspettavano ordinate per il lancio del riso; guardai alla volta di mia madre, ai suoi occhi rossi e il fazzoletto stretto fra le mani guantate di raso, scorsi il viso di Martin e Ines visibilmente emozionati e infine a lui, mio marito, l’uomo più compito e soddisfatto sulla faccia della terra e sentii che ero esattamente dove volevo essere. Anche se le gambe avevano preso e tremare.

“Sto tremando di paura.” Sussurrai all’orecchio dello sposo.

“Il peggio è passato.” Mi sorrise, stringendomi più forte la mano. “Madame Chedjou…” Mi presentò il suo braccio e lo afferrai con determinazione; scendemmo solennemente per la navata centrale, qualcuno sussurrava impaziente le proprie felicitazioni, qualcun altro ci sorrideva e i più compiti annuivano con il capo. Le bambine timide e speranzose da dietro le gonne delle loro mamme guardavano quella sposa e il suo abito innovativo di pizzo e trasparenze con inserti di perle e cristalli lungo tutta la figura aderente fino al ginocchio e più ampio sul finire in una interminabile coda di tulle; una principessa moderna per una fiaba dal sapore antico.

Le tre opzioni di mia madre erano chiaramente andate a farsi un bel giro.

Mi resi conto che era fatta solo nell’istante in cui il riso volò sopra le nostre teste, mentre Aurelien mi teneva stretto a sé svicolando le sei damigelle che avevamo scelto fra parenti e amici e mi alzò da terra, facendomi volteggiare nell’aria; sorrise ai fotografi, mi condusse alla macchina dove inserì la sicura e ordinò all’autista di partire.

“Aurelien dove stiamo andando?! Dovevamo girare per..”

Mi azzittì con un bacio. “Voglio mia moglie tutta per me.” Lo baciai a mia volta eccitata dall’improvviso cambio di programma e perché no sollevata al pensiero di poter rimandare di un po’ l’orda di donne super eccitate e le loro mille domande.

“Si fermi qui, grazie.”

Scendemmo al caffè Allard, dove avevamo avuto il nostro primo appuntamento; sorrisi nervosa mentre un cameriere ci scortava in un tavolino appartato e prenotato per l’occasione. Di certo non passammo inosservati vestiti a quella maniera meritandoci gli applausi delle donne e i fischi degli uomini stile occasione di caccia, mentre sfilavamo timidi e affrettati.

“La tua cioccolata e il mio caffè.”

Aurelien spinse verso di me una fumante tazza; aveva riprodotto quel giorno fedele all’originale, mi rilassai abbassando le spalle e accucciando la testa sulla sua spalla. “Si domanderanno dove siamo finiti.” Tirai su il cucchiaino portandolo alle labbra; solo in quel momento mi accorsi di avere fame e di averla almeno da un mese, cioè da quando le estenuanti prove dell’abito mi avevano costretta a controllarmi.

“Deesire se potessi resterei in questo caffè, solo con te, tutto il giorno.”

“Ansia da prestazione, Monsier Chedjou?!” Mi guardò sgranando gli occhi e lì capii che aveva travisato del tutto le mie parole. “Aurelien, no, volevo dire per il pranzo.. le persone..” Arrossii violentemente incartandomi nelle mie stesse intenzioni; lui si chinò su di me mettendomi a tacere per la seconda volta con un bacio. Cominciava a piacermi questo suo modo di togliermi.. il fiato.

“Anche.” Soffiò sulle mie labbra, ridendo malizioso. “Non ho molta pratica con questo genere.. di cose.”

“Ah.” Sobbalzai, il caro maritino aveva la virtù ancora intatta; mi sentii spudoratamente e scioccamente sollevata a quelle parole. “Beh anche io.” Mi coprii letteralmente la faccia nascondendola dietro la tazza.

