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Autore: shadow_sea    04/05/2013    6 recensioni
Il seguito di "Come ai vecchi tempi".
Questa volta le avventure del comandante Trinity Shepard fanno riferimento agli eventi narrati in Mass Effect 3.
Come nella storia precedente, la mia intenzione è quella di scrivere storie che traggano spunto dal gioco originale e se ne discostino allo stesso tempo, sempre attente a non stravolgere la trama o i personaggi. Le storie che troverete qui sono frutto di considerazioni ed emozioni personali, sono frutto del mio amore appassionato per questa trilogia e per Shepard ma, soprattutto, per Garrus Vakarian.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Garrus Vakarian, Un po' tutti
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Shepard e Vakarian'
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L’ULTIMA MATTINA SILENZIOSA



I tre compagni scesero dalla navetta da sbarco e si avvicinarono alla sonda conficcata nell’arido terreno roccioso di colore giallastro. Kaidan aspettò il cenno di assenso di Shepard, poi spense il segnale automatico di soccorso, mentre il comandante e Thane si guardavano attorno alla ricerca di un movimento qualsiasi che potesse indicare la presenza di superstiti.
I rottami sparpagliati al suolo sembravano abbastanza recenti e la loro fattura suggeriva che si potesse trattare dello schianto di un A-61 Mantis, un veicolo che veniva utilizzato spesso dalle bande mercenarie. In terra erano sparsi anche alcuni frammenti provenienti da un’armatura e delle macchie di liquido blu che conducevano verso un ammasso di rocce poco distanti.
- Sangue turian - decretò Thane, dopo averlo osservato da vicino.
Si raggrupparono in formazione difensiva, con Shepard al centro, mentre Kaidan e Thane le si strinsero ai fianchi: impugnarono le armi e scrutarono attentamente fra i massi grigi che si ergevano fino ad un’altezza di una decina di metri dal suolo.
- Abbiamo intercettato il segnale di soccorso, serve aiuto? Qui è il comandante Shepard, Marina dell’Alleanza - gridò Shepard nell’aria immobile del pianeta. Non giunse alcuna risposta e non si avvertì il minimo rumore.

Con un semplice gesto della mano destra, il comandante ordinò ai compagni di avvicinarsi lentamente alle rocce, in formazione sparpagliata.
Pochi istanti dopo Kaidan segnalò via radio la presenza di un’apertura che faceva pensare all’entrata di una caverna, invitando i suoi compagni a raggiungerlo.
- Do un’occhiata - avvisò, poi cominciò ad inoltrarsi dentro il grosso buco prestando estrema attenzione al suolo su cui appoggiava gli stivali.
L’interno della caverna era buio e umido. Gocce di un liquido verdastro e denso cadevano ogni tanto dalla volta della cavità e si rompevano al suolo aprendosi in piccole pozze viscose e luminescenti. La luce delle torce illuminava delle liane che si infiltravano nelle crepe fra le rocce: da questi lunghi filamenti fibrosi si dipartivano, a distanza irregolare, grossi baccelli nerastri.
Si sentiva un ronzio insistente e penetrante che variava continuamente di tono, quasi fosse una sorta di canto sconosciuto.

- Kaidan, aspettaci - ordinò il comandante, reso inquieto dall’ambiente tanto alieno, mentre Thane sussurrava nella radio del casco - Questo posto non mi piace, c’è qualcosa di strano e minaccioso.
- Ma dove sei finito? - domandò Shepard in tono ansioso e poi chiamò di nuovo - Kaidan?
Non arrivò nessuna risposta dal tenente Alenko, mentre Thane la avvertì improvvisamente - Comandante, alla tua sinistra!
Alla luce della torcia del drell, Shepard notò sul terreno una sacca rigonfia molto più grande delle precedenti. Riluceva debolmente di un bagliore verde fosforescente e si contraeva e dilatava in una lenta sequenza di movimenti morbidi e regolari, come se respirasse.
Improvvisamente il baccello iniziò a creparsi e dalla fenditura centrale apparvero due mani guantate che divisero con forza i lembi dell’apertura. Apparve il casco di Kaidan, seguito da tutto il resto della sua armatura, grondante umori e brandelli verdastri di tessuto alieno.
- Stai bene? - fu la domanda immediata di Shepard, che tese la mano verso la figura appena uscita dalla sacca per aiutarlo a trarsi fuori.

