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Autore: Mary P_Stark    05/05/2013    5 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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N.d.A.: La verità viene a galla, e il nemico comincia a prendere forma. Tante domande, finalmente, avranno risposta. Buona lettura! :)


15.

 
 
 


 

Sedevo scompostamente sul sedile posteriore della Mercedes di Lance, lo sguardo vacuo puntato fuori dal finestrino e le mani rilasciate in mezzo alle gambe.
Non un fiato proveniva dai miei due compagni di viaggio mentre la radio, a basso volume, trasmetteva ininterrottamente vecchia musica anni ‘60.
Elspeth era quasi uscita di senno, quando aveva scorto la pesante fasciatura che Lance aveva dovuto applicarmi al collo.
Balbettando frasi incoerenti, si era rifugiata nell’abbraccio consolatorio di Becca.
La Prima Lupa di Glasgow le aveva spiegato, per sommi capi, ciò che era successo e perché apparissi pallida e sconvolta, al pari di Jerome.
Fred si era offerto di accompagnarla a casa verso sera, e solo dopo che Elspeth aveva ritenuto evitato un mio eventuale suicidio, causato dal dolore provato per la morte di Leon.
Salita in macchina con l’imponente licantropo, si era allontanata da me che, con il cuore a pezzi, l'avevo osservata finché l’auto non era scomparsa, nascosta dai profili seghettati delle case all’orizzonte.
Più ancora delle ferite che, pulsando e bruciando, mi rammentavano ciò a cui avevo costretto Jerome a causa del mio cedimento, era statoo affranto di Elspeth alla nostra separazione, a rendere tragici quei momenti.
Elspeth non meritava di affogare in quel caos primordiale, non aveva le armi necessarie per sopravvivere a noi creature della luna.
A cosa avevo condannato una delle mie più vecchie amiche?
Stringendo le mani a pugno quando, per l’ennesima volta, quel pensiero andò a rimbalzare violento contro le pareti del mio cranio, sibilai tra i denti un’imprecazione prima di strizzare a forza gli occhi, quasi volendo impedire alla realtà dei fatti di penetrare dentro di me.
“Brianna, calmati” sussurrò Lance, spezzando il silenzio dei miei accompagnatori.
Con un sospiro e un mormorio di scuse, esalai: “Pensavo ad Elspeth e a ciò che le ho fatto.”
“Se ben ricordo, ci hai detto che è stata lei a chiedere di poter ricordare. E tre giorni fa, quando avrebbe potuto tirarsi indietro e domandarti requie dai tristi pensieri che la arrovellavano, non l’ha fatto” precisò Lance, tenendo lo sguardo fisso sulla strada e le mani salde sul volante.
“Sì, ma…” tentennai, sospirando pesantemente.
“Ha compiuto la sua scelta, principessa,…” mi sorrise appena Lance, attraverso lo specchietto retrovisore. “… ed è una ragazza abbastanza caparbia e forte da non soccombere di fronte al risvolto della medaglia.”
“Ma io dovevo difenderla da questo orrore” sussurrai, sollevando le mani a schiacciare i pugni contro la mia fronte.
“E dove sta scritto? Tu sei custode della tua coscienza, Brie. Puoi guidare il tuo branco, ma non sei responsabile delle scelte personali dei tuoi lupi. Inoltre, Elspeth è la Völva del clan di Fred, non nostra, perciò è libera di scegliere indipendentemente dalle tue decisioni” precisò Lance, pacato.
“Ma è soprattutto mia amica!” protestai debolmente.
“Non più. Ora ha le sue responsabilità e, prima di ogni altra cosa, vengono quelle. E’ questo che ha scelto per se stessa."
