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Autore: Mary P_Stark    26/04/2013    3 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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N.d.A.: Capitolo breve ma davvero intenso. Attenzione, perchè c'è parecchio sangue.


14.

 
 
 
 


 

Ero seduta su un lettino del pronto soccorso del Queen Mother’s Hospital, in attesa di essere dimessa assieme a Lance.
Da quel che sapevo, gli stavano estraendo il proiettile dalla spalla nella saletta accanto all’astanteria.
I poliziotti avevano già preso nota di tutte le informazioni che avevamo potuto dare loro, e cioè molto poco.
Nel frattempo, i genitori di Leon erano giunti in ospedale per il riconoscimento del  figlio.
Non mi ero voluta far vedere da loro, ancora troppo turbata da ciò che era successo.
Mi sentivo  tremendamente in colpa, per la fine che aveva dovuto subire Leon a causa dell’uomo che mi dava la caccia senza alcuna pietà.
Ellie, accanto a me, mi teneva per mano pur senza realmente essere lì con la mente, persa a sua volta in mille pensieri, forse non dissimili dai miei.
Jerome, l’unico di noi a essere vigile e presente di spirito, controllava ogni minimo movimento del pronto soccorso, ben deciso a evitare che mi succedesse qualcos’altro, in quella convulsa giornata senza senso.
Kate non mi aveva ancora chiamata, segno che le indagini erano ancora in corso. Non che vi contassi molto, del resto.
Jerome, nel frattempo, aveva avvertito Duncan dell’accaduto, assicurandogli che nessuno di noi era in pericolo di vita.
Ero stata al telefono con lui un paio di minuti, prima di scusarmi e chiudere la comunicazione.
Non sarei stata in grado di sostenere altro, in quel momento.
Neppure gli odori intensi e aspri dei medicinali e dell’ammoniaca, usati nel pronto soccorso, mi diedero fastidio, per una volta.
Il mio cervello era come avvolto dall’ovatta, come se nessuno stimolo sensoriale esterno potesse toccarmi.
Ero come in coma. Ero sveglia, ma non del tutto.
Continuavo a rivivere, fotogramma dopo fotogramma, gli ultimi attimi di vita di Leon, in cui lui si avvicinava a me con un sorriso in viso e l’aria spavalda di sempre.
Poi quel sangue, quel mare di liquido denso e dal sapore metallico che mi aveva riempito il viso e il torace, dilagando su di me come una piena di fiume.
Quel sangue aveva portato via con sé una vita, e in modo così brutale che, a stento, riuscivo ad accettare come la realtà nuda e cruda.
Mi avevano ripulita in fretta dal sangue, imbottendomi di calmanti – che ovviamente non avevano funzionato – e infilandomi in una di quelle orrende camiciole di carta che usano negli ospedali.
Era di quel viscido color verde, che tanto fa pensare a cose rancide e andate a male.
Ero rimasta in stato catatonico per un’ora buona – facendo credere a tutti che i calmanti stessero funzionando, quando era stata la mia totale inedia a rendermi simile a un broccolo – mentre, dottori e poliziotti, raccoglievano le prove di ciò che rimaneva di Leon sui miei abiti e addosso a me.
Quando ebbero finito, mi ero concessa il lusso di piangere in silenzio, lasciata misericordiosamente sola assieme a Ellie, che mi aveva stretta a sé piangendo a sua volta.