- Comandante, stai indietro! - la avvertì Thane tirandola a sé con la mano destra mentre con la sinistra puntava la pistola contro Kaidan.
L’aria si riempì delle grida rabbiose emesse da quella figura. Shepard intravide una faccia contorta al di là del casco con una bocca irta di denti aguzzi che restò spalancata in un urlo che sembrò durare all’infinito e creò echi dissonanti, rimbalzando sulle pareti di roccia.
- Non sparargli! - ordinò prontamente il comandante a Thane, che rimase incerto sul da farsi e si limitò a frapporre il proprio corpo fra lei e la creatura aliena. In quello stesso istante un’ombra scura, che si materializzò improvvisamente dietro il baccello aperto, usò il calcio di un fucile di precisione per spezzare le gambe di Kaidan all’altezza delle ginocchia, con uno schiocco secco che rimbombò in modo sinistro all’interno della caverna.
Un turian con una ferita che gli sfregiava tutto il lato destro del viso e un’armatura blu danneggiata all’altezza del collo era spuntato dal nulla e aveva colpito le gambe di quell’essere, facendolo crollare al suolo immobile, poi gli aveva inferto un poderoso calcio contro il casco.

Senza più la visiera a proteggere il viso dell’alieno, il comandante si rese conto che il volto che stava fissando rassomigliava molto a quello del tenente, ma quegli occhi spalancati non avevano alcun barlume di intelligenza, rispecchiavano solo un odio incontrollabile e privo di ragione.
Quell’essere restò sdraiato al suolo, contorcendosi nel suo stesso vomito che continuava ad allargarsi sul pavimento roccioso in una pozza maleodorante alimentata da conati di un liquido nerastro.
- Non gli ho sparato - fu la frase laconica che pronunciò il turian con tono impertinente, poi Garrus si rimise lentamente a tracolla il lungo fucile di precisione e la guardò con un sorriso che aveva tutta l’aria di una sfida divertita.



The Last Of The Mohicans



Si svegliò al rumore di colpi energici battuti contro la porta. Si accorse di stare tremando per quello strano sogno e per un attimo, nel buio della stanza da letto, credette di trovarsi a bordo della Normandy e immaginò che un membro del suo equipaggio l’avesse svegliata nel cuore della notte per una qualche emergenza.
Cercò inutilmente la tazza di caffè che teneva sempre sul comodino per poter essere subito sveglia in caso di necessità. Poi si spazientì e mormorò un’imprecazione, non trovando neppure l’uniforme che era solita lasciare sulle coperte ai piedi del letto.
Solo a questo punto, mentre una voce nota la chiamava, ricordò di essere in un appartamento sulla Terra, agli arresti domiciliari, in attesa della conclusione di quello stupido processo interminabile.
- Cosa c’è, James? - rispose a voce alta, mentre accendeva la luce sul comodino e cercava un vestito nell’armadio.
- Mi scuso per l’orario: è un’emergenza. Il Comitato di Difesa dell’Alleanza desidera parlarle urgentemente. Ho l’ordine di condurla lì il prima possibile.
- Arrivo subito - rispose, scartando immediatamente il vestito civile che aveva preso in mano e optando invece per l’uniforme dell’Alleanza.

