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Autore: Mary P_Stark    16/04/2013    3 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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N.d.A.: Vi avverto che alcune parti sono un po' forti, perciò tenetevi pronti.



13.

 
 
 
 
 
 


Occorse più o meno una buona mezz’ora, per mettere in pratica il mio piano di depistaggio.
Quando uscimmo dal garage di Fred e imboccammo la via in direzione del centro città, non ci sembrò di essere pedinati da nessuno.
Forse, saremmo riusciti a visionare il contenuto del cd-rom senza essere scoperti o, peggio, raggiunti dal mio aggressore misterioso.
Lance, procedendo ad andatura tranquilla per non rischiare di essere fermato dalla polizia per eccesso di velocità – e quindi renderci visibili – mi fece notare con voce solo parzialmente tranquilla: “Sai che potrebbe non essere da solo, vero?”
“E’ un rischio che dobbiamo correre e poi, finché rimaniamo in un locale pubblico, con voi a guardarmi le spalle, non si avvicinerà. Non può entrare e uscire indisturbato da tutti i reparti riservati al personale di ogni cavolo di esercizio pubblico di Glasgow” gli rinfacciai, brontolando sul sedile posteriore della Mercedes.
“Se per caso sta seguendo noi, o un suo complice ci sta tenendo d’occhio, avremo comunque poco tempo per agire. Potrà anche non togliere la luce, ma ci sono una miriade di altri sistemi per romperci le uova nel paniere” commentò Jerome, turbato non meno di me.
“Dimentichi che hai Miss Malata del Computer, qui in auto” precisò Elspeth, sorridendomi con affetto.
Ghignai – mi aveva sempre presa in giro, per questo – e dissi: “Posso controllare quel cd-rom in pochissimo tempo, ma non sono un mago. Speriamo in bene, Jerome e, soprattutto, speriamo di riconoscere la sua faccia.”
Jerome non parve convinto ma annuì.
Sistemandomi meglio sui morbidi sedili dell’auto, mi chiesi quanto tempo avremmo impiegato, a tutti gli effetti, per scoprire che faccia avesse il mio misterioso nemico.
Ero turbata all’idea che quella anonima ombra riuscisse a seguirmi a quel modo, come se sapesse esattamente come trovarmi, o dove cercarmi.
Io, al contrario, ero inerme e senza alcuna possibilità di comprendere come anticipare le sue mosse.
Cosa non sapevo?

Gleip…

Rizzando le orecchie quando percepii nella mia mente quel sospiro affaticato, mi guardai intorno con aria confusa, chiedendomi chi fosse stato a parlare, ma nulla mi aiutò a comprendere quella stranezza.
Conoscevo a menadito le voci mentali di Lance e Jerome, ed Elly non poteva parlarmi mentalmente. Quindi, chi era stato?
E cosa significava quella parola smozzicata e pronunciata così a fatica?

***

Ammesso che il Presidente Obama avesse delle guardie del corpo così affascinanti, mi sentivo comunque un po’ come lui, in quel momento.
Avanzammo lungo il marciapiede come se fossimo stati in formazione: io ed Ellie nel mezzo, Jerome e Lance sui lati.
Tutti coloro che incrociammo sul nostro passaggio, si guardarono bene dal dirci che stavamo ingombrando lo spazio utile per camminare.
Non appena posavano lo sguardo sulle spalle massicce e lo sguardo incupito di Lance, tutti defilavano o ci lasciavano strada.
Pur sentendomi  tremendamente imbarazzata di fronte a quello sfoggio di pura forza, non me la sentii di dire qualcosa.
Volevo essere protetta, perché mai come in quel momento mi sentivo esposta al pericolo.
Secondo Elspeth non c’era nulla di cui preoccuparsi, al momento, non percepiva niente di anomalo, per cui potevo pensare solo a quello che dovevo fare, senza stare troppo a preoccuparmi.
Sì. In che film?
Una corda di violino non avrebbe potuto essere più tesa di me, e il mio cuore era accelerato all'inverosimile.
Se qualcuno mi avesse anche solo sfiorato per errore, avrei urlato così forte da perforare i timpani dei malcapitati che fossero stati troppo vicini, al momento dell’urlo.
Sentivo la mancanza di Duncan al mio fianco, la calma sicurezza che riusciva a instillarmi e, per quanto Lance e Jerome mi fossero cari e io mi fidassi di loro, non era la stessa cosa camminare al loro fianco.