Solo, fermo nel corridoio e con il cellulare sempre in mano, lo sguardo degno di un assassino professionista, Jerome era rimasto a vigilare su di me. Nel contempo, aveva avvisato di volta in volta i vari Fenrir britannici, coinvolti nelle ricerche del mio misterioso nemico.
Non avevo ancora idea di come avrei potuto ringraziarlo per quella presenza di spirito, per quella lucidità ma, in qualche modo, avrei fatto.
Ero lieta di aver portato con me Lance e Jerome. Ma… Dio, perché far morire proprio Leon? Perché?!
Lui, che del mio mondo non faceva, e non avrebbe mai fatto parte, era rimasto schiacciato nel bel mezzo di una guerra senza nome.
Rabbrividii, immaginando il dolore dei genitori, e mi chiesi come avrebbero fatto a spiegarsi quella morte così assurda.
Nessuno avrebbe detto loro la verità, e il caso si sarebbe chiuso come un episodio di violenza di un folle sanguinario.
Non avevo dubbi in merito.
“Brie… Lance è libero” sussurrò Elspeth, riscuotendomi in parte dal torpore.
Mi volsi appena in direzione della porta aperta e, quando vidi giungere Lance – con una vistosa fasciatura alla spalla e la maglia ancora sporca di sangue – riuscii in qualche modo ad abbozzare  un sorriso che, però, non raggiunse i miei occhi lucidi.
Lui si avvicinò in silenzio, stringendomi a sé con il braccio sano e io, avvolgendogli la vita con le braccia, mi appoggiai al suo torace e sussurrai: “Stai bene, ora?”
“Sì, tutto a posto. L’ogiva non conteneva nitrato d’argento. Il proiettile, però, lo era interamente” mi sussurrò, continuando a tenermi stretta a sé.
“Cos’ha detto la polizia?” chiesi, vagamente turbata.
“C’erano gli uomini di Fred, perciò la faccenda sarà insabbiata con facilità. Speriamo soltanto che a qualche altro zelante poliziotto non venga in mente di collegare il tuo nome a ciò che è successo a Londra, o potrebbero far incuriosire le persone sbagliate” sussurrò Lance prima di aiutarmi a scendere dal lettino, dov’ero ancora seduta.
“Ci mancherebbe solo che i Cacciatori della città ci piombassero addosso” ringhiai furente. “Non ci bastano già i problemi che abbiamo?”
“Sentirò Fred perché insista sul mantenere anonimi i nomi delle vittime, per il diritto sulla privacy. Così facendo, dovremmo ridurre a zero i rischi” dichiarò Jerome, entrando nella stanza nervoso come non mai. “A ogni modo, non credo dovremmo partecipare al funerale di Leon. Non vorrei che qualcuno degli amici del tuo patrigno ti riconoscesse, e si chiedesse che diavolo ci fai qui visto che, in teoria, dovresti essere a Matlock.”
I suoi occhi guizzavano da un angolo all’altro dello stanzone come se fosse preda di potenti scosse elettriche, quando invece era solo l’ansia a muoverlo.
Annuii mestamente, pur volendo gridare a tutti di andare al diavolo. Ma sapevo qual era il mio dovere.
Prima ancora che a Leon, io dovevo pensare al mio branco.
Essere Prima Lupa voleva dire anche passare sopra agli interessi personali, pur di difendere il clan.
Mai come in quel momento, però, odiai quelle leggi, come odiai i miei nemici, conosciuti o sconosciuti che fossero.
Non potei esimermi dal provare tali deprecabili sentimenti, nonostante sapessi a quanto poco servisse sentire dentro di me quel fuoco divorante e senza scampo.
