ZENZERO E CANNELLA
Capitolo 8.
“Aurelien, c’è una
lettera dal consolato per te!”
Rientrammo a Parigi
quattordici giorni dopo e ci vollero altri quattordici giorni per sistemare le
nostre cose, ritrovare gli amici, i parenti e tutta la successione di
creditori, finanziatori e via discorrendo. Una cosa positiva c’era, eravamo
sereni, Aurelien aveva ripreso il lavoro ed io era tutta dedita al progetto
della scuola di cucina; neanche a dirlo Ines e Clorine
mi avevano tempestato di domande e prese dalla foga scorrazzato in giro per
botteghe alla ricerca degli interni.
“E’ una scuola di
cucina vi dico, non un atelier!” Sbuffai cercando di farle desistere nel
continuare questo estenuante dibattito sulle differenze fra le due cose, ma le
pericolose donne si erano alleate fracassandomi i timpani; quando vidi Aurelien
raggiungerci in sala, tirai un sospiro di sollievo.
“Sai amore credo
proprio che adesso avranno un valido motivo per tampinarti..” Mi guardò
allusivamente sventolando la lettera fra le mani; lo fulminai con lo sguardo
perché se per me era stato un piacere aver sopportato per diciotto anni Clorine la pazza non so se avrei potuto sopportare anche
Ines la pazza e per giunta tutto il resto della vita. “I lavori.. sono partiti!
Si comincerà dal tetto, se tutto procede per il meglio Gerald avrà i suoi primi
corsi in estate.” Lo guardai allucinata, incapace di dir nulla se non emettere
gridolini soffocati e applaudire con le mani come una foca ammaestrata.
Le donne non vedendomi
oltremodo reattiva se ne approfittarono ripartendo alla carica, ancor più
motivate dall’esito positivo della transazione; il castello abbandonato era
nostro, i lavori potevano partire e per di più dalle stime del restauro si
prevedeva la fine entro l’estate. Non avrei potuto chiedere di più in quel
momento, solo azzittire le due pazze. “No! Non ci sarà il rosa..” Guardai mia
madre, “e no non ci saranno mobili d’ebano!” Guardai Ines. “Gerald avrà carta
bianca e solo lui di decidere come e con cosa verrà arredata la sua scuola.
S-c-u-o-l-a, avete capito? Fine della questione.”
“Lo hai consegnato
dritto nelle loro mani, te ne rendi conto?!” Aurelien si avvicinò al mio
orecchio ridacchiando; lo guardai avvilita.. poi rinsavita.
“Che se le sorbisca un
po’ anche lui.” E risi anche io.
Giorni dopo, ci
trovammo a contare assegni e ad organizzare un ricevimento per ringraziare i creditori
e la loro generosità; la voce si era sparsa in fretta, Gerald poteva contare
già due classi miste fra età ed esperienza, un bel gruzzolo dalla quale partire
e un nome che la diceva lunga su qualsiasi fama di bravura o no; la Chedjou-Bonnet ecole.
“Grazie Capitaine Fournier, maitre Gerald sarà lieto della vostra offerta.” Vidi
passarmi fra le mani il centesimo assegno della giornata, sorrisi e passai
oltre, ma l’uomo tentennava ad andarsene. “C’è altro Fournier?!”
Guardai l’uomo brizzolato starsene impalato incerto o no se parlare.
“Mi chiedevo..” Si
guardò attorno guardingo, abbassando la voce di un tono. “Come è questa Auvers?!”
“Ci ha fatto una così
bella donazione, chieda a mio marito di organizzarle una visita se ne renderà
conto con i suoi occhi.” Volevo liquidarlo perché il suo modo un po’ mellifluo
mi stava mettendo addosso una certa irritazione, ma quello non demorse, anzi si
piegò verso il mio orecchio. “Volevo dire.. è discreta?!” E nell’attimo in cui
tale parola uscì dalle labbra, una damina dalle fattezze evidentemente non
appartenenti a madame Fournier passò fulminea, gesticolando
all’uomo di sbrigarsi; incrociai le mani e sorrisi maliziosa.
“Immagino che possa
trovare la discrezione che cerca.”
“Ah bene!” Si sfregò
le mani soddisfatto. “Chi meglio di lei può saperlo; la donna che ha creato
tutto questo clamore con una scuola di cucina..”
“Fournier
venga al dunque.”