Elspeth, che mi teneva per mano come se le potessi sfuggire da un momento all’altro, mormorò: “Se riusciamo a vedere la sua faccia, come la mettiamo? Non possiamo mandare l’immagine a nessuno dei nostri computer, perché sono stati sicuramente bloccati in qualche modo.”
“Non può aver bloccato tutti i computer di ogni licantropo d’Inghilterra. Penserò all’ultimo momento a chi mandare la foto” mugugnai, storcendo la bocca.
“All’ultimo momento? Credi sia così vicino da leggerti nella mente?” esalò, impallidendo.
“No, credo che in qualche modo sappia sempre cosa faccio, o cosa penso, altrimenti come si spiegherebbe la sua capacità di beccarmi ogni dove, e di mettermi sempre i bastoni tra le ruote?” brontolai, guardandomi intorno con aria scocciata.
Chi sei? Cosa vuoi da me? Rivelati!, pensai sempre più nervosa.
Naturalmente, nessuno venne a farmi il baciamano o a scaraventarmi un pugno in faccia, e neanche ci avevo sperato.
Tutta quella situazione, però, stava facendomi sentire sempre più inerme e indifesa. Cosa che odiavo.
Avevo la forza di dieci uomini, o forse di più, potevo correre più veloce di una BMW, ero in grado di vedere e sentire più cose di qualsiasi essere bipede o a quattro zampe che camminasse o volasse sulla Terra.
Eppure, non ero in grado di trovare il mio assalitore misterioso.
Peggio, lui si stava facendo beffe di me, precedendomi su ogni fronte, stando sempre un passo innanzi a me, bloccando qualsiasi mia mossa e annullando qualsiasi mio attacco nei suoi confronti.
Ero stanca di lui, dei suoi giochetti psicologici, delle sue manovre evasive. Stanchissima.
Stavolta, l’avrei battuto sul tempo, avrei giocato a lui un tiro mancino, e non il contrario.
L’avrei sistemato una volta per tutte, eliminando alla radice tutti i problemi e le ansie che mi aveva causato.
Mi aprii perciò in un sorriso soddisfatto quando, finalmente, scorsi le insegne del vecchio locale dove solevo andare un tempo per chattare con le mie amiche americane.
Sorridendo a Elspeth, dissi: “Bene, eccoci arrivati. Come ai vecchi tempi.”
“Peccato che i motivi siano un po’ meno futili del solito” replicò con un mezzo sorriso.
Jerome aprì la porta ed entrò per primo, tenendo poi aperto il battente in vetro perché entrassimo tutti.
Sempre guardingo e con l’aura in allerta, chiuse la fila restando dietro il nostro gruppetto.
Io ed Elspeth ci togliemmo leste dall’entrata, preferendo non rimanere troppo tempo in una posizione di potenziale pericolo.
Non appena ci trovammo all’interno del locale, completamente ricolmo di adolescenti e ragazzi di tutte le età, grugnii disgustata: “Impazzirò, qui dentro, lo so.”
“Controllo e accantonamento” mi ricordò succintamente Lance, guardandosi intorno per scorgere eventuali minacce.
Di auree di lupo non v’era traccia ma, visto ciò che mi era successo, non poteva bastarci per stare tranquilli.
Elspeth, nel frattempo, mi guardò confusa, non comprendendo la frase di Lance.
Ammiccando al suo indirizzo, ammisi: “Ho ancora qualche difficoltà a sopportare i luoghi chiusi con molta gente. Il mio naso e le mie orecchie sono un po’ troppo sensibili, e catalogare in breve tempo tutto ciò che percepisco, è difficile, e mi distrae parecchio.”
“E io ti ho portata in un pub per festeggiare il tuo ritorno” esalò spiacente.
“Non potevi saperlo” ridacchiai, prima di decidermi ad andare verso il bancone del bar per chiedere di poter usare uno dei computer.
Mi mancò il fiato.
Davanti a me, bello come il sole e tirato a lucido come un penny nuovo di zecca, Leon stava facendo uno scontrino a una signora, quando si accorse di me e della mia faccia sconvolta.
Elspeth, dietro di me, si lasciò sfuggire un ‘porca vacca’ che riassunse perfettamente il mio sbigottimento.
Lance e Jeorme, invece, mi fissarono confusi, non comprendendo la mia espressione basita né l’uscita elegante della mia amica.
Lui sorrise immediatamente, riconoscendomi e, poggiando un gomito sul bancone di laminato nero, sogghignò maliziosamente al mio indirizzo e disse con voce roca e maledettamente seducente: “Ehi, il mio bel fiorellino! E’ da un secolo che non ci vediamo, Brie. Come stai?”
“Leon. Ciao” riuscii a bofonchiare, ancora stordita dalla sua vista.