“Chissà cosa vorranno questa volta: altre stupide domande, uno dei soliti richiami perché non ho applicato il regolamento alla lettera, un’altra delle critiche che denotano quanto non si rendano conto della gravità della situazione. Ero stanca di queste cose già ai tempi di Saren, con i Consiglieri della Cittadella, ma allora potevo almeno chiudere la comunicazione…” recriminò finendo di chiudere i fermagli dell’uniforme mentre rimuginava su quello strano sogno che le aveva riportato alla mente tanti ricordi.
Le era facile riconoscervi l’incontro con Kaidan su Horizon e la conclusione dello scontro contro Harkin, in compagnia di Garrus.
Non capiva perché la sua mente avesse ripescato il drell, ma forse il motivo risiedeva nel fatto che era stato lui il terzo membro della sua squadra nella base dei Collettori. E poi, in effetti, ogni tanto pensava a Thane, chiedendosi come stesse... da mesi ormai non aveva più notizie né di lui, né di qualsiasi altro membro del suo vecchio equipaggio.
Non aveva alcuna fretta di prepararsi, nonostante l’urgenza che aveva avvertito nella voce del tenente Vega. Dette un’occhiata fuori della finestra, attraverso quelle grate di metallo che tanto l’avevano urtata al suo arrivo. Stava albeggiando e una tenue luce rosata illuminava le nuvole basse sull’orizzonte, verso est.

Quando aveva messo piede per la prima volta in quella prigione era notte. Aveva dato un’occhiata distratta al mobilio cercando una finestra. L’aveva spalancata e si era ritrovata a fissare una griglia metallica. Al di là di quelle sbarre il cielo. Ma quel cielo era troppo diverso da quello che era solita ammirare alle spalle di Joker. Le poche stelle visibili erano fioche e velate, tremavano stentatamente in quell’aria satura di miasmi cittadini e di smog, sconfitte dalle volgari luci delle insegne pubblicitarie.
Aveva appoggiato la fronte contro le sbarre di metallo, annientata.
Si era messa a girare lungo il perimetro di quella grande gabbia in cui l’avevano rinchiusa come fosse una criminale, un’efferata assassina. Ma lei non si era mai sentita colpevole e faceva fatica a sottostare a quella inutile inerzia forzata quando ci sarebbero state tante cose più utili da fare.
Aveva preso mentalmente nota della pianta di quel piccolo appartamento: un lungo corridoio con la porta d’ingresso piantonata da due soldati che stazionavano sul pianerottolo 24 ore su 24 e una piccola finestra con troppe sbarre; un’inutile cucina che lei avrebbe usato il minimo indispensabile e infine una stanza con un letto troppo ampio per la sua solitudine, un bagno e una grande portafinestra, sbarrata anch’essa, che affacciava su un minuscolo balcone rettangolare.

Era da quella portafinestra che stava fissando ora la luce dell’alba, assolutamente indifferente a ciò che quel nuovo inutile giorno avrebbe portato con sé. Si sentiva stanca e demotivata. Aveva perso la voglia di combattere dopo tutti quei mesi.
All’inizio era stato diverso: si era opposta strenuamente a tutto quello che le appariva ingiusto e immotivato.

La sera successiva al primo interrogatorio che era stata costretta a subire era rientrata a casa, aveva spalancato la portafinestra e aveva divelto la griglia metallica con uno schianto biotico che era rimbombato nell’aria circostante sopraffacendo i rumori del traffico, delle pubblicità, delle conversazioni dei passanti.
Aveva avuto appena il tempo di uscire sul terrazzo prima che i soldati di guardia alla porta di ingresso si precipitassero al suo fianco.
Uno dei due, un ragazzino di appena vent’anni, teneva la mano sulla pistola e aveva uno sguardo talmente terrorizzato che lei aveva provato la tentazione di urlargli contro il grido di guerra di Grunt, tanto per vedere come avrebbe reagito. Il suo compagno era invece un anziano sergente dall’aria tranquilla. Era stato lui a chiederle con ferma gentilezza di rientrare nell’appartamento, dopo averle indicato la telecamera posta sul terrazzo.