“Mi servirebbe un
posto in quella scuola madame Chedjou, a-al di fuori
del corso.. un aiutante, la lavandaia.. qualsiasi cosa, pur che discreta.”
“Capisco.. e immagino
che Madame Fournier non debba essere informata di
tale “occupazione”, dal momento che è iscritta al corso e non come lavandaia.”
Quello si guardò le mani colpevole. “Ehm, ecco no.” E immagino che la biondina
che sta cercando di rifilare nel corso è l’amante dalla quale non vuole
privarsi, pensai seccata; ero combattuta tra lo stampargli l’assegno in faccia
o mettermi ad urlare, ma non feci nessuna di queste cose, presi un bel respiro
e lo congedai malamente con un freddo “vedrò cosa posso fare.”
Maitre Gerald, intanto braccato dalle effusioni delle
signore –a trarre vantaggio dalla serata non erano stati solo i suoi affari
futuri ma anche le quotazioni come maitre personale,
tanto che ricevette offerte a destra e a manca per pranzi e cene più o meno
mondani- vedendomi ansimante ne approfittò per divincolarsi raggiungendomi al tavolo
delle donazioni. “Madame è stanca. Si goda la festa, resto io qui.”
“Con vero piacere
Gerald. Ti renderai conto in che razza di guaio ci stiamo ficcando.” presi la
testa fra le mani, “ i muri della scuola non sono ancora in piedi e già
fioccano raccomandazioni.” Girai l’assegno e glielo feci leggere. “Cinquemila
franchi?!” Mi chiese pallido.
“Per la scuola.. e per
il costoso vizio del tradimento.” Indicai discretamente l’uomo che lo aveva
lasciato scuotendo il capo, “a volte bisogna sapere a chi pestare i piedi; quell’uomo
discende da una famiglia tradizionale di gendarmi di Parigi, si dice che siano
influenti nella politica come.. è proprio il caso di dirlo.. la farina nella bechamelle.”
Gerald annuì compito. “Avremo comunque bisogno
di personale.. cosa saprà fare?!”
“E’ qui che viene il
bello maitre.” E gli sorrisi sarcastica, “vado a
ripescare mio marito.. si diverta.”
La vita scorreva
veloce in quel di Parigi, venne il tempo di togliersi guanti e cappotto e
passare in rassegna abiti più freschi e poche coperture. Non potevamo ancora
ritenerci liberi dalle basse temperature, ma perlomeno si sarebbe cominciato a
veder rifiorire, in tutti i sensi, la città. I parchi sarebbero tornati a
riempirsi di bambini festanti, gli alberi sugli Champ
Elisees avrebbero scacciato il grigiore tornando
verdi e rigogliosi e i fiorai, sulle strade e nei vicoli, avrebbero cantato ai
passanti con le loro ceste di rose, tulipani e gerbere.
Era passato un anno da
quando io Aurelien ci eravamo conosciuti e presto sarebbe stato un anno da
marito e moglie; le chiacchiere si erano leggermente assopite e il merito non
era solo di Clorine, maitre
Gerald con la sua scuola e la scappatella del prefetto con una ballerina di
jazz avevano distolto tutta l’attenzione dai coniugi più chiacchierati
dell’inverno passato. Non c’erano novità sul fronte “famiglia”; la nostra vita
scorreva piacevole e in duetto come sempre, ma constatavo con una certa
soddisfazione, che il mio liege andava
migliorando con il tempo, rendendo me una donna soddisfatta e consapevole della
fortuna d’averlo accanto.
Ma, come nei migliori
romanzi d’amore, la calma e la quiete possono perdere in fretta il loro posto..
e per noi, il momento si era fatto vicino. Quello che ci successe dopo io lo
definirei come il secondo capitolo della nostra vita, dopo il romanticismo, la
quiete. La quiete.. prima della tempesta.
Correva l’anno millenovecentotrentanove e gli affari dopo un decennio d’affanni
si erano rialzati un po’ in tutta Europa, anche se un certo Hadolf
Hitler stava cominciando a minare le basi per la catastrofe mondiale che tutti
conosciamo; fanatismi di un dittatore a parte, successe che Aurelien grazie ai
fiorenti investimenti delle aziende di famiglia e di quelle che gli avevo
portato in dote, fu indotto a viaggiare molto in Belgio e in Germania paese in
pieno progresso tecnologico assolutamente dominante. Tutto a un tratto le nostre
aziende si ritrovarono a fabbricare montagne di segmenti per macchine belliche
e tutto questo ci dava sì un gran da fare, ma anche terribili presagi, più
ovviamente –meno importante difronte ad un imminente guerra- il pochissimo
tempo che trascorrevamo insieme.