Di tutte le persone, io dico, di tutte le persone che potevo incontrare in quel momento, proprio lui doveva capitarmi?! Qualcuno ce l’aveva sul serio con me!
I suoi occhi nero pece si socchiusero, mentre un sorrisino malizioso piegava le sue labbra carnose e sexy.
Con quella voce maledettamente sensuale, che doveva aver sviluppato nei quasi due anni in cui non ci eravamo più visti, mormorò: “Non immaginavo che rivedermi ti avrebbe sconvolto così tanto. Mi fa piacere, tesorino.”
Jerome inarcò un sopracciglio e fissò disgustato entrambi noi, prima di grugnire indispettito un insulto.
“Il mio ex” gli spiegai mentalmente.
“Immaginavo. Ti guarda come se volesse spogliarti qui, in mezzo a tutti” brontolò nervoso.
"Tipico... niente di strano, credimi."

Riscuotendomi quel tanto per non apparire una completa idiota, sorrisi più tranquilla e replicai: “E’ solo che non mi aspettavo di vederti, tutto qui. Posso…”
Con un gesto inaspettato quanto stupido, si allungò sul bancone fin quasi a sfiorarmi il naso con il suo e, con un mormorio a fior di labbra, bloccò il mio discorso.
“Non devi sentirti in imbarazzo, se ti sono mancato tanto. Anche tu mi sei mancata, piccola.”
Quello fu veramente il colmo.
Sapevo benissimo che, da quando lo avevo scaricato, quasi due anni prima, si era fatto praticamente tutta la classe di chimica, quindi cosa veniva a raccontarmi?!
Feci per scostarlo da me ma, prima di poter fare qualsiasi cosa, intervenne Lance.
Da brava guardia del corpo, lo afferrò per una spalla e, dopo averlo spinto al suo posto, lo fissò con gelidi occhi di ghiaccio, ringhiando: “La signorina desidera utilizzare uno dei computer con il lettore cd-rom. E’ possibile?”
Leon fece per rispondergli male ma, dopo aver visto esattamente chi lo avesse rimesso in buon ordine, si premurò ben bene di tacere.
Annuendo, replicò in tono più che professionale: “Postazione quattro.”
“Ottimo” dichiarai, sorridendogli divertita prima di fargli l’occhiolino e andarmene a braccetto con Lance, seguiti da Jerome  ed Elspeth, che ridacchiavano spudoratamente.
“Il mio eroe” sorrisi melliflua a Lance, che ghignò.
“Ma come poteva piacerti un troglodita del genere?” commentò dietro di me Jerome. “D’accordo, sarà pure carino per gli standard femminili, ma andiamo, ti credevo più selettiva.”
“A diciassette anni sei più interessata ad altro che al cervello, e mi si potrà pur concedere di commettere degli errori. Inoltre, non era male, quando voleva” ridacchiai divertita, raggiungendo finalmente la fantomatica postazione quattro.
Jerome brontolò un ‘tutti i gusti sono gusti’ mentre io mi sedevo e, dopo aver acceso il computer e aver atteso che caricasse tutti i suoi programmi, inserii il cd-rom nell’apposito scomparto.
“Mi sembra che adesso io abbia scelto bene, no?”
“Nessuno potrebbe dire il contrario” mi sorrise Jerome, ironico.
Sorrisi appena prima di far partire il filmato e, acuendo lo sguardo, mi concentrai sull’orario posto in alto a destra – segnava le 23:35 – e sui fotogrammi che si rincorrevano a velocità sostenuta.
Cercai di non sentirmi imbarazzata nel guardare me stessa e Duncan, avvinghiati in un ballo sinuoso e rigonfio di una carica sessuale, visibile persino nel video.
Quando, però, sentii dietro di me la voce di Leon – cercava rogne? – , persi di vista la mia ansia e mi volsi per dirgliene quattro.
Uscito dalla sua postazione, era venuto a curiosare quel che stavamo facendo e, con un sorrisino divertito e ironico, commentò: “Non sapevo che fossi stata a quella festa anche tu. Davvero sexy con quel completino, sai? Per me, non ti conciavi mai così.”
“Leon…” ringhiai, mentre Lance e Jerome si irrigidivano dietro di me. “…ma che vuoi?”
Lui mi ignorò, avvicinando il naso al video del computer e, accentuando il sogghigno, aggiunse: “Esci con quella montagna, adesso? Mica male.”
Poi, scrutando i miei due accompagnatori, mi domandò ancora: “O con uno di questi due? Ti sei data ai ménage e non me l’hai detto?”