Sorpassò un'auto decisamente lenta, prima di proseguire. "Avrebbe potuto rifiutare il suo dono e il suo ruolo all’interno del branco ma ha deciso di accogliere entrambi nel suo animo e, da quel momento, non è più stata solo e semplicemente Elspeth. E’ diventata un’entità parte del tutto che è il branco, non più un individuo a se stante. Esattamente come lo sei tu per noi”
Il suo tono fu così neutro, tranquillo e definitivo che non trovai neppure la forza di replicare.
Non era una sua opinione, ma un dato di fatto. Dovevo solo accettarlo.
Reclinando il capo, sussurrai: “Perciò, non dovrei sentirmi in colpa perché ha visto morire Leon davanti ai suoi occhi?”
“La colpa è dell’uomo che l’ha ucciso, non tua, né di nessun altro. Ed è lo stesso motivo per cui tu non devi sentirti in colpa per la morte di Leon. Nessuno avrebbe potuto prevedere ciò che è successo al tuo amico, come nessuno lo ha obbligato a seguirci. Si è padroni solo delle proprie scelte, non di quelle degli altri. Prima lo accetterai, prima ritroverai te stessa” mi disse lui, con voce ora leggermente tremante.
Un sorriso, mesto, e aggiunse: “Spero tu possa ritrovare la serenità quanto prima, principessa.”
“Quanto lo vorrei anch’io, Lance” sussurrai, tornando a chiudere gli occhi per isolarmi dal mondo che mi circondava.
“Se tu non recuperi te stessa, non potrò farlo neppure io, principessa” sussurrò Jerome, con voce a stento controllata.
“Non sentirti in colpa per ciò a cui io ti ho obbligato. Hai fatto la cosa migliore. Senza di te, non avrei mai ritrovato la calma”replicai, cercando di mettere, in quelle parole, tutto l’affetto che sentivo per lui.
“Ti ho squarciato la gola, principessa! Pensi non lo ricordi?! Se tu non puoi trovare il perdono per te stessa per una cosa su cui non hai avuto alcun peso, io come posso trovarla per una cosa che, invece, ho fatto in prima persona?!”
Ammutolii, di fronte alle sue parole straziate dall’orrore che provava nei confronti di se stesso e, non potendo fare altro per consolarlo, mi allungai verso di lui dal sedile posteriore e gli carezzai una guancia, estendendo la mia aura per abbracciarlo e consolarlo.
Nuovamente, come era successo tra le braccia di Fred, Jerome pianse in silenzio, trasparenti perle salate che scivolarono lungo le sue gote ricoperte di leggera barba scura.
Lance non ci disse nulla, limitandosi a spegnere la radio e accelerare il passo, forse desideroso tutti noi raggiungessimo casa per poterci meglio prendere cura di noi stessi.
Dubitavo, in ogni caso, che riprenderci dalle nostre relative orribili esperienze potesse avvenire in breve tempo.
La morte di Freki, l’anno passato, mi aveva scioccato perché ne ero stata la causa ma, a conti fatti, ero stata costretta dalla necessità di sopravvivere a compiere la malaugurata scelta di salvare la mia vita e quella di Duncan a scapito di quella di un’altra creatura vivente.
Qui, era molto peggio. Pur non avendo tirato io il grilletto, mi sentivo responsabile della fine di Leon perché un mio nemico aveva falciato la sua giovane vita.
E questo non avrebbe potuto cancellarlo nessuno, dalla mia mente.
Speravo solo che, la presenza di Duncan e del branco, potesse alleviare le nostre rispettive pene o, quanto meno, permetterci di sopravvivere ad esse.