Quella telecamera l’aveva mandata fuori di testa. Il pensiero che venisse controllata nel suo stesso appartamento le era apparso insopportabile. Appena i due soldati erano tornati sul pianerottolo lei aveva preso la prima sedia che le era capitata a tiro nella stanza da letto, l’aveva fatta a pezzi con calma, senza fare troppo rumore, poi era andata in cucina a prendere l’accendino e aveva dato fuoco a quei pezzi di legno e di stoffa.
Non era accaduto nulla fino a quando il fumo aveva fatto scattare il sistema di allarme e lei si era trovata sotto una pioggia di acqua proveniente dal soffitto, mentre i due militari facevano di nuovo la comparsa all’interno dell’appartamento.
Il ragazzino aveva spalancato la porta della stanza da letto con un calcio, tenendo la pistola spianata, e lei era stata colta da un accesso di risate che aveva sconvolto del tutto quel povero soldatino.
Il sergente si era invece diretto verso il letto, aveva tirato via la coperta e l’aveva buttata sul piccolo falò. Era rimasto a fissare perplesso quel disastro e poi l’aveva guardata rassicurandola - Le telecamere sono solo esterne, per la sua sicurezza, non si deve preoccupare per la privacy. Magari poteva chiedermelo, anche se capisco che avrebbe potuto non credere alle mie parole...

Questo avvenimento risaliva a molti mesi prima, quando era ancora la donna combattiva che era sempre stata. Ora si stava spegnendo come una pila che sta esaurendo la carica interna.
“Lamentarsi non porta a nulla, spero solo che questo dannato processo si concluda rapidamente. Sono stanca di stare agli arresti domiciliari in questo stupido appartamento” si disse infilandosi gli stivali e andando ad aprire la porta della camera da letto.
Si trovò davanti un James confuso, dalla cui espressione era fin troppo facile capire che neppure lui conosceva il motivo di quella convocazione inattesa.
Si avviarono verso la macchina di servizio mentre il tenente le chiedeva - Hai idea di quanto durerà ancora questo processo?
- No, ma ho l’impressione che sia iniziato dieci anni fa - fu la replica sconsolata di Shepard.

Il viaggio proseguì in silenzio e, mentre il veicolo avanzava nel traffico della città di Vancouver, Shepard ripensò per l’ennesima volta ad Amanda Kenson, alla distruzione del portale Alpha e a tutte le morti batarian che aveva causato. Non si era mai pentita del suo gesto perché non aveva mai avuto una possibilità di scelta, ma questo non riusciva a farlo entrare nelle teste cocciute delle autorità dell’Alleanza.
“Stupidi burocrati con i paraocchi” si sfogò inutilmente per la centesima volta da quando le avevano requisito la Normandy e l’avevano confinata agli arresti domiciliari.
Aveva perso la speranza di farli ragionare: si sarebbe limitata ad aspettare che i Razziatori arrivassero in uno dei sistemi abitati della galassia.

Inizialmente aveva esposto le sue ragioni con tutta la sicurezza e la fermezza che l’avevano sempre contraddistinta, poi aveva provato a ricorrere alla pazienza rassegnata di un maestro che deve insegnare una lezione difficile ad alunni non particolarmente svegli, ma il risultato ottenuto era stato sempre lo stesso: i Razziatori non erano una minaccia, forse neppure esistevano al di fuori della sua testa.
Avrebbe ricordato per sempre le frasi ottuse del consigliere turian sulla Cittadella - Questa teoria dei Razziatori dimostra quanto fragile sia il suo stato mentale. Lei è stata manipolata… Da Cerberus e, prima ancora, da Saren… I Razziatori sono soltanto un mito… Un mito che lei insiste a perpetuare.
Quelle frasi erano state pronunciate tanto tempo prima, eppure continuavano a rimanere attuali: la sola differenza consisteva nel fatto che non era più il Consigliere turian a pronunciarle, ma un gruppo di umani che credevano di conoscere la realtà anche se trascorrevano la loro stupida vita stando seduti dietro uno stupido tavolo, a discutere stupidamente di cose che non avevano mai visto né sentito.
Le decisioni che prendevano una volta concluse quelle discussioni si basavano soprattutto sui loro desideri. Non volevano vedere la realtà e si illudevano che negare qualcosa equivalesse ad annullarne il pericolo associato.