Calma, Brie, calma, non puoi mangiarlo, mi ripetei di continuo, come un mantra.
Elspeth ridacchiò, già pregustando il disastro che sarebbe seguito a quelle parole, mentre io mi alzavo con una lentezza esasperante e Lance e Jerome si posizionavano dietro a Leon, bloccandolo tra noi e la salvezza.
Quando se ne accorse, smise di ridere e, sollevate le mani in aria con aria pacifica, esalò: “E dai, scherzavo! Non si può più parlare, a questo mondo? Volevo solo sapere come te la passavi, visto che è un’eternità che non ti becco più in giro. Ho saputo quel che è successo a casa tua e, quando ti ho vista qui, volevo sapere come stavi, se te la passavi bene. Ho saputo che ti eri trasferita.”
Chiusi un momento gli occhi, come per concentrarmi – in effetti, stavo cercando di dominare la bestia che voleva dargli una lezione coi fiocchi – e, con una calma che non provavo, dichiarai a denti stretti: “Primo, non sono affari tuoi. Secondo, non offendere i miei amici. Terzo, non provare neanche a dire una parola sul mio uomo, o giuro che ti stacco la testa a morsi. Quarto, grazie per l’interessamento. Io, Gordon e Mary B stiamo benissimo. C’è altro che posso fare per te?”
“Sei diventata parecchio nervosetta, eh?” borbottò lui, infilandosi le mani in tasca con aria vagamente accigliata.
“Vuoi che lo allontani, principessa?” mi propose Jerome, con un sogghigno.
“No, grazie. Ora Leon se ne andrà e ci lascerà in pace” replicai, scrollando le spalle.
Davvero.
Non mi sarei mai aspettata che Leon fosse così intraprendente.
O così stupido.
Chinandosi verso di me con un lampo malizioso negli occhi, sussurrò sulle mie labbra: “Vedremo se vorrai ancora che me ne vada, dopo questo. Non mentivo; mi sei mancata.”
Detto ciò, fece per baciarmi.
Dico ‘fece’, perché non riuscì a raggiungere la mia bocca, sebbene mancassero pochi millimetri alla sua sensibile superficie morbida e calda.
Lo fermai immediatamente.
Spingendolo via grazie alla mia superiore forza di mannara, assottigliai le palpebre perché non si rendesse conto del mutamento dell’iride – che sentivo sfrigolare come se volesse esplodere.
Con una voce resa metallica dall’ira a stento trattenuta che stava montando in me, dissi roca: “Ora basta, Leon. Non sono più il tuo giocattolo, non sono più la tua piccola, non sono più il tuo bel fiorellino. Sono la donna di un altro, ficcatelo in testa!”
Lui mi fissò confuso, la mia mano premuta sul suo stomaco per tenerlo a distanza di sicurezza e, con voce non più tanto sicura, esalò: “Brie, ma…”
Elspeth lo prese per un braccio con l’intento di allontanarlo e, bonariamente, gli consigliò: “Fidati, è meglio se raccogli i cocci del tuo cuore e te ne vai, prima che qualcuno decida di fartela pagare cara per la tua spacconeria.”
“E tu di che t’impicci, Ellie?” replicò Leon, torvo. “Sto parlando con la mia ex ragazza, permetti?”
Okay, quando è troppo, è troppo.
“Lance, Jerome, pensateci voi” sbottai, tornando a sedermi al computer.
“Subito” dissero in coro, voltandosi all’unisono verso Leon.
Leon fu lesto a sollevare le mani per calmarli e, nel contempo, mettersi dietro Elspeth per proteggersi.
Volgendomi a fissandolo ironica, chiosai: “Che fai? Usi Ellie come scudo, ora?”
Ma lui non mi stava neppure ascoltando.
I suoi occhi si sgranarono colpiti e, improvvisamente, impallidì.
Chiedendomene il motivo, seguii la direzione del suo sguardo e mi volsi verso lo schermo del computer per capire cosa stesse osservando con tanto orrore.
Fu lì che capii.
Impallidendo a mia volta, vidi me stessa crollare a terra in mezzo alla gente, il fianco squarciato dalla pugnalata che mi avevano inferto, e la paura dipinta sul mio volto esangue.
Bloccai immediatamente l’immagine, mandando indietro di alcuni fotogrammi mentre i miei amici, del tutto dimentichi di Leon, ora, mi attorniarono e osservarono la scena con occhi tra lo spaventato e il furibondo.
“Ma che diavolo è successo, lì?” esalò Leon, confuso.
Ellie gli diede una gomitata nello sterno, sibilando: “Stai zitto, se non vuoi prendere un sacco di botte.”