***

L’imbrunire tinse di viola, lillà e amaranto il cielo agostano di quel giorno tanto triste.
Scendendo dall’auto senza particolare fretta, mi ritrovai stritolata dall’abbraccio caloroso di Duncan che, affondando il viso tra i miei capelli sciolti sulle spalle, sussurrò affranto: “Dio, Brie, quanto mi dispiace!”
Quel ‘mi dispiace’ mi fece crollare di colpo, costringendomi a buttar fuori tutte le lacrime che avevo trattenuto per tutta la durata del viaggio e, addossandomi completamente a lui, piansi in silenzio, imbrattandogli la camicia e il cuore.
Non seppi mai quanto tempo restammo nel cortile, lui e io un’unica entità dispersa nel vuoto oscuro del mio dolore.
Quando, finalmente, non ebbi più lacrime da versare, la luna era già alta nel cielo sgombro di nubi, e sembrava volesse darmi il suo silenzioso appoggio in quel momento di crisi.
Scostandomi con gli occhi pesti e una gran voglia di nascondermi, seguii Duncan in casa al pari di Jerome e Lance.
All’interno, trovammo ad attenderci in salotto sia Mary B che Gordon, entrambi già a conoscenza della morte di Leon e del nostro ferimento.
Non dissero nulla, limitandosi ad abbracciarmi e promettermi il loro sostegno, quando e se lo avessi voluto dopodiché, abbandonando la casa, ci lasciarono soli.
Il profumo dello stufato di carne galleggiava nell’aria, assieme a quello fresco dei pavimenti puliti e di lenzuola nuove stese sui letti.
Sentendomi male al solo pensiero, ma desiderosa di apparire il più tranquilla possibile, celiai: “Ti sei dato ai lavori di casa, in mia assenza, o hai assoldato  una domestica?”
Duncan mi sorrise angosciato, accomodandosi sul divano per poi trascinarmi con sé, sulle sue ginocchia.
In silenzio, cominciò a massaggiarmi la schiena in lenti, continui cerchi concentrici che, poco alla volta, rilassarono i miei muscoli tesi, permettendomi di poggiare il capo sulla sua spalla e respirare più agevolmente.
Jerome, in piedi sull’entrata del salotto, non aveva ancora avuto il coraggio di guardare Duncan in viso e Lance, non meno a disagio di lui, se ne stava a metà tra noi e Sköll, indeciso su cosa dire, o fare.
Fu Duncan a spezzare quel silenzio imbarazzato, allungando una mano verso il cugino prima di sussurrare: “Mio Sköll, vieni da me, te ne prego.”
Sobbalzando leggermente al suo tono di voce, che si spezzò nel momento di pregare Jerome di avvicinarsi, il giovane licantropo annuì rigidamente una volta prima di inginocchiarsi dinanzi a Duncan e ansare straziato: “Non … non sapevo cosa fare, Duncan. Perdonami, se le ho fatto del male. Non avrei mai voluto, ma…”
Interrompendo le sue scuse con una carezza sui folti capelli, Duncan lo fece sollevare quel tanto che bastò per farlo accomodare sul divano, accanto a noi.
Baciando il cugino alla base dell’orecchio, sussurrò grato: “Tu l’hai salvata nell’unico modo possibile, mio Sköll, Jerome… cugino mio. Non hai di che scusarti.”
“Ma Duncan…” gracchiò lui, non del tutto convinto del suo dire.
Fu il mio turno di rincuorarlo e, scostandomi dalla spalla di Duncan, poggiai le mani tremanti sul volto di Jerome, lo volsi verso di me prima di sfiorare le sue labbra con un bacio.
“Grazie per ciò che hai fatto, mio Sköll. Mi hai salvata dalla follia, quando io non ero in grado di trovare da sola la strada del ritorno.”
“Principessa!” ansò lui, allargando un braccio per avvolgermi e stringermi a sé.
Duncan ci strinse entrambi contro il suo petto e, nel guardare Lance con occhi colmi di affetto profondo, mormorò grato: “Siete stati i migliori difensori, per la mia compagna. Nessun ringraziamento sarà mai sufficiente, nessuna ricompensa sarà mai abbastanza.”
Sorridendogli, Lance si accomodò sulla poltrona dinanzi a noi e, scuotendo il capo, replicò: “Lei è viva ed è con noi. La nostra ricompensa è questa. Nessuna vita è tra noi, Fenrir, poiché la salvezza della nostra Signora sta a cuore a noi tutti.”
Reclinando il capo per ossequiarlo, Duncan asserì sommessamente: “Accetto le tue parole, Hati, ma mi riterrò in debito con voi finché lo riterrò necessario.”
“Sei Fenrir. Sia come vuoi” disse allora Lance, annuendo.
Jerome si scostò da noi e, riprendendo un minimo di controllo, si passò una mano sugli occhi prima di accomodarsi sull’unica poltrona libera.
Ridacchiando imbarazzato, esalò: “Mi sembra di essere tornato in terza elementare.”
Duncan gli sorrise benevolo, dicendo per contro: “Eri molto peggio, in terza elementare.”
Sorrisi appena, a quell’accenno, e gli chiesi: “Perché dici così?”
“Te lo racconterò solo se mi prometti che non ti vedrò più piangere… e non mi obbligherai mai più a fare quel che ho fatto” mi propose Jerome, fissandomi con i suoi occhi di cielo colmi di paure.
Mi sistemai meglio sulle ginocchia di Duncan e, annuendo grave, gli promisi: “Giuro sulla Madre che non sarai più obbligato a compiere una scelta del genere. Non voglio mai più costringerti a subire una simile pena.”
A quel punto, Jerome riuscì a racimolare un po’ forza per sorridermi e, intrecciando le mani in grembo, celiò: “Allora posso umiliarmi e raccontarti tutto.”