“Sono una visionaria o una pazza, sono mentalmente instabile. Ripetono tutti queste stesse parole, al punto che non saprei più distinguere i volti di tutte queste persone. Ricordo solo la loro espressione, uguale per tutti: ottusa e ostinata. Non mi credono perché hanno paura di credermi e sperano che il loro ostinato rifiuto sia sufficiente a tenere lontani i Razziatori” si ripeté ancora una volta accorgendosi rabbiosamente che i pensieri stavano prendendo la solita piega malinconica, inevitabile ogni volta che era costretta a meditare sul presente.
“Non so neppure dove sia il mio equipaggio. Mi mancano tutti, ma sopra tutti mi manca Garrus: l’unico che sarebbe riuscito a farmi ritrovare la forza e la serenità anche in giornate come queste. Devi solo aspettare, comandante, alla fine saranno costretti a capire mi avrebbe sussurrato facendo scorrere le lunghe dita nei miei capelli…”.

Le avevano tolto ogni possibilità di comunicare con il mondo esterno. Nessuno, neppure i suoi superiori, aveva la possibilità di scambiare due parole con lei. Non poteva ricevere nemmeno notizie dal mondo esterno, se non quelle trasmesse dagli usuali mezzi di informazione. Le sue giornate erano piene di nulla.
Fin dal primo giorno la regola principale, mai violata, era stata questa: isolamento assoluto da tutti gli amici e i conoscenti.
Si appoggiò allo schienale con un sospiro, mentre il tenente continuava a guidare il veicolo senza provare a distrarla dai suoi pensieri.

Ricordò la prima notte passata in quell’appartamento che le era del tutto estraneo: il letto era troppo morbido e il cuscino troppo spesso. Dopo quello sguardo al di là della finestra sbarrata si era resa conto immediatamente che non sarebbe riuscita ad addormentarsi.
Aveva disdegnato la televisione, la radio e lo stereo e, per far passare il tempo in attesa che il sonno la vincesse, si era messa invece a sistemare le poche cose che si era portata dalla Normandy. Innanzitutto aveva studiato dove mettere la fotografia di Garrus, in modo da vederla chiaramente dal letto. Poi aveva messo nel bagno tutto il necessario per la toletta e aveva cominciato a sistemare i vestiti nell’armadio.
Sul fondo della borsa, avvoltolato in mezzo alle sue uniformi, aveva trovato un modellino della SR2, un po’ più piccolo di quello che aveva nella vetrina della nave, e un datapad.
Mentre con la mano destra sistemava il modellino sul comodino a fianco del letto, aveva letto il breve messaggio sul datapad che teneva nella sinistra.

Ti ho dovuto lasciar andar via a combattere da sola questa battaglia e, come al solito, non ho avuto il mio ultimo bacio e neppure l’ultimo abbraccio: Trinity, sei un vero disastro nei saluti...
Non guardare con rimpianto il modellino che ti ho messo in borsa. E’ il simbolo di una promessa, perché torneremo a bordo della tua nave e tutto tornerà come ai vecchi tempi.
Nei momenti difficili che affronterai da sola, ricorda che basterà mettere un piede davanti all’altro, con costanza, per arrivare a quel giorno.
Ti volevo lasciare anche il fazzoletto, ma poi ho cambiato idea... non voglio pensare che tu debba usarlo. Non quando non posso esserti vicino.
A presto,
Garrus

“Già” ridacchiò “il fazzoletto”. La prima volta in cui lui le aveva offerto orgogliosamente quel piccolo pezzo di stoffa lei aveva il viso completamente zuppo, solo che si era trattato di lacrime di allegria.
- Il fazzoletto va bene anche per lacrime come queste? - le aveva chiesto in tono incerto, anche se si vedeva quanto fosse soddisfatto nel poterglielo porgere, a riprova del fatto che si era ricordato la frase che lei aveva pronunciato per gioco, alla fine di una crisi di pianto Hai un fazzoletto? a cui lui aveva replicato Forse... se sapessi cos’è...