Dopo Auvers era tornato tutto esattamente come prima, io di nuovo annoiata e laconica
ed Aurelien colmo di lavoro. E proprio un giorno in cui mio marito era via da
Parigi, mi arrivò la notizia.
“Io ad Auvers? Per due mesi?! Gerald temo che lei abbia preso un
abbaglio.”
“Nessun abbaglio,
madame. Voglio farle questo regalo, lei ha l’arte nelle mani!”
Gerald si era messo in
testa di offrirmi il corso di cucina che sarebbe partito da lì a pochi mesi;
c’erano stati dei ritardi sulla tabella di marcia dei lavori, per cui il corso
si sarebbe protratto fino a fine estate, ma quando il maitre
mi vide arricciare il naso alla parola tre mesi, me ne aveva gentilmente
“concessi” almeno due. Ovviamente il mio cognome, il fatto che la scuola
esistesse grazie a me e mio marito e che fosse ormai a tutti gli effetti più un
amico che un subalterno, non mi avrebbero garantito alcun trattamento speciale,
sarei stata a tutti gli effetti un alunna come un'altra.
“Due mesi sono tanti
Gerald.. non so..” Vagai alla ricerca degli effetti che avrebbe portato la mia
assenza in quel dei salotti mondani; sentivo già il vociferare di fughe,
tradimenti, dipartite.. o forse avrei dovuto smettere di dare peso alle
chiacchiere sul serio e godermi di più la mia vita. Restavano comunque due
mesi, ed erano davvero tanti, necessari certo per poter apprendere tecniche
sempre migliori e perfezionarmi così in qualcosa che mi provocava già molte
soddisfazioni.. ma comunque lunghi e lontano da casa.
Ma era davvero questo
a spaventarmi?! La distanza da casa? La mia casa era Aurelien e se lui non era
qui non avevo bisogno di chiamare questo posto con questo nome; avremo fatto
come tutti gli innamorati della terra, ci saremo venuti incontro, magari chissà
al confine di un paese del tutto sconosciuto, avremo mangiato il nostro amore
in una squallida pensione in qualche squallido posto, o nei campi ad Auvers.. cosa importava d'altronde? Non sarebbe stata la
distanza a dividerci. O forse sì? Ero disposta a mettere a rischio la nostra
unione per un.. capriccio?! E se non avessi mai messo alla prova il nostro
legame, come potevo rendermi conto se eravamo esattamente così forti come
pensavo?
Al diavolo Deesire, pensai.. è uno stupido corso di cucina e ti stai
arrovellando il cervello per niente. E’ un sogno, il sogno di poter dire “lo
faccio perché voglio e posso decidere per me” e non è giusto chiudere la porta
a un sogno.. per insignificante che sia.
“Madame?” Notai dopo
un po’ che Gerald mi stava chiamando. “Se questo la mette in difficoltà, faccia
conto che non le ho chiesto nulla...” Era sinceramente preoccupato, avevo
imparato a capirlo guardando quegli occhi blu cobalto così dannatamente
limpidi. Me ne stavo lì a fissare l’aria incapace di dare una risposta,
aggiungere o togliere qualcosa; non mi accorsi nemmeno della sua assenza quando
andò via, perché iniziai a vagare per la casa con una certa frenesia,
costringendo Ygritte a tirare fuori da alcuni
scatoloni cose che avevo dimenticato risalenti al matrimonio. La donna mi seguì
fedelmente, assecondandomi nei miei deliri e fu così che scoprimmo di avere in
solaio cose dall’indubbia esistenza e che.. avevo un bacio dimenticato, nascosto
in soffitta.
“E’ molto bello
madame. Cosa è?!”
“Un vecchio ricordo.”
La cameriera sorrise complice di quel mezzo segreto che aleggiava su di noi e
senza proferir null’altro con il piumino scacciò via la polvere dal
meraviglioso “bacio di Klimt.” “Credi che Maitre
Gerald possa apprezzarlo, per la scuola? Non gli ho mai chiesto se ha bisogno
di dannati orpelli.. perché qui a quanto pare io ne sono piena. E questo.. ci
starebbe proprio bene.” La donna mi guardò accondiscendente. “Sì madame.” La guardai
convinta che mi credesse pazza; sorrisi fra me e me e continuai a far muovere i
pensieri lontano dalla richiesta di Gerald.