Cosa avrei risolto, distruggendo ogni centimetro di Glasgow? O uccidendo tutti coloro che mi stavano intorno?
Nulla. Un accidente di nulla.
Avrei solo dato un motivo di più ai Cacciatori per stanarci e debellarci come se fossimo una pestilenza e, in ogni caso, Leon non sarebbe tornato in vita, né il suo assassino assicurato alla giustizia.
Lasciare libera la mia bestia era inutile quanto controproducente, ma era tremendamente complicato tenere a freno gli artigli che mi stavano squarciando il petto, desiderosi di uscire per distruggere ogni cosa si muovesse.
Volevo sangue e dolore, come sangue e dolore erano stati imposti a me.
Aiutami, Madre, ti prego! Non resisterò ancora a lungo!, gridai dentro di me, desiderando per una volta udire le sue parole, la sua presenza.
Lei, però, non venne. Non faceva parte dell’accordo, dopotutto.
Dove stava, il libero arbitrio, se la Madre interveniva?
Lance mi guardò comprensivo – doveva aver sentito, al pari di Jerome, il mio accorato richiamo – e, tenendomi per mano, sussurrò: “La Dolce Madre non può fare preferenze, lo sai.”
“Come dimenticarlo?” sussurrai a mia volta, prima di veder comparire nella stanza un paio di medici.
Mi controllarono con attenzione la medicazione e, dopo aver visionato la mia cartella clinica, mi permisero di uscire assieme ai miei amici.
In silenzio e in mesta processione, oltrepassammo le porte a vetri dell’astanteria.
Dopo essere usciti nel piazzale adiacente l’entrata, ci dirigemmo con passo strascicato verso la Mercedes, il coltello per cui Leon aveva perso la vita ben sigillato nella borsetta di Ellie.
Tenendoci per mano per tutto il tragitto lungo il parcheggio dell’ospedale, mormorò come ripetendo un mantra: “Non è colpa tua, Brie. Non avrebbe dovuto seguirci, tutto qui.”
“Stupido, stupido, stupido galletto” singhiozzai, cercando di non piangere.
Lance e Jerome non aprirono bocca, limitandosi a camminare al nostro fianco.
Sapevano benissimo che, qualsiasi cosa avessero detto in quel momento, non avrebbero migliorato il mio stato d’animo.
Ero troppo affranta per ascoltare alcunché.
Salii in auto, continuando a ripetere quell’assurda nenia e scivolai sul sedile, poggiando il capo sulle gambe di Elspeth.
Lei mi carezzò i lunghi capelli macchiati di sangue rappreso, sussurrando parole confortanti per tutta la durata del viaggio verso la casa di Fred.
Chiusi gli occhi, cercando di non pensare al sapore metallico e dolciastro del sangue di Leon, tentando in ogni modo di cancellare quegli attimi terribili, in cui tutto era diventato un incubo a occhi aperti.
Nulla, però, mi salvò da quell’aggressione mentale di immagini strazianti.
La mia mente fin troppo vigile rammentava benissimo ciò che era avvenuto in quella strada, e l’avrebbe ricordato per molto tempo a venire.
Speravo solo di prendere quanto prima il suo assassino, così da vendicarne almeno la memoria.
Non stavamo più insieme e, per certi versi, si era comportato solo da idiota, con me.
Ma era stato il mio primo ragazzo, a lui avevo dato il primo bacio, lui era stato il primo ad avermi regalato una rosa.
Meritava qualcosa di più di un semplice ricordo di sangue, nella mia mente.