Miracolosamente, tenne chiusa la bocca.
Io, nel frattempo, bloccai l’immagine alcuni secondi dopo l’uscita dall’inquadratura di Duncan.
In pochi attimi, la figura di un vampiro ammantato di nero si avvicinò a me, sussurrandomi qualcosa all’orecchio prima di piegare all’indietro il braccio e far scattare la lama del coltello d’argento.
Provai un brivido istintivo – i punti si stavano rimarginando più lentamente del normale, a causa del nitrato d’argento con cui era stata intrisa la lama – e poggiai una mano sul fianco ferito mentre Leon, dietro di noi, esclamava stizzito: “Ma che razza di stronzo!”
Non potei che essere d’accordo con lui, per una volta.
Rimandai indietro il filmato, feci un fermo immagine e salvai il file in formato bmp, per avere il maggior numero di pixel disponibili per un eventuale ingrandimento.
A quel punto, salvai tutto su chiavetta e, nel contempo, inviai una e-mail a Bright.
Infilata la mano in tasca, estrassi il cellulare e, digitato il numero di Kate, attesi ansiosa che mi rispondesse.
“Ciao, Kate. Ho un pacchetto regalo per Bright. Digli di aprire subito la sua e-mail e di scaricare il file che gli ho mandato, dopodiché digli di darlo in mano ai suoi per un raffronto. Sarà difficile, visto che il tipo era travestito da Conte Dracula, ma dobbiamo fare un tentativo.”
“Il tuo aggressore si è rimesso in pista?” mi chiese, intuendo quale fosse il problema.
“Mi ha pugnalata durante una festa” le spiegai, senza tanti giri di parole.
Sospirò indignata, prima di riferirmi: “Lo chiamo subito poi ti faccio sapere. A dopo, piccola, e riguardati.”
“Grazie, sorella” mormorai, chiudendo la comunicazione e voltandomi verso i miei compagni.
Leon era ancora lì.
Sbuffando, poggiai le mani sui fianchi e borbottai: “Ma sei ancora qui? Non hai capito che devi sloggiare?”
Ma lui non mi ascoltò affatto, concentrato sull’immagine del computer, lo sguardo percorso da una scintilla di intuizione che non gli avevo mai visto prima.
Che fosse maturato? Difficile dirlo.
Tutti noi lo guardammo in attesa che lui se ne andasse, o che ci desse spiegazioni circa il suo strano comportamento.
All’improvviso, sogghignò per poi esclamare: “Ecco dove avevo visto quel tizio!”
Sobbalzammo quasi contemporaneamente, preda di un’ansia improvvisa quanto carica di aspettativa.
Mostrandosi serio forse per la prima volta in vita sua – almeno a quanto ne potessi sapere io – si spiegò meglio.
 “E’ successo subito dopo il black-out. Stavo portando fuori dal locale la ragazza con cui mi stavo intrattenendo e…”
Io sollevai un sopracciglio con ironia e celiai: “Intrattenendo? Hai fatto un corso di lessico, ultimamente?”
Lui scrollò le spalle, degnandomi del suo solito sguardo malizioso, e replicò: “Ho imparato qualcosina, sai? Non sei solo tu a essere la specialista dei paroloni.”
Scrollai una mano come per liquidare il suo commento, facendogli poi segno di continuare e lui, annuendo, proseguì.
“Beh, fatto sta che questo tizio ci è arrivato alle spalle come se volesse aprire le acque del Mar Rosso a gomitate e, nel farlo, io e un paio di altri ragazzi siamo caduti a terra… assieme al suo coltello.”
La nostra attenzione si fece altissima, a quel commento.
“Sentii distintamente un tintinnio metallico, quando caddi sul marciapiede e, spaventato, allontanai con un calcio il coltello per evitare che qualcuno si facesse male. Ero anche pronto a dargli dell’idiota, per via di quell’affare, ma era già sparito tra la folla, quando mi volsi per cercarlo” spiegò Leon, irritandosi leggermente a quel ricordo.
“E sai dov’è finito, quel coltello?” chiesi ansiosa, sperando di trovarlo.
“Se non hanno ancora pulito le strade, dovrebbe essere a ridosso del marciapiede, nei pressi dell’uscita di sicurezza del pub, in mezzo a un altro bel po’ di sporcizia varia” scrollò le spalle lui.
“E chi se lo ricorda quando passano a pulirle?” si lagnò Ellie, infilandosi le mani tra i capelli con aria affranta.