“Il maitre mi ha offerto un posto al corso.” Aurelien era
rincasato da un quarto d’ora ed io ero già addosso al suo collo come un vampiro
assetato; l’idea mi fece ridere e quando glielo feci notare rise insieme a me. Gli
raccontai tutto, mentre riordinava le cartelle con i documenti sulla scrivania
dello studio esposto a sud della casa, con più luce e una grande finestra,
della chiacchierata con il cuoco, più una serie di sfiniti pensieri sui pro e i
contro della mia assenza. Mi lasciò sfogare, quando esausta mi azzittii parlò
con il candore di un angelo e il sorriso beffardo da diavolo. “Mi stai
lasciando perché non abbiamo un figlio?”
“No.. e comunque non
mi passa per la testa.” La parola figlio stava deliziosamente bene sulle sua
labbra, per questo parlai sorridendo. “Li avremo.” Aggiunsi poi determinata.
“Giusto. Mi hai..” e
qui si fece un po’ più serio, “.. tradito?!”
“No!” Risposi
stizzita. “Io ti amo.” Non voleva essere una giustificazione –fra le altre cose
spesso poco influente- ma è così che suonò dalla mia voce miagolante.
Vidi trasformare quel
ghigno beffardo in un dolce sorriso, mentre si avvicinava alla mia figura cingendomi
le spalle con le mani. “Semmai ce ne fosse stato davvero il bisogno Deesire.. abbiamo constatato di non avere simili problemi.
Per cui.. vuoi davvero partecipare a quel corso? E non “mi piacerebbe”, “lo
farei”.. io voglio vederti felice. Ti ho promesso che lo saresti stata. Vuoi?”
“Si.” Ammisi,
guardandolo profondamente negli occhi. “Voglio partecipare a quel corso. Da
morire!”
Fu così che quattro
mesi dopo, all’inizio di un torrido luglio, mi ritrovai in macchina circondata
dai visi familiari della mia famiglia ed Aurelien sedutomi accanto, in
direzione di Auvers.
“Sarò da te
esattamente per il prossimo fine settimana.” Mi passò il braccio intorno alle
spalle, mentre Jerome canticchiava un vecchio pezzo della bella epoque. “Tutte le volte che tornerò dai miei affari passerò
per Auvers, così potremmo vederci almeno due giorni a
settimana.” Il piano mi andava bene, sostanzialmente questo mi garantiva di
vederlo ogni tot giorni – a secondo dei suoi impegni- in andata e ritorno per
l’Europa; non ci sarebbero state squallide pensioni in squallidi posti, ma solo
il mio amore a scaldargli il focolare ogni volta sarebbe passato.
“Sembra un vecchio
romanzo trito. “L’amante in campagna”..” Rise di gusto, baciandomi la guancia.
“Dee, puoi tornare
alla tua vita quando vuoi. Voglio solo che tu sia felice.”
“Lo so.” Alzai il
mento e lo baciai. E lo baciai ancora prima di vederlo sparire per il viale di
terra che lo riportava fuori Auvers, indietro sulla
statale per il Belgio. Avevo il cuore colmo di sensazioni miste; lo vedevo
salutarmi da lontano con quel sorriso che amavo e mi sentivo sicura, poi giravo
lo sguardo sul cielo, oltre le colline degradanti e mi sentivo in preda allo
sconforto più totale. Era paura, mi dicevo, paura dei traguardi, delle grandi
occasioni. E quella.. era la mia, la mia grande occasione.
Maitre Gerald il giorno seguente il mio arrivo mandò un
giovane cuoco che avrebbe provveduto alle cucine della casa; lo pregai di non
disturbarsi, che io e Rose ce la saremo cavate benissimo anche da sole, ma
insistette a tal punto che cedetti più per disperazione che gratitudine.