“Ovviamente.” Rimbrottò lui in maniera molto mascolina, come se avessi detto l’ovvietà del secolo. “Non sarebbe bello vivere con il costante desiderio di uccidere qualcuno.” Mi sorrise in modo affascinante e ipnotizzante; ero totalmente persa nei suoi occhi verde bottiglia, ma una leggera sensazione di panico mi prese alla bocca dello stomaco. Voltai lo sguardo altrove cercando di non fissarmi sul pensiero di me e lui e i nostri corpi nudi incastrati come anaconde furenti; fu tutto inutile, perché mi sentivo come un truciolo accanto alla scintilla.. presto, molto presto, avrei preso inesorabilmente fuoco.

 

Il nostro ricevimento di nozze fu dato in una delle più importanti sale dell’Opera e non ricordo granchè del resto della giornata, a parte il non aver toccato cibo, la miriade di persone con cui mi ero intrattenuta, alcuni parenti giunti dal lontano Marocco del quale ignoravo categoricamente l’esistenza, più tutta una serie di consuetudini abbinate anche al peggior matrimonio mai visto; una cosa la ricordo bene, Juliette Dupont aveva afferrato –dal suo metro e settantasette- il mio bouquet di calle bianche e lavanda, lasciando a bocca asciutta tutte le mademoiselle da marito di mezza Parigi che contava, fra cui le isteriche cugine di Aurelien –le compativo, ai loro occhi ero quanto di più detestabile esistesse e la sola vicinanza quando cercavano di intrattenermi mi faceva venire l’orticaria- e l’incontro con Madeleine Chedjou, la famosa reietta delle aziende più importanti della città, l’anticonformista della famiglia e madre di Fabien.

Era una donna straordinariamente elegante, sebbene frequentasse i pittoreschi vicoli di Montmartre e la sua nomina da bohemien la precedesse, con lunghi capelli color cenere e degli occhi verdi da far girare la testa, del tutto uguale a suo figlio e del tutto differente da quello che era stato suo marito, Baptiste Moreau. I due erano arrivati insieme, stavolta senza la giovane dama di Baptiste –a letto con una terribile influenza- al seguito e rimasi colpita e ammirata dal loro rispetto reciproco e affiatamento. Altra grande assenza che non potei fare a meno di notare fu quella dello stesso Fabien; sì, era presente, ma se ne stava così defilato e decisamente meno chiassoso e ubriaco rispetto all’ultima volta che ci eravamo visti -e decisamente scontrati- che sembrava non ci fosse. Non me ne preoccupai e gli fui grata, dato le cinque dita che gli avevo rifilato sul viso e le parole infamanti che avevo pronunciato dopo il tentativo maldestro di baciarmi.

“Vieni, comincia la quadriglia!” Aurelien mi rubò ad un gruppo di attempate carampane e mi trascinò sul lato della sala dove un altrettanto gruppo di attempate stavano disponendosi per il ballo più faticoso e dispendioso del repertorio francese. Declinai con il capo, ma sorrise così speranzoso che non potei fare altro che accettare. A malincuore mio e dei miei poveri piedi.

“Solo questo! Ho bisogno di respirare!” Annuì e ci lanciammo nella foga.

Quando la musica scemò pregai mia madre di occuparsi del cambio d’abito; ero sudata, i capelli una matassa informe, per di più il mio bellissimo abito era diventato d’intralcio dato lo svolgimento della festa. Mio marito mi avrebbe costretta a ballare tutta la notte e chissà, non ero proprio deliziata al pensiero di doverlo fare per tutto il tempo racchiusa in un bozzolo di tulle, costoso, ma pur sempre asfissiante e ingombrante. Neanche a dirlo il salottino per la rimise in forme era pieno zeppo di grucce e scintillanti abiti; afferrai disinvolta il primo che mi desse la sensazione di essere comodo, pratico ma sufficientemente appariscente da accontentare le voglie di Clorine Fontaine; certo mi sarebbe mancata la mia ingombrante mamma, ma il pensiero di non dover più dipendere dai suoi sguardi accusatori quando aprivo un armadio, mi aveva fatto tirare più di un sospiro di sollievo. Una coiffer si occupò di far sembrare la mia capigliatura appena fresca di lavaggio, acconciandola con un semi raccolto di lato, rianimando le mie onde attorcigliandole fra le dita. Annuimmo tutte e tre soddisfatte, baciai Clorine e tornai dove ero.