Lei lo aveva preso, si era asciugata gli occhi e poi se lo era infilato in una delle tasche dell’uniforme, ringraziandolo. Ricordava benissimo l’espressione delusa di Garrus che, dopo un momento di esitazione, le aveva chiesto - Non potresti ridarmelo?
Shepard si era stupita, ma lo aveva ritirato fuori dalla tasca, lanciandogli un’occhiata interrogativa.
- Uhm... è che i turian non li usano e non è mica facile trovarne qui a bordo. Avevo provato a fartene uno con un mio lenzuolo ma... beh, mi sono accorto che era molto più complicato del previsto - aveva cercato di spiegarle - si sfilacciava tutto lungo i bordi... io non so mica cucire.
- Oh beh, neppure io... - aveva risposto Shepard ridendo e guardando meglio il fazzoletto che teneva ancora fra le mani.
Le iniziali J. M. le avevano fatto capire da dove provenisse e lei aveva ripreso a ridere ancora più forte mentre gli chiedeva ulteriori dettagli - Dimmi come sei riuscito a fartelo dare.
- Intanto gli ho dovuto chiedere cosa fosse un fazzoletto e già questo è stato complicato, perché io ricordavo la parola fozzoletto... - aveva cominciato a spiegare Garrus con aria imbarazzata - Puoi immaginare quanto mi abbia preso per il culo il tuo caro pilota che se appena trova un appiglio che gli consenta di fare lo spiritoso ne approfitta in modo indegno...
- Poi, quando me lo ha mostrato, mi è sembrato un semplice quadrato di tessuto e sono andato a tagliuzzare uno dei miei lenzuoli nuovi con l’esito che puoi immaginarti.
- Alla fine sono dovuto tornare umilmente da Joker, a chiedergli se me lo prestava.
- E lui? - aveva chiesto Shepard che se la stava spassando un mondo nell’ascoltare questo bizzarro racconto.
- Mi ha chiesto se fossi raffreddato...
- E cosa gli hai risposto? - gli chiese incuriosita, sicura di non averlo mai visto con il raffreddore.
- Ti diverti, eh? - le aveva domandato il turian a quel punto, lanciandole un’occhiata di traverso. Poi però le aveva spiegato - non sapevo cosa volesse dire essere raffreddato, comunque ho risposto di sì.
- Con tutta la fatica che hai fatto, immagino sia giusto che lo tenga tu - aveva concluso Shepard restituendoglielo con un sorriso divertito - così potrai darmelo quando ne avrò bisogno.

Adesso le mancavano perfino le occasioni in cui Garrus era stato costretto ad allungarle quel fazzoletto. Le sue giornate si trascinavano tutte nello stesso modo. Appena alzata faceva una doccia e poi la colazione. Quando non la portavano davanti a qualche burocrate che le poneva domande senza capire le risposte, si metteva a leggere un libro, ascoltando la musica. Poi faceva un po’ di esercizi ginnici per tenersi in forma e spesso esercitava anche i suoi poteri biotici, spostando oggetti in giro per la stanza, a volte senza farli cadere, a volte scagliandoli violentemente contro una parete, a seconda dell’umore.
Aveva anche affinato una nuova tecnica di combattimento che sembrava promettente in mischia, ma doveva verificarne il funzionamento in un vero scontro, indossando i migliori potenziamenti biotici. Aveva scoperto quella nuova combinazione ‘carica - esplosione biotica’ una sera in cui era tornata particolarmente stressata da un lungo e inutile colloquio con un pseudo scienziato che credeva di sapere tutto sui Collettori.
Appena varcata la soglia si era catapultata verso la fine del lungo corridoio e aveva esploso tutta la sua rabbia, mandando a sbattere sul soffitto una pianta innocente. Grazie alla collera che la animava era riuscita a ricaricare gli scudi in pochi secondi e aveva provato un’altra combo, questa volta verso la porta di ingresso, così che i danni erano stati inflitti al solo appendiabiti. A quel punto aveva dovuto interrompere la performance perché i due soldati di turno erano entrati nell’appartamento, preoccupati per il rumore.
Con un po’ di allenamento e i giusti potenziamenti biotici quella tattica di combattimento poteva risultare un’arma micidiale, almeno contro nemici di stazza moderata.