***

Ero ancora nella vasca da bagno della casa di Fred, quando il cellulare squillò.
Lo fissai vacua mentre vibrava sul lavandino, indecisa se rispondere o meno o se, addirittura, distruggerlo a suon di pugni. Non ero certa di cosa volessi, in quel momento.
Ma poteva essere Kate, o Duncan, e loro meritavano che io li ascoltassi.
Con quel residuo di forze che mi restavano, usai il mio potere per accendere il vivavoce del cellulare e, con tono vacuo, mormorai: “Sì, chi è?”
“Brie, dove sei? Ti sento lontana” disse la voce di Duncan, proveniente dal telefono.
“Sto rilassandomi – o almeno ci provo – nella vasca superba di Fred” gli spiegai, cercando di apparire ironica.
“Mi spiace, Brie, davvero. Non sarebbe dovuta andare così” mormorò spiacente, con voce sinceramente distrutta dal dolore.
Sorrisi appena.
Duncan poteva anche essere stato geloso di Leon, ma di certo non avrebbe mai voluto questo, per lui.
Duncan era tante cose, ma non certo vendicativo, o crudele.
“Grazie.”
Scivolai un poco nell’acqua calda per immergermi ancora di più.
Mi sembrava di essere un ghiacciolo e, pur se l’acqua era bollente, niente sembrava togliermi questa sensazione di dosso.
“Mi sembra tutto così irreale, eppure so che è successo davvero.”
“Elspeth come si sente?”
“Oh, sta abbastanza bene. E’ forte, e si riprenderà. Ora è con Becca e Matt. Sembra che stare con il piccolino la rilassi un poco” gorgogliai roca, volgendo il capo verso il cellulare, come se potessi vedere in carne ed ossa Duncan.
Lo avrei voluto tanto lì.
“Mi manchi da impazzire.”
“Se potessi, correrei lì da te anche adesso” asserì Duncan, con voce spezzata dal dolore.
“Verrò io da te, tranquillo. Non appena avremo consegnato il coltello alla scientifica di Aberdeen. O meglio, agli scagnozzi di Bright” gli spiegai, chiudendo gli occhi.
Ancora flash del sangue di Leon, sparso come una nuvola scarlatta attorno al mio viso.
Quell’immagine avrebbe smesso di comparire, o mi avrebbe ossessionata per tutta la vita?
“L’avete trovato?” chiese curioso Duncan.
“Mentre eravamo all’internet-point, Leon ha visto l’immagine dell’accoltellamento, e ci ha detto che quel tizio ha lasciato cadere l’arma a terra, durante la fuga dal locale. Così siamo andati là per cercarla e lui, lui…” mi bloccai, singhiozzando irrefrenabilmente.
“E’ sicuramente passato per darvi una mano” intervenne Duncan, con una sicurezza nella voce che avrei voluto provare io.
“Quello sciocco, maledetto presuntuoso” riuscii a dire in un rantolo, affondando un attimo in acqua per poi riemergere, completamente grondante in viso.
Duncan non disse niente, lasciando che mi sfogassi in silenzio ma, prima di chiudere la comunicazione, sussurrò malinconico: “Ti aspetto, principessa.”
“Lo so” sussurrai, e la linea si interruppe.
Sbattendo la testa contro la superficie liscia e di porcellana della vasca, strinsi i denti fino a farmi male, fino a sentire il sangue scorrere sulle gengive.
Non potendo più resistere, lanciai un urlo roco e spezzato dai singhiozzi.
Continuai a picchiare il capo contro la vasca, urlai, urlai ancora e schiacciai i pugni contro la superficie schiumosa dell’acqua, inondando le mattonelle e il morbido tappeto di cotone del bagno.
Le lacrime si unirono all’acqua che scivolava via bollente sul mio viso e, mentre urlavo il nome di Leon più e più volte, la porta del bagno si aprì di botto.
Sgomento e pallido in viso, Fred mi guardò ammutolito, non sapendo bene cosa fare.
Lo fissai ai limiti della sopportazione fisica, conscia di stare perdendo la testa, ma impossibilitata a fermare quel flusso di dolore che mi stava sgretolando il cervello.
“Brianna…” sussurrò, prima di venire affiancato da Lance e Jerome.
Senza dire nulla, Lance non perse tempo.
Raccolto un asciugamano dall’appendiabiti, mi avvicinò e, con la diligenza degna di un medico quale era, mi estrasse dall’acqua e mi avvolse nella morbida spugna, io inerme e flaccida nel suo abbraccio.
Jerome, serio al pari di Lance, mi prese in braccio a un cenno dell’amico e Fred, lasciandolo passare, ci seguì lungo il corridoio mentre mi conducevano alla mia camera da letto.
Come un disco rotto, continuai a sussurrare il nome di Leon, la gola riarsa e la forza ormai nulla.
Jerome, facendomi stendere dolcemente sul letto, sussurrò preoccupato: “Becca e Matt?”