Camminando per il corridoio che separava i salottini privati alla sala principale del ballo di nozze mi soffermai su una sala più piccola da quale uscivano zaffate di sigaro; una voce a me familiare e una decisamente roca e sensuale sparlavano di questo e di quello, infilando dentro un angusto di battito su l’oggettiva bellezza architettonica del posto in cui ci trovavamo. Madeleine Chedjou mi intravide e mi fece cenno d’avanzare; Fabien era seduto scomposto alla sua destra e mi guardò per tutto il tempo ci misi a mettermi seduta; la donna aveva alle labbra uno di quei sigari che si vedono solo a tizi con baffi alla Salvador Dalì.

“Spero non ti dia fastidio.” Boccheggiò del fumo denso e dolciastro squadrandomi da capo a piedi.

“No Madame Chedjou.” La vidi sorridere per aver accentuato il suo cognome da nubile, “Mio padre è marocchino e un grande estimatore di tutto ciò che fa fumo.”

Sorrise porgendomi il sigaro. “Ecco spiegato il bellissimo colore ambrato della tua pelle.”

Negai con il capo. “Ahmed Bonnet non è quello che si direbbe un pallido francese.” Rise stavolta veramente divertita, girando il capo verso Fabien.

“Non mi avevi detto fosse così simpatica.” Tornò su di me, accorciando la distanza che ci separava. “So che sei un estimatrice d’arte.” Annuii riflettendo su quanto altro Fabien le avesse raccontato di me. “Perfetto, allora gradirai senza dubbio lo splendido Bacio di Klimt che mi ha costretto a scovare per te.” Cosa c’era di perfetto nella voglia di prendere a calci Fabien fino a sentirlo piangere? Lei mi sorrise incantata ed io ero sempre più piccola e sprofondata nella mia strana posizione su quel divano d’un tratto scomodo come una seduta su un rovo di rose. Avvampai. Mi poggiò la mano sul braccio e sussurrando continuò. “Tranquilla è il mio mestiere scovare occasioni. E’ stato un colpo di fortuna.” Inspirai lieta che avesse interpretato in altro modo il mio rossore e quasi certa che Fabien non avesse -diciamo- “spifferato” altro.

“Non doveva darsi pena, signora Chedjou, ma la ringrazio.”

“Chiamami Madeleine, cara. Allora, dato che siamo ormai parenti, posso dirti una cosa in tutta franchezza?” Fabien la guardò piuttosto preoccupato, poi si fermò su di me e alzò le spalle. “Auguri Deesire, ti serviranno cara ragazza, questa famiglia è.. diciamo assai ingombrante. Spero tu sia sufficientemente pronta.” Non avevo mai visto Ines e Martin sotto questo aspetto, ma chiaramente so che mirava al Chedjou senior, Jacque, soffermandomi per un attimo alla austera figura dell’uomo; sì poteva metter una certa sensazione di disagio ma.. io avevo Aurelien, ero certa che non sarebbe successo niente con lui al mio fianco. Le sorrisi benevola, non doveva essere facile vestire i panni della reietta, come non doveva essere facile vivere una vita classificata da tutti “outsider” solo perché si è perseguiti il sogno della libertà, accettando tutti i risvolti della medaglia. Fabien le somigliava moltissimo, al di là dell’aspetto fisico, i loro occhi erano accesi dal sacro fuoco dell’arte, in loro era vivo e potevi toccarlo con la mano l’ardore dell’animale selvatico, l’istinto del cacciatore e il volo dell’aquila. Erano affascinanti e ipnotici. Letali, da un certo punto di vista. Ed io mi sentii stranamente a disagio con i loro quattro occhi verde-azzurro puntati addosso.

“Pare che da stasera mi converrà tenere una carabina sotto al letto.” Ero piuttosto ironica ma Madeleine rise battendo energicamente la mano sul divano. “Ti ringrazio, sono sinceramente contenta di averti conosciuto e di far parte della tua famiglia.”