“Con il corso e le
ricette non avrà voglia di toccare altra padella all’infuori della scuola!” E
in realtà non aveva tutti i torti; i corsi cominciavano alle nove e finivano alle
quattro, estenuanti prove di questo e quello, assaggi vari.. mi facevano
tornare a casa sfinita e di certo poco affamata. C’era una cosa però.. avevo
moltissimo tempo a disposizione per dedicarmi con cura alle ricette che avevo
sempre desiderato mettere in pratica –a volte in casa costringevo Rose a vere e
proprie maratone fino a ora tarda per perfezionare un gusto o una pietanza- e
con sommo piacere mi riscoprivo ogni giorno più brava. Maitre
Gerald era entusiasta e fiero, nella sua divisa color cremisi con i bottoni
dorati; si destreggiava da vero padrone delle cucine, fra i nostri banchi di
acciaio impartendoci ordini come un gendarme. La scuola era venuta proprio
bene; le pareti di un pallido beige essenziale accompagnavano i corridoi e le
stanze delle classi, unico piccolo vezzo, il quadro che al mio arrivo consegnai
a Gerald come portafortuna; mi aveva parlato di amore e cucina quando al posto
di posate nei cestelli, forni e alunni, esistevano solo un mucchio di macerie, per
cui avevo immaginato, quale gesto più di un bacio avrebbe potuto rappresentare
al meglio la sua filosofia?
Va bene.. lo ammetto;
volevo solo liberarmi di quello stupido quadro. E il maitre
mi aveva servito la favoletta del connubio amore-cucina proprio, il caso di
dirlo, su un piatto d’argento.
Fortunatamente o anche
no, alcuni volti di Parigi dalla quale avevo avuto tantissima voglia di
scappare erano proprio in quel d’Auvers, fra quei banchi;
fortuna, perché la mia presenza in quanto madrina giustificava la mia assenza
in città e sfortuna perché mi sentivo sempre e comunque tutti gli occhi
addosso. Aihmè.. il prezzo della celebrità. Ma
sarebbe durata poco, alle madame di Parigi l’aria fine di campagna sarebbe
stata sopportabile per un solo mese.. dopo di che, con i loro attestati
–concessi in via straordinaria dato le più che generose offerte versate- e le
loro valigie di pelle di coccodrillo, sarebbero tornate ad infestare il loro
habitat naturale: i salotti buoni.
Non che ad Auvers ci fosse chissà cosa da scandalizzarsi sia chiaro..
mi sfrenavo con la cucina e lunghe pedalate nelle distese di grano e papaveri;
nella casina degli attrezzi avevo trovato due vecchie biciclette arrugginite,
con una buona scartavetratura e una verniciata ero riuscita a farle tornare
quasi nuove. Rose mi aveva raccontato –e sua madre prima di lei- che erano
state un dono di Jacque per madame Chedjou, la nonna
di Aurelien che io non avevo mai conosciuto, morta anni prima a causa di una
devastante malattia. Certo ogni tanto la catena scricchiolava e aveva bisogno
di frequenti unzioni d’olio, ma trovavo poetico il fatto di far rivivere la
memoria di madame Chedjou, portando a spasso la sua
bicicletta. Ed Aurelien aveva ragione, d’estate il borgo era bellissimo con i
campi fioriti, che tenerla riposta in un capanno era davvero un enorme peccato.
Non avrei osato desiderare di più; mangiavo bene e a parità di cibo inghiottito
mi muovevo altrettanto –anche se ero ingrassata e i vestiti me lo dicevano
chiaramente- il corso stava procedendo senza intoppi e Auvers
era diventata ormai un nido assai familiare… fino al giorno in cui, persa fra i
miei roveti, non mi vidi sbucare alle spalle un ombra.
Era passato appena un
mese, questo il tempo che il destino decise di darmi come tregua.
“C’è nessuno?!” Non lo
sentii arrivare, i passi sulla ghiaia erano leggiadri e la mia mente troppo
occupata sul profumo inebriante delle rose. ”Deesire?!
Tu..qui?!”
Mi voltai lentamente,
posando il mio sguardo sulla sua figura, fra l’imbarazzato e l’incredulo; era
proprio lui, non avevo avuto un allucinazione da sole di mezzogiorno. Passai in
rapida occhiata il volto, tirato e alquanto scarno, con occhiaie profonde a
cerchiare gli occhi verde-azzurro tipiche di chi non riusciva a farsi una bella
dormita da un pò; vestito in modo bizzarro, molto più
di quanto non fossi abituata a vedergli, fra le mani una valigia usurata e un
sacchetto da sporta.
“Fabien?!”