“In giardino, assieme a Elspeth. La ragazza non dovrebbe aver sentito nulla, visto che le pareti sono insonorizzate” spiegò turbato Fred, senza mai lasciarmi con lo sguardo.
“Bene. Ho la forza per affrontare solo una crisi isterica, stasera” commentò aspro Jerome, prima di carezzarmi il viso e sentenziare: “Principessa, ora ascoltami bene.”
Annuii, pur senza smettere di sussurrare tra le labbra quel nome, mille e mille volte.
Jerome imprecò e ringhiò roco: “Ti devi riprendere, o crollerai del tutto, principessa. Non serve a nulla ripetere all’infinito il suo nome. Non tornerà. E’ con la Madre, ora. E’ sereno.”
“E’ morto” precisai, digrignando i denti prima di fare l’atto di alzarmi da letto.
“Ah, no!” mi bloccò sul nascere, stando ben attento a non sfiorarmi al di sotto delle spalle. “Se hai deciso di fare la dura, allora mi costringi a fare altrettanto. Non ti permetterò di dare di matto. Non te lo puoi permettere!”
“Maledizione, Jerome, è morto per causa mia!” esplosi, sollevando le mani per allontanarlo da me.
Lance e Fred intervennero all’improvviso, bloccando le mie braccia contro il materasso e guardandomi spiacenti per ciò che stavano facendo.
Li ignorai, soffiando tra i denti come una gatta furiosa e Jerome, con un sospiro, reclinò il capo e dichiarò impotente: “Mi spiace, Brie. Tu non sai quanto.”
“Che intendi dire?” ringhiai, tesa come una corda di violino.
“Non posso permetterti di perdere la testa. Tu sei wicca ma, soprattutto, sei Prima Lupa e io sono il tuo Sköll. Poiché Fenrir non è con noi, adesso io ho potere decisionale su di te” mi disse, mesto in viso ma lapidario quanto la morte stessa.
Aggrottando la fronte, replicai sospettosa: “Cosa vuoi fare, Jerome?”
“Non mi lasci altra scelta, Brie. Il tuo potere è troppo grande, perché io possa permetterti di lasciarlo fuoriuscire a briglia sciolta come stai facendo ora” sussurrò, salendo sul letto e portandosi a cavalcioni sopra di me.
Mi divincolai, la bestia che graffiava dentro di me, presagendo qualcosa che io non comprendevo neppure.
Jerome, con occhi lucidi di lacrime che non avrebbe versato, si chinò su di me e ringhiò: “Assoggettati, Brianna. Devi calmarti, o noi tutti saremo perduti!”
“Non posso, Jerome, non riesco!” singhiozzai, prima di ansimare per la sorpresa e il dolore.
All’improvviso, con un movimento rapido quanto inaspettato, Jerome calò sul mio collo, mordendolo fino a farmi male, fino a che il mio sangue non sgorgò dalla carne.
A quel punto, risollevandosi per guardarmi negli occhi, sibilò ancora: “Assoggettati, Brianna!”
La bocca, sporca di sangue, era piegata in una smorfia addolorata e, quando tornò a calare su di me per un nuovo morso, gridai.
Gridai e piansi, perché finalmente avevo compreso quello a cui avevo costretto Jerome.
La sottomissione col sangue.
Era il modo più estremo, e violento, per chetare l’aura di un lupo inferocito.
E io, in quel momento, lo ero.
Ma, pur sapendolo, non riuscii a rimettere in gabbia la bestia, costringendo Jerome a mordermi per ben sei volte.
A quel punto, cedette alla rabbia e gridò: “Cedi, maledizione! Cedi!”
Continuando a piangere, piegai di lato il viso e, in un sussurro disperato, ansai: “La giugulare, ti prego.”
“Brianna…” ansò, impallidendo, divenendo una maschera grottesca color sangue e latte.
“La metterai a tacere, davvero” sussurrai ancora, chiudendo gli occhi senza smettere di piangere. Per me, per Leon, per Jerome. Per tutti noi.
Jerome scosse il capo, guardandomi affranto nei punti in cui mi aveva già morso invano ma io, senza alcuna pietà, sibilai: “Sei Sköll. Termina ciò che hai cominciato!”
Maledicendo se stesso, Jerome si avventò su di me con una rabbia e una frustrazione possenti e, affondando nella mia carne morbida, squarciò la giugulare, liberando un grido e un ululato di sconfitta dal mio petto.
Il sangue scarlatto fuoriuscì dalla ferita, inondandogli il viso prima di colare sul letto e i miei seni.
Subito, Jerome si scostò, inorridito dal danno procuratomi.
Rimase imbambolato di fronte a ciò che aveva compiuto fino a quel momento, tanto che Fred, per permettere a Lance di curarmi, dovette tirarlo via di peso dal mio corpo immoto.
Lo sentii piangere contro il torace di Fred, mentre le mani tremanti di Lance mi bendavano la ferita al collo e, in un sussurro pieno di disprezzo per me stessa, gracchiai: “Perdonatemi… tutti quanti.”
 
 

  
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