***

Il coltello e la foto del mio aggressore, erano in mano agli uomini di Bright ormai da giorni.
Forse, avremmo potuto dare un nome all’assassino di Leon e ottenere giusta vendetta ma, per il momento, nulla si sapeva su di lui, o da quale buco infernale fosse saltato fuori.
Erano già passati quattro giorni, dal nostro breve viaggio ad Aberdeen, in cui avevamo incontrato Estelle e l’avevamo pregata di consegnare il tutto a un assente Bright – impegnato fuori città per una disputa tra lupi.
Lei ci aveva salutati con baci e abbracci carichi di una comprensione e un amore indicibili e, pur se lontana, ancora ne sentivo il profumo e l’aura rassicuranti.
Ciò nonostante, i giorni passati tra le pareti amene di casa, e vicino a persone a me care, non era bastato ad alleviare il dolore per la scomparsa di Leon.
Ero ridotta uno straccio, e non sapevo come fare per uscirne.
Non ero più legata a Leon dall’amore adolescenziale che mi aveva colpita quasi tre anni prima, quando avevamo deciso di metterci insieme.
Però, dentro di me, avevo racchiuso ricordi piacevoli di lui e del nostro rapporto.
Vederli scomparire di colpo, soppiantati dai fotogrammi mostruosi che mi avevano ridotta a quel modo, era straziante.
Sentivo ancora dolore, dove il proiettile mi aveva ferita e nei punti in cui Jerome mi aveva morsa.
Più ancora, però, percepivo un’agonia tremenda tutte le volte che tentavo di ricordare Leon prima che, quel maledetto proiettile, gli perforasse il cervello senza alcuna pietà.
Le passeggiate al parco venivano subito spazzate via da un secco crack, lo schianto delle ossa di Leon perforate dal proiettile che aveva poi squarciato le sue carni.
I dolci baci all’ombra di un vecchio noce, che cresceva nel suo giardino, non riuscivano neppure a farmi sorridere, tanto l’odore del suo sangue innocente era forte e persistente in me.
Mi sembrava di assistere alla battaglia tra Davide e Golia, ...peccato che Davide stesse perdendo il derby, questa volta.
Il fatto di non aver neppure potuto partecipare al suo funerale, mi rendeva ancor più difficile convivere con quei ricordi.
Avevo accettato passivamente le domande della polizia prima di sentirmi dire che, con tutta probabilità, non sarebbero mai riusciti a trovare il suo assassino, a causa della totale mancanza di indizi a suo carico.
L’unico che avevamo era in possesso dei licantropi, e non potevamo fornirlo per ovvi motivi.
Oltre a ciò, per poter almeno dire addio per sempre a Leon, mi ero dovuta nascondere dietro a una delle enormi e vecchie cappelle del cimitero, che si trovava su una delle colline che sovrastavano Glasgow.
Avevo osservato in silenzio la processione di parenti e amici che, composti, avevano accompagnato Leon nel suo ultimo viaggio.
Di comune accordo, avevamo preferito non far sapere alla famiglia di Leon della mia presenza a Glasgow, visto che diversi amici dei Marquez, purtroppo per noi e all’insaputa della stessa famiglia, erano Cacciatori.
Fred ne aveva riconosciuti un paio e, con fermezza, mi aveva obbligata a restare al riparo della cappella più vicina alla tomba di famiglia dei Marquez, impedendomi così di rendere nota la mia presenza in città e scatenare perciò la curiosità dei nostri nemici giurati.
Il fatto che la polizia avesse accettato di tenere segrete le nostre identità – con la scusa di non volere giornalisti alla porta – ci aveva aiutato a non creare ulteriore scompiglio nella comunità dei licantropi.
Il particolare del proiettile in argento era stato a sua volta omesso, grazie al detective che seguiva il caso (e che era, tra l'altro, una delle sentinelle di Fred).
Non avevo potuto far altro che osservare la bara di Leon scomparire all’interno di una costruzione in marmo, sormontata da quattro piccoli angeli dalle ali raccolte.