Esordii ironica, “ti sei perso?!” Mi guardavo attorno come cercassi in un
brutto sogno la mia risposta; ma la spina che mi aveva punto nel voltarmi verso
lui, mi aveva fatto sanguinare e lo sentivo chiaramente. “Ahi..” sibilai e lui
rise, poggiando in terra valigia e sporta avvicinandomi.
“Dai qua..” mi prese
la mano portandosela alle labbra; stava succhiandomi l’indice.
“Neanche sei
arrivato.. hai già qualcosa di mio in bocca.” Berciai arrogante e ingrata; lui
spostò il dito dalle sue labbra e sorrise all’angolo della bocca, amaro. “E’
sempre un piacere, cugina.”
Stavo per ribattere
con un sonoro schiaffo, ma quello mi anticipò indietreggiando –memore del
passato- prima che la mano compisse il gesto. “Vedo che non hai perso le buone
maniere.” Sorrise, “E Aurelien? E’ una vita che non lo vedo, hai fatto fuori
anche lui? Qualcuno dovrebbe rimbeccarti seriamente sulla tua educazione.” Si
affrettò all’entrata, quando spinse via la porta, Rose trovandoselo davanti,
arrossì.
“Monsieur Moreau.. non
l’aspettavamo,” mi guardò sgranando gli occhi, “chiamo subito mia madre per la
servitù, le sistemiamo la casa in un ora, la prego ci scusi e..”
“Calma Rose, prendete
tutto il tempo che vi serve.” Le passò una mano a coppa sul viso e quella
sospirò talmente forte che temetti si rompesse. “Ma sarei felice di salutare
mio cugino, puoi chiamarlo?!”
Quella ci guardò
perplessa; annuii alle richieste che Moreau aveva fatto e la congedai. Qualsiasi
cosa intendesse per casa e servitù non mi era chiaro, ma a loro si,
evidentemente; cominciavo a sentire una spiacevole sensazione alla bocca dello
stomaco.
“Lui non è ad Auvers, Fabien.” Inarcò il
sopracciglio e sorvolai su inutili perché, sicura che lo avrei visto sparire
nel giro di qualche ora. Ma sbagliavo; la bellissima proprietà nascosta fra gli
alberi, esattamente difronte alla nostra, era della sua famiglia e per oscure
ragioni Fabien aveva deciso di prendervi possesso
tempo illimitato.
“Certo.. le origini
dei Moreu.” Pensai ad alta voce, dandomi della
stupida per non averlo capito prima; se nonno Moreau discendeva dai signori
feudali del borgo, tutto ciò che avevo attorno probabilmente gli apparteneva. Fabien annuì, come se mi avesse letto nel pensiero. “Ti
farei vedere la casa ma.. meglio di no, sei già stata sulla collina alta?!”
Stavolta annuii io. “Beh non c’è molto altro per te ad Auvers
immagino.. mi domando cosa ci fa la Deesire dai
vestiti della boutique delle Rose in mezzo ad anatre e strade di campagna.”
“Molto più di quello
immagini Fabien. Sono qui da un mese, ti stupirei..”
“Racconta allora..”
Calciò una sedia per farmi sedere ma negai. “Vuoi che ti aiuti con le rose
allora?!” Negai di nuovo. “Oh Deesire, non so dove
andare.. fammi restare con te, non sono poi così male!”
“Togliti quella giacca
ridicola monsieur Moreau,” mi guardò perplesso e vagamente eccitato; alzai gli
occhi al cielo e prosegui, “te la faccio scoprire io Auvers.”
Uscii verso il capanno; la mia bici era poggiata allo stipite, inoltrandomi nel
buio riemersi con l’altra, blu di vernice, scampanellando alla volta di Fabien.
“E queste?!” Si avvicinò
testando i freni.
“Un cimelio di
famiglia.” Montai in sella, guardandolo seria. “Andiamo!”
Si lasciò condurre
fuori la strada sterrata, per un sentiero che avevo scoperto nelle mie giornate
di fuga, quando dal corso avevo una pausa -come in quel giorno- in cui ero
solerte sistemare la casa o appunto darmi a isolate passeggiate meditatrici; il
terreno era dissestato ma secco, per cui proseguimmo senza intoppi, per un
vialetto di pioppi ridondanti. Ci fermammo lungo il corso d’acqua dell’Oise, riparati da una collina alle nostre spalle degradante
sul fiume; c’era pace, tranquillità e la frescura che le fronde degli alberi
regalavano con la loro ombra.