“Non importa. Dobbiamo andare a controllare. Si sarà sicuramente accorto di aver perso il coltello, e potrebbe decidere di tornare a cercarlo, se già non l’ha fatto, visto che è al corrente della mia presenza qui a Glasgow. Noi, però, dobbiamo precederlo, se possiamo” dichiarai lesta, estraendo il cd-rom prima di alzarmi in piedi.
Senza perdere altro tempo, tirai fuori il mio portafogli per pagare l’uso del computer e, allungata una banconota da dieci sterline a Leon, asserii: “Tieni il resto, ora dobbiamo andare.”
Lui rifiutò i soldi e, sorridendomi, mi strizzò l’occhio con fare cameratesco. “Offro io.”
Lo guardai a occhi sgranati mentre Ellie ci fissava basita, e Jerome e Lance ci scrutavano senza capire bene cosa stesse succedendo.
Leon si limitò a scrollare le spalle e, dopo avermi dato un bacetto amichevole su una guancia, ironizzò nel dire: “In fondo, ti devo più di questo, se ci pensi bene.”
Ripensai alla nostra relazione, alle volte in cui avevo dovuto respingerlo per aver cercato di forzare i tempi, ma anche alle volte in cui mi aveva portato al parco perché aveva compreso quanto mi piacesse stare in mezzo alla natura.
Sorrisi. Non eravamo fatti per stare assieme ma, dopotutto, non era stato un cattivo ragazzo.
Mi allungai per afferrargli il collo con una mano e, dopo averlo abbassato alla mia altezza, gli restituii il bacio sulla guancia pungente di barba e mormorai: “Grazie, Leon. E, una cosa…”
“Sì?” ammiccò, scrutandomi con i suoi limpidi occhi scuri.
Un ricordo di lui che mi spingeva sulle altalene del parco mi fece sorridere spontaneamente e, scrollando le spalle, chiosai: “Ti stanno bene i capelli, tagliati così.”
Lui rise, attirando su di sé le occhiate desiderose di parecchie ragazze e, con aria solo in parte divertita, si raccomandò: “Vedi di non cacciarti in guai più grossi di quanto tu non sia già.”  
Poi, dandomi un pizzicotto affettuoso sulla guancia, mi sospinse verso la porta e aggiunse: “E di’ al tuo uomo che non è il caso ti lasci da sola, visto cosa riesci a combinare senza le spalle coperte.”
Risi sommessamente, annuendo e, di fretta, uscimmo dal locale per riprendere la Mercedes e dirigerci in tutta fretta verso il Frankenstein Pub.
Sperai con tutto il cuore che le strade non fossero ancora state pulite.
Nel montare sul sedile posteriore assieme a me, Ellie rise e dichiarò scioccata: “E chi lo immaginava che Leon fosse maturato?”
“Ha sconvolto pure me, credimi” ridacchiai a mia volta.
“Continuo a chiedermi cosa ci trovassi, in quello sbruffone” brontolò Jerome, mentre Lance metteva in moto l’auto.
“Sei solo geloso perché lui ha messo le mani dove tu non potrai mai metterle” ghignai per diretta conseguenza, prima di arruffargli i corti riccioli corvini.
“Sei cattiva, e sai di esserlo” replicò con un sogghigno, lasciandomi fare per alcuni attimi prima di scostarsi.
Di sicuro, non mi ero aspettata di rivederlo, ma ero contenta di aver chiarito con lui.
Almeno, quel pezzo del mio passato era in ordine, ben catalogato e, se vogliamo, riabilitato in parte.
Non mi era mai piaciuto pensare di essermi messa con Leon solo per la sua bella faccia. Sapere che fosse maturato un poco mi fece capire che, in fondo, avevo visto qualcos’altro, oltre alla confezione regalo, per prendere una sbandata per lui.

***

Le strade di fronte, e sul retro, del pub erano ancora completamente, e fortunatamente, ricca di tutto ciò che, in condizioni normali, mi avrebbe fatto rivoltare lo stomaco.
In quel momento, invece, mi ritrovai a sorridere quasi stupidamente.
Cartine, pezzi di plastica, polvere, mucchietti di ogni ben di Dio erano sparsi ogni dove e io, ghignando soddisfatta come da tempo non ero, dichiarai: “Il mio sangue è ormai secco, ma si dovrebbe sentire ancora la traccia del suo odore.”
Elly mi fissò un momento con aria smarrita, limitandosi a chiosare con una flemma del tutto fasulla: “Io cercherò con la vista. Il mio naso non è così sopraffino.”
Annuii, ridacchiando con lei, dopodiché mi misi a cercare, annusando attentamente tra le auto, vicino ai cassonetti, nei pressi dei tombini.