La donna mi sorrise di un bel sorriso di porcellana. “Credo che le mie chiacchiere possono bastare per ora, vi lascio miei cari.” Sfilò dalla borsetta un ampolla di profumo e se ne spruzzò una quantità tale da farci tossire, guardandoci. “Tuo padre mi sta addosso come quando avevamo vent’anni.. un sigaro ogni tanto fa bene all’anima.” E se ne andò volteggiando lasciando nella stanza un silenzio assordante.

Feci per alzarmi e andare via dal muto e laconico Fabien quando quest’ultimo sfilò dal suo posto al mio; lo guardai agghiacciata spostandomi indietro verso il bordo più estremo del divano, assottigliandomi affianco al bracciolo. “Ti prego resta, non ho avuto modo di farteli, ma volevo porti i miei più sentiti auguri.” Lo guardai come se avesse detto un ingiuria pesantissima, imbronciando il volto. “Sono qui in pace.” Aggiunse con voce flautata, alzando le mani, ma non bastò a farmi rilassare.

“Lo splendido bacio di Klimt dice il contrario però.”

“E’ un quadro bellissimo..” Sorrise isterico, prendendomi la mano; il contatto mi fece irrigidire. “Non avercela per quel bacio è stato solo uno stupido errore.” Mi guardai attorno nervosa e lo pregai con lo sguardo di calmare la voce, non che se lo fosse dimenticato dato il modo in cui eravamo abbigliati, ma eravamo ad un matrimonio, al mio matrimonio e se malauguratamente una pettegola da salotto ci avesse udito ci saremo trovati a un funerale. Il suo funerale!

“Parliamo del quadro Fabien?! Un bellissimo quadro, quanto al bacio uno stupido errore, certo. Uno stupido errore da non ripetere.” Mi guardò accigliato ma non riusciva a trattenersi dal ridere, riuscivo a percepire le sue smorfiette all’angolo della bocca, trovandolo irritante, come i suoi costanti cambi d’umore. “Devo andare, mio marito si starà domandando dove sia.” Alla parola marito guardò in basso, quasi deluso. Cominciavo a dubitare che si rendesse conto dove si trovava e cosa era venuto a fare. Mi alzai e lui con me, di rimando. Un riflesso cauto.

“Non succederà più puoi stare tranquilla.” Si sistemò il colletto della giacca, prendendo un respiro a pieni polmoni. “Auguri Deesire, che tu e Aurelien possiate godere della felicità che meritate.” Oltrepassò la mia figura sfiorandomi con la spalla; in quell’istante tutte le fiamme si spensero nei suoi occhi.

Tutto ciò che mi raccontarono a seguire fu che la famiglia Moreau –pare che Baptiste si prodigò in lunghe scuse- abbandonò il ricevimento a metà in preda ad urgenze inderogabili. Tutti pensarono alla giovane damina di monsieur Moreau a casa malata, ma la fretta dei passi di Fabien la diceva lunga.

 

 

Dieci ore dopo il nostro sì, dieci ore di balli, cibo, chiacchiere e intrattenimento Aurelien fece caricare la nostra auto con i nostri bagagli direzione St. Honore Fabourg; i miei genitori ci avevano fatto dono di un delizioso appartamento pochi numeri più giù di quello dei miei suoceri. Ero stata perentoria, niente di troppo eccessivo e nulla di così sfarzoso da richiedere la presenza di troppa servitù; eravamo così giovani da non desiderare di avere troppo spazio vuoto e troppo via vai fra di noi.

“Stai attenta.” Mia madre mi circondò le spalle con il soprabito; l’incrollabile fede di Clorine cadde nell’istante in cui realizzò che la sua bambina stava lasciando il nido. Era umana, dunque. Mi ritrovai a sorridere provando un misto di sensazioni indecifrabili guardandola; ansia, aspettative, passione, ma anche felicità, gioia, speranza. “Ricorda, non sono mai troppo lontana per te.”