Dopo il primo mese di reclusione in quel dannato appartamento aveva anche chiesto di poter andare a un poligono di tiro: in genere la portavano in una saletta isolata in una struttura che si trovava a pochi chilometri dall’appartamento al ritorno dalle udienze, tanto che in quelle occasioni si sentiva come una bambina a cui venisse concessa un po’ di libertà come premio per aver fatto bene i compiti.
Nell’ultimo mese le avevano portato un congegno in cui erano memorizzati molti olofilm e aveva passato interi pomeriggi a guardare pellicole che spesso la annoiavano. E nell’ultima settimana le avevano portato dei giochi di pazienza, vari modellini da costruire e diversi giochi (fra cui gli scacchi).
Shepard era certa che buona parte di quel materiale le fosse stato inviato da un qualche membro del suo equipaggio, probabilmente da Liara e da Kelly, ma avrebbe preferito poter usufruire di una telefonata piuttosto che ricevere quei regali. Invece il suo isolamento non veniva allentato e ormai era veramente satura di tutta quella storia.
Niente la attirava veramente e alla fine aveva deciso che i momenti migliori della sua giornata erano proprio quelli che pensava avrebbe detestato di più: combattere contro i burocrati era pur sempre una specie di battaglia ed era l’unica occasione in cui si sentiva viva e vigile.

Smise di crogiolarsi nell’autocommiserazione e di pensare al passato. Si guardò intorno per qualche secondo alzando il busto dallo schienale, ma poi tornò a rilassarsi perché erano ancora lontani dalla destinazione usuale. Riprese a pensare, ma questa volta rivolgendo l’attenzione al futuro.
“Quanto tempo mancherà ancora? Non molto: i Razziatori non possono essere ancora tanto lontani. E non so neppure immaginare l’entità della minaccia che dovremo fronteggiare a breve” si ripeté per la centesima volta, senza prestare molta attenzione al mondo che la circondava.
Registrò distrattamente le informazioni che gli occhi le trasmettevano: era una bella giornata, limpida e tersa, il sole splendeva in un cielo quasi privo di nuvole, tranne quelle lontane all’orizzonte, e il traffico intenso scorreva ordinatamente sull’arteria principale che stavano percorrendo, come durante un qualsiasi altro giorno lavorativo.

Si riscosse improvvisamente quando si accorse che la strada che stavano percorrendo era diversa da quella solita.
- Ma dove stiamo andando?
- Al Quartier Generale del Comitato di Difesa dell’Alleanza – fu la risposta di James.
- Oh, non avevo capito.
- Credo di non avertelo detto, mi spiace.
- Non fa nulla - rispose Shepard, appoggiandosi nuovamente allo schienale del sedile del passeggero, sicura che questa novità non avesse molta importanza.

Però si riscosse nuovamente ed emise un grido pochi minuti dopo questa breve conversazione: nel raggio visivo dei suoi occhi era apparsa la sagoma inconfondibile della sua nave.
- Aspetti tenente! Quella è la Normandy! - gridò aprendo il finestrino e tirando fuori la testa.
Il soldato le gettò un’occhiata che esprimeva nello stesso tempo un improvviso sbalordimento e molta compassione.
- Por l'amor de dios! Chiudi il finestrino e sta silenciosa. Cercherò di avvicinarmi alla nave, ma non farti notare o finiremo entrambi in un mare di guai.
- Sì, per favore... Portami lì - rispose ansiosamente Shepard rimettendosi seduta composta e chiudendo rapidamente il vetro dal suo lato.