Jerome e Lance mi imitarono, mentre Ellie si dedicò alla ricerca aguzzando la vista, scrutando ogni dove come se stesse cercando il diamante Koh-i-noor, e non un coltello.
Era difficile percepire un aroma specifico, in mezzo a quel caos di odori provenienti da ogni meandro della città.
La puzza dei combustibili bruciati si confondeva con quella dei fumi delle cucine, oltre al sentore sottile e freddo degli eco-gas dei congelatori e dei condizionatori d’aria.
Il tutto, poi, era miscelato dal non ben identificato puzzo di smog che permeava ogni singola particella dell’intera Glasgow, e che mandava in totale confusione il mio apparato olfattivo.
Lance e Jerome non mi parvero meno in difficoltà di me, e neppure Ellie sembrò avere molto successo.
La frustrazione prese il posto della gioia provata fino ad alcuni minuti prima.
Non avevo notato se il mio aggressore avesse portato i guanti o meno ma, se li avesse indossati, tutta quella ricerca sarebbe stata infruttuosa.
Ci saremmo messi allo scoperto per nulla, rischiando che quel tizio uscisse dal primo tombino utile per uccidermi.
E se anche avessimo trovato le sue impronte, e lui non fosse risultato schedato? Stesso problema.  
Certo, potevamo provare con l’odore, ma se nessuno di noi lo conosceva, saremmo stati comunque a un punto morto.
In sostanza, trovare il coltello poteva risultare solo un’inutile perdita di tempo, e un rischio per tutti noi.
Ma dovevamo pur tentare.
Quando Elspeth urlò allegramente di averlo trovato, riuscii comunque a esprimere la mia gioia con un sorriso, per quanto fievoli fossero le speranze di ricavare qualcosa da quell’arma.
Le corsi incontro per vedere il coltello che mi aveva ferita quando un sibilo sinistro, e uno spostamento d’aria improvviso, attirarono la mia attenzione.
Anche Jerome e Lance udirono quel suono del tutto fuori luogo, per una città, e si lanciarono su di me per coprirmi con il loro corpo, mentre io proteggevo Ellie con il mio.
Tutto avvenne in pochi attimi, pochi attimi in cui tutto parve scorrere come al rallentatore.
Sentii, come se l’avessi ricevuto io, il proiettile perforare la carne della spalla di Lance, mentre Jerome ci spingeva dietro un’auto per permetterci di ripararci più agevolmente.
Gridai spaventata, allungando una  mano verso Lance che, a fatica, riuscì a raggiungerci dietro quel riparo improvvisato.
Tutt’intorno, le auto continuarono a percorrere rade la via, come se nulla fosse successo.
Come stupirsene! Nessuno aveva udito alcunché, visto che il colpo era stato esploso da un’arma dotata di silenziatore.
Inoltre, a nessuno sarebbe importato di quattro giovani su un marciapiede, magari già preda dell’alcool e incerti nel camminare.
Perché potevamo davvero essere apparsi così, agli autisti distratti.
Ellie, spaventata a morte, tremava come una foglia tra le mie braccia mentre Jerome, tenendo tra le sue Lance, ringhiava nervosamente, forse tentato di trasformarsi e dare la caccia al cecchino.
Ero furibonda con me stessa per non aver prestato maggiore attenzione e, carezzando distrattamente i capelli di Elspeth, mormorai tranquillizzante: “Qualsiasi cosa succeda, tu rimani al riparo.”
“E tu? Tu che vuoi fare?” esalò, aggrappandosi convulsamente alla mia camicetta.
“Mi libererò di lui una volta per tutte” dichiarai furibonda, digrignando i denti.
Al diavolo la segretezza, al diavolo tutto. Avrebbe assaggiato i miei poteri di wicca, così l’avrebbe pagata per tutte queste settimane di terrore assurdo!
Già pronta a convogliare dentro di me quel po’ di potere che avevo, sobbalzai spaventata quando vidi giungere – nel peggior momento possibile – una Ford Fiesta blu elettrico.
Incurante del pericolo potenziale che gravitava intorno a noi, parcheggiò a poca distanza dall’auto che ci proteggeva dai colpi del cecchino.
Fissai intensamente l’auto, già decisa a ingiuriare a male parole chiunque fosse sceso, con l’intento di allontanare il malcapitato dal pericolo.
Non riuscii mai a parlare.
Con gli occhi sgranati dallo stupore, scoprii attonita chi fosse il proprietario del veicolo.
Sentendomi morire dentro per la paura, osservai Leon scendere dalla Ford con un sorriso in faccia e l’aria di chi è tranquillo e in pace col mondo.