“Allora Deesire, cosa ci fai sola ad Auvers?!”
Abbandonammo le biciclette e ci adagiammo sull’erba. Fabien
aveva srotolato delle carte dalle quali erano usciti deliziosi formaggi
austriaci ed olive italiane, alcune specialità basche e salumi di terre che in
vita mia avevo solo sentito pronunciare, cose che aveva portato con se, di
ritorno dai suoi viaggi; aveva passato l’ultimo anno nel vecchio continente,
frequentando scuole d’arte prestigiose e imparando a sua volta l’insegnamento
della materia. Era stato a Firenze, era passato per Vienna, poi ad Amsterdam
per ammirare i meravigliosi dipinti di Van Gogh, ed esaurito questo desiderio
d’apprendimento aveva fatto ritorno in Francia, precisamente ad Auvers dove avrebbe trascorso un po’ di tempo prima di
partire per nuove mete. Sembrava entusiasta del suo percorso, ed io non lo
avevo mai visto così appagato prima ad ora; a parte il viso scarno e più
maturo, i suoi occhi brillavano di una luce che avevo visto solo in quelli di
Aurelien quando l’ascoltavo parlare di finanza o nei miei quando il progetto
della scuola era divenuto realtà. Parlavano di soddisfazioni quegli occhi e di
cose magnifiche che aveva fatto e visto.
“Te l’ho detto, maitre Gerald ha aperto una scuola ed io..”
“Sì.. cucini, finanzi
e ti diverti.” Elencò il mio essere ad Auvers come si
elenca la ricetta di un brodino; lo guardai male, addentando dell’ottimo pane e
formaggio. “Io mi chiedevo il vero motivo. Sei così trasparente Deesire, ti si legge un mondo dentro quegli occhi.” Lasciò
che un canto di grilli sostituisse la sua voce, non aggiungendo altro se non un
sospiro, lieve ma lunghissimo. Rimasi interdetta e piuttosto infastidita dalla
sua esuberanza, ma sinceramente colpita dal suo voler sempre leggermi dentro;
non so che ne era stato della sua cotta infantile, dopo il mio matrimonio era
stato parecchio bravo nel delegare tutti gli impegni di famiglia e i viaggi
studio avevano fatto il resto; semplicemente le nostre vite erano andate
avanti, ed averlo qui felice nei suoi racconti mi dava se non altro un po’ di
speranza per il futuro.
“Sei sempre così
attento Moreu o è l’aria europea che ti ha reso
perspicace?!”
“L’una e l’altra.”
Sorrise fugacemente, aggrovigliandosi su un pensiero che rimase tale e morì in
un sussulto.
“Dopo queste
meraviglie, Fabien, te lo chiedo io.. perché sei
tornato?!”
“Nostalgia di casa.”
“Casa?!” Mi guardai
attorno e lui sorrise imbarazzato. “Beh qualsiasi cosa voglia dire casa, Auvers le somiglia. Non mi ha mai spaventato molto la
solitudine e di certo come sai non bramo di ritornare a Parigi.” Accidenti a Fabien Moreau e alla sua sincerità; mi sciolsi come burro
al sole, ricordandomi quanto in fondo ci assomigliavamo. “Non riusciamo ad
avere figli.” Sparai la mia cartuccia stretta fra i denti e mi alzai senza
attender risposta, sussulto o compatimento andandomene verso il lento fluire
dell’Oise.
Sentii i suoi passi,
poco dopo, frusciare sull’erba e poi il silenzio; era alle mie spalle, immobile.
“Ed egli non sa perché, vedendo passare una chiatta, la
nostalgia lo afferra. Anche egli vorrebbe partire, lontano, lontano, sull’acqua
e vivere una nuova vita.”
Parlò dolce scandendo
parole di Prevert, la mano allacciata alla mia, senza
dire altro.
*
NDA:
Capitolo di passaggio,
piuttosto incasinato lo ammetto, ma zeppo di informazioni al fine di
giustificare la mia mente contorta applicata al seguito della storia. Spero vi
piaccia.
Come sempre ringrazio
chiunque avrà voglia di spendere tempo per leggerla e lasciare un commentino; a
chi lo ha già fatto, milioni di grazie!
Grazie quindi a Benny Badflour per la recensione. J
Lunadreamy.