Le sorrisi coprendola con un largo abbraccio. “Sono solo dall’altra parte del fiume.” Mio padre ci guardava come una sentinella vigile, feci segno con la mano di avvicinarsi e restammo così, fermi in un abbraccio solidale e familiare. “Vi voglio bene, ma adesso dovete lasciarmi andare..” Dissi quasi soffocata dal troppo amore e papà rise slegandoci. “Ti vogliamo bene. Auguri figlia mia.”

“A presto papà.” Li baciai sulle guance ed entrai in auto; la mia mano li accompagnò salutandoli fino a quando i loro profili non si persero con il buio della notte.

 

“Aspetta.” Giunta al grande portone con le maniglie di ottone Aurelien mi bloccò il passaggio. Mi sollevò da terra prima di varcare la soglia, facendosi spazio nell’immensa sala d’apertura; c’eravamo già stati ovviamente -Ines e Clorine ci avevano scarrozzato nei sobborghi più malfamati alla ricerca di oggetti d’arredamento unici- ma metterci piede da marito e moglie significava adesso tutta un'altra cosa. Quello sarebbe stato ora il nostro nido d’amore, niente più fughe notturne, niente lettere e inviti al prossimo appuntamento al sapor di lavanda, niente più lunghe attese; avrei avuto Aurelien quando avrei voluto e lui avrebbe avuto me alla stessa maniera, avremmo condiviso il quotidiano, le abitudini e in qualche modo ci saremmo conosciuti più a fondo. Ero pronta, impaziente di cominciare quell’avventura insieme a lui.

“Credo ci vorranno anni prima di far entrare tutta quella roba.” Lo osservavo mentre gestiva i facchini con i regali in una sala attigua che con più calma avremo sistemato come piccola sala cocktail; mi sorrise di rimando, posando sul pavimento un qualcosa dalla mole ingombrante. Fissai inorridita il trambusto e il caos attorno a noi quando mi si avvicinò massaggiandomi le spalle.

“Perché non vai a farti un bel bagno caldo amore mio?” Mi baciò il collo arditamente; mi sentii improvvisamente accaldata. “Ti raggiungo appena mi libero di loro.” Sussurrò, prima di accarezzarmi i fianchi. Lo guardai fintamente sconvolta e salii ai piani superiori; c’era un odore di mobili nuovi, il marmo era perfettamente lucido e le porte smaltate di fresco, i lampadari barocchi illuminavano le stanze, ovunque mi girassi fiori. In punta di piedi entrai in quella che era la camera padronale; sussultai come la prima volta che l’avevo vista, perché era enorme, con una tappezzeria alle pareti di grandi fiori neri che si intrinsecavano fra di loro e il letto a baldacchino di ferro battuto al centro. Attigua alla stanza avevamo un bagno personale, dal quale si accedeva mediante un arcata che nascondeva un corridoio circoscritto da panche in legno, dove la santa donna che era mia madre aveva fatto riporre ciò che non era entrato nei vagoni letto che erano gli armadi circostanti e questo, era tutto un dire circa la mole di abiti, soprabiti e camicie da notte mi avesse fatto recapitare. Aprii nervosa le ante sperando che non si fosse dimenticata che adesso avevo un marito e notai con un certo stupore una fila di abiti freschi dal taglio maschile suddivisi per colore e fattezza; mio marito doveva essere della categoria più vicina a quella di mia madre.

Sbuffai richiudendole con forza, andai spedita in bagno e lasciai scorrere dell’acqua nella vasca con i piedi di ottone; l’adoravo, era grande da permettere a più di una persona di starci comodamente dentro e… arrossii ai miei pensieri indecentemente arditi. Quando fui ben soddisfatta della quantità e temperatura dell’acqua mi sfilai l’abito a tunica togliendomi la soddisfazione di mandarlo in un angolo con un calcio formidabile; mi rilassai non appena le membra entrarono in contatto con l’acqua, immersi la testa espirando e lasciai che ogni peso e fatica scivolasse sul fondo della vasca assieme a ogni pensiero.