Rimase immobile a fissare la sua nave, così vicina e totalmente irraggiungibile, mentre delle lacrime impotenti e rabbiose le scendevano lungo il viso.
- Joker - sussurrò con gioia, vedendo un umano in uniforme zoppicare faticosamente lungo la banchina.
- E’ il mio pilota, quello - disse orgogliosamente al tenente che aveva fermato il veicolo, indicando con l’indice la figura sulla banchina di attracco - E' il miglior dannato pilota di tutta la galassia.
- Mi spiace, comandante. Ora dobbiamo andare - le rispose il soldato.
Shepard annuì in silenzio e rimase con gli occhi fissi sulla Normandy fino a quando scomparve dal suo campo visivo, dopo che il veicolo ebbe terminato una lunga curva.
“Me l’hanno tolta, ma è attraccata qui, a Vancouver. E Joker e IDA la cureranno come farei io stessa” si disse, provando un po’ di gioia dopo tanti mesi di tristezza continua.

L’avviso inatteso - Comandante, siamo arrivati - interruppe i suoi pensieri. Era tempo di scendere dal veicolo ed entrare nell’imponente edificio, sede del Comitato di Difesa dell’Alleanza. Guardò al di là dell’ampia vetrata all’ingresso e improvvisamente si sentì un po’ più serena e fiduciosa.
Il tenente la accompagnò all’ascensore e poi la fece accomodare in un ufficio anonimo, lasciandola sola e chiudendo la porta alle sue spalle, dopo averle chiesto gentilmente se desiderasse qualcosa per colazione.
Lei andò alla finestra per controllare se lo spazioporto fosse visibile da lì, ma vedeva solo strade, auto varie e grandi edifici. Rimase in piedi a guardare un bambino con una felpa che correva proprio sotto il palazzo in cui si trovava. Aveva un modellino di nave spaziale stretta nella mano destra e correva tenendola in alto, per farla volare nel cielo.

Pochi secondi dopo il tenente torno ad affacciarsi alla porta della stanza.
- Comandante - la salutò rispettosamente, portandosi la mano alla fronte, e lei rispose con rassegnazione - Non dovresti chiamarmi così, James.
- Non dovrei neanche rivolgerti il saluto - precisò lui, aggiungendo subito dopo - Dobbiamo andare, il Comitato di Difesa vuole vederti.
- Sembra importante - commentò Shepard, gettando sul tavolo il datapad che aveva tenuto fra le mani fino a quel momento e a cui aveva rivolto solo delle occhiate distratte.
- Che succede? - chiese seguendo prontamente il soldato che si era avviato nel corridoio a passo veloce.
- Non saprei - rispose James Vega, senza fermarsi - Mi hanno solo detto che hanno bisogno di te. Subito.
Pochi passi più avanti Shepard rallentò improvvisamente, piacevolmente sorpresa nel vedere un viso amico: l’ammiraglio Anderson si stava dirigendo verso di lei a passi rapidi.

Shepard non sapeva ancora che i Razziatori avevano già cominciato ad attaccare alcuni insediamenti terrestri poco distanti e che il Comitato l’aveva convocata frettolosamente proprio per questo motivo, né poteva immaginare che da lì a pochi minuti le forze aliene avrebbero attaccato la Terra stessa, svelando finalmente a tutte le persone incredule l’enorme potenza distruttiva delle armi di cui disponevano e la gelida indifferenza con cui massacravano ogni forma di vita che si trovavano davanti.

Fra pochi istanti lei e Anderson avrebbero combattuto fianco a fianco per la loro stessa sopravvivenza, poi la Normandy sarebbe miracolosamente apparsa nel cielo per raccoglierla e portarla lontano dalla Terra, ad organizzare e coordinare l’ultima possibile resistenza di tutte le razze intelligenti della galassia contro le forze schiaccianti dei Razziatori.



*****
Note
Un grazie di cuore a Uptrand che mi ha segnalato un vistoso errore in questo capitolo. Ho corretto la stesura originaria alla luce delle sue osservazioni.

Welcome back, Commander Trinity Shepard.
  
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