Vedendoci accucciati dietro l’auto che avevamo scelto come nostro rifugio improvvisato, si incamminò verso di noi ed esclamò: “Ehi, giocate a guardie e ladri? Pensavo doveste cercare…”
Si interruppe non appena vide Lance, ferito e sanguinante, tra le braccia di Jerome.
Lesto, si volse a mezzo per guardarsi intorno e io, temendo per la sua vita, mi alzai scioccamente in piedi per raggiungerlo e trascinarlo a terra assieme a noi.
Ben più che spaventata, gli urlai: “Abbassati, presto!”
Il sibilo di un secondo colpo infranse l’aria immota e, sotto i miei occhi sconvolti, venni investita da un’ondata di rosso sangue caldo.
Gli occhi sgranati di Leon mi fissarono basiti e confusi, bloccati nell’istante eterno della morte che, non invitata, lo strappò dal quel corpo mortale per farlo suo.
Un attimo dopo, lo vidi crollare addosso a me, il cranio fratturato in più punti e la carne squarciata dalla pallottola che ne aveva segnato il destino, mentre sangue e materia celebrale ne tingevano il viso e il corpo come una maschera grottesca.
Il grido di una donna, sull’altro lato del marciapiede, impedì altri colpi al nostro indirizzo.
Con quell’urlo straziante, automobilisti, impiegati negli uffici o semplici abitanti dei condomini vicini si accorsero di ciò che era successo e, come una fiumana impazzita quanto provvidenziale, si avvicinarono a noi, sporcando così la traiettoria di tiro.
Incurante di quel fortuito quanto imprevisto scudo umano, non guardai nessuno di coloro che stava osservando turbato e incuriosito la scena.
Non volsi lo sguardo per scrutare intorno a me, per comprendere se il nostro aggressore stesse scappando tra la folla.
Il mio sguardo era tutto per Leon che, morto, giaceva tra le mie braccia ancora caldo, con un’espressione sul volto che parlava solo di speranza e confusione.
Forse era venuto a darci una mano, forse aveva solo voluto stuzzicarmi un po’.
Non lo avrei mai scoperto ma, per colpa mia, un innocente era morto in una lotta a cui ancora non potevo dare né un nome, né uno scopo.
Piansi, cullandolo contro di me, mentre le sirene delle ambulanze si avvicinavano a noi, assieme a quelle della polizia.
Piansi, desiderando con tutta me stessa che Leon non fosse morto, pur con l’evidenza dei fatti stampata a chiare lettere di fronte a me.
Piansi, urlando dentro di me tutta la rabbia e il risentimento che provavo per l’uomo che mi voleva morta e che, per i suoi comodi, aveva ucciso un innocente solo perché si era trovato sulla sua traiettoria di tiro.
Piansi e basta.
Mi accorsi solo vagamente della polizia e dei paramedici che, zigzagando in mezzo alla folla, stavano raggiungendoci in quel luogo di morte.
Senza opporre resistenza alcuna, venni scostata da Leon da un paramedico solerte mentre lui, come una bambola di pezza, venne fatto stendere su una lettiga e poi caricato sul retro di un’ambulanza.
Fissai la scena senza parlare, lo sguardo perso nel vuoto e la mia forza ridotta al lumicino.
Era. Morto.
Riuscivo a pensarlo, pur odiando quelle parole feroci, ma sarei mai riuscita a dirlo ad alta voce?
Un bruciore improvviso quanto insistente mi strappò a quel macabro pensiero e, solo in quel momento, mi resi conto che un dottore si stava occupando di me e di un taglio che, apparentemente, avevo al collo.
Stringendo le mani a pugno, mi resi conto che quella ferita non poteva che averla procurata il proiettile che aveva strappato la vita a Leon.
Il fatto stesso che stesse ancora sanguinando provava che l’ogiva era in argento.
Volsi leggermente lo sguardo, cercando la figura di Lance che, seduto a terra, stava pazientemente subendo le cure di un’infermiera.
Trattandosi di ferite causate dal nostro più mortale nemico, sia io che Lance sanguinavamo abbastanza da non destare sospetto alcuno, ma vi badai fino a un certo punto.
Anche il sangue, di fronte a un eventuale controllo, sarebbe apparso del tutto normale.
Non correvamo rischi, da quel punto di vista ma, in tutta onestà, in quel momento non me ne importò nulla. L’unica cosa a cui potevo pensare era alla vita infranta di Leon. E alla mia piena colpevolezza.
Io l’avevo fatto uccidere. Io ero la causa della sua misera fine.
Solo io.





  
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