“D-da quanto sei lì?!” Aprii gli occhi dopo un tempo incalcolabile, Aurelien era appoggiato al bordo della vasca e mi guardava. Lo guardai famelica; si era cambiato, indossava dei pantaloni color kaki sorretti da un paio di straccali calati sui fianchi e dove prima c’era una camicia capeggiava una canottiera di flanella scomposta e dei bicipiti allungati dalla pelle dorata.

“Da troppo poco tempo..” Lasciò cadere la frase innocentemente fra le labbra rosse. “Sei così bella Deesire.”

Incoraggiata dalla sua carezza fra i capelli, fermai la mano stringendola forte nella mia, con lo sguardo più eloquente che potessi indossare; e capì, perché si alzò facendo volare pantaloni e canottiera sul pavimento freddo, l’intimo, rimanendo nudo e bello, forte e potente come non lo avevo mai visto prima. Accovacciai le gambe al petto e lo aiutai ad entrare in acqua; non so dire se fossero i nostri fiati sommessi dall’emozione di stare nudi così a contatto o i battiti dei nostri cuori a far più rumore in quella grande ma allora piccola vasca, in quella stanza, di quella casa, in quella notte di Parigi di quasi estate.

 

La brezza entrava leggera fra le imposte, quando Aurelien posò delicatamente il mio capo sui cuscini, baciandomi delicatamente; potevo sentire i grilli cantare dagli alberi la loro litania dell’estate, il loro canto d’amore. Poi sarebbe tutto finito. Ma non per noi.

La pelle di Aurelien scottava contro la mia, ogni sua estremità aderiva perfettamente al mio corpo giovane e voluttuoso; restò su di me ad osservare ogni declino, ogni curva, ogni incavo, percorso dal suo sguardo vorace, aiutato da una mano coraggiosa dal tocco gentile e da labbra ardenti a seguire. Mi sentii come se potessi esplodere da un momento all’altro, come polvere di stella dopo l’incendio, un micro cristallo in una notte buia e tempestosa. Aurelien era la terra brulla sulla quale posarmi, il porto per i marinai dopo il viaggio di anni. Il suo corpo potente, formato e per nulla infantile, visto dalla prospettiva inclinata delle mie gambe intrecciate alle sue, era ancora più deliziosamente squisito, come i movimenti leggeri che le sue spalle percorrevano dopo ogni risalita, come i muscoli flessuosi delle gambe che creavano nuove spinte, le vene del collo che pulsavano l’ardore con cui mi stava facendo sua. Avevo scritto fiumi di parole mai pubblicate nei miei racconti, su che genere di fantasia e aspirazione nutrivo per gli incontri amorosi dei protagonisti delle mie storie, ma nessuna parola o immagine avrebbe mai potuto competere con quello che il corpo mio e di Aurelien stavano creando, fra quelle coperte di seta scure, sul letto grande in quella stanza, in quella casa nel cuore della città, durante una notte quasi alba che mai più avrei dimenticato.

 

***

NDA:

Dire che sono contenta è dire poco.

Sì lo so.. è solo una recensione -che una storia la ami a prescindere e la scrivi per te prima di tutto- ma sapere che almeno una fra voi mi ha concesso l’onore di trascrivermi i suoi pensieri.. beh mi rende pazza di gioia! E non scherzo.

Quindi, grazie None to Blame tu mi hai resa proprio orgogliosa J Come ti sono sembrati gli altri capitoli?

Qui si va avanti, nella mia testa la storia c’è già tutta, devo solo metterla in pratica; in queste settimane ho scritto e cancellato questo capitolo almeno 10 volte. E mi succede di rado, non perché sia ‘sta cima ma perché sono un irrazionale, istintiva “scrittrice” che non guarda mai troppo ai suoi passi. O meglio, scritti.

Mi auguro comunque che i capitoli vi piacciano.. ovvio.

Vi ringrazio tutte/i per le visite e per le nuove aggiunte nei seguiti/preferiti.

Un saluto, a presto!

Lunadreamy.

  
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