La pioggia era caduta per tutta la notte, a seguito del suo funerale, ma io ero voluta rimanere lì ugualmente a pregare per lui, sostenuta dalla presenza silenziosa di Jerome e Lance.
Eravamo tornati a casa di Fred solo la mattina seguente.
Passandomi una mano sulla fronte per scacciare una ciocca ribelle di capelli, cercai di allontanare quei ricordi e la sensazione di gelo profondo che avevo provato quella notte.
Con un movimento strascicato quanto indolente, mi sdraiai sul divano del salotto.
Non avevo la voglia, né la forza, di fare alcunché.
Quando sentii la porta di casa aprirsi e richiudersi, non feci neppure l’atto di spostarmi.
Sapevo chi era giunto nel tentativo di salvarmi dalla caduta nell’oblio, e loro non avevano bisogno di vedermi caracollare fino all’entrata.
Come una carezza di velluto, avvertii il potere di Erika e il profumo di sandalo di Gordon.
Esitanti, si affacciarono in salotto, le facce smorte e l’aria di chi non sapeva cosa dire.
Volgendo appena il capo sul cuscino del divano, li fissai senza dire nulla, un velo di capelli a coprirmi parzialmente il volto.
Fu solo per mera forza di volontà che mi sollevai e, con una fluidità di movimenti pari a quella di un bradipo, mi misi seduta.
Sospirando stancamente, a causa della mancanza di sonno, esordii chiedendo loro: “Avete perso una scommessa, per essere qui?”
Erika ammiccò al mio indirizzo prima di sentir dire a Gordon: “Adesso devo pure scommettere, per venire a trovare mia sorella? D’accordo che sei la gran sacerdotessa e la regina di questo ammasso di palle di pelo, ma non pensi di esagerare con il divismo?”
Il suo tono scanzonato, e l’occhiata bonaria che lanciò a Erika quando ci definì ‘ammasso di palle di pelo’, fece sorgere un sorriso spontaneo sul mio viso.
Accigliandomi con ironia, celiai: “Vacci piano a offendere, cucciolo senza pelo, o potrei usarti da scendi letto.”
Lui si limitò a ghignare, dicendo per contro: “Non ne valgo la pena. Non sono per niente morbido.”
“Condivido appieno” annuì Erika, sorridendo maliziosa.
Sollevai curiosa un sopracciglio, scrutando mio fratello ma lui, da bravo allievo della scuola ‘Maschere di Pietra Duncan McKalister’, non lasciò scaturire nulla dal suo viso ermetico.
Si limitò a fissarmi con i chiari occhi grigio perla, imperturbabile.
Ridacchiai stancamente, asserendo: “D’accordo, sei più bravo di me a fare la faccia da poker.”
“Questo è sicuro, sorella. Tu sei e sarai sempre una schiappa, in questo gioco” chiosò prima di avvicinarsi a me e, a sorpresa, abbracciarmi. “E infatti, non posso sopportare di vederti con questi occhi così divorati dal dolore.”
Mi strinsi a lui reprimendo un singhiozzo e, attirandolo a me perché si sedesse sul divano, lasciai che mi tenesse avvolta nel suo caldo abbraccio umano.
Era del tutto privo di potere mistico, ma colmo di un amore che, in quel momento, valeva più di tutta l’energia del branco.
Erika ci guardò, sorridendo triste, e si accomodò sul mio lato libero per abbracciarmi a sua volta.
“Abbiamo fatto una scommessa, è vero, ma solo perché tutti volevano venire qui a confortarti, e sapevamo che troppe persone ti avrebbero sconvolta più del dovuto.”
“Forse no” sussurrai, lasciando che mi tenessero stretta a loro.
Avevo un bisogno tremendo di sentire calore attorno a me, perché io lo stavo perdendo a ogni respiro che compivo.
Era come essere immersi in un lago ghiacciato.
Ogni volta che inalavo ossigeno per sopravvivere, il gelo che sentivo nel mio animo si portava via una piccola parte di me, e solo il loro calore poteva impedirmi di soccombere.
Duncan era dovuto partire per un impegno gravoso che solo un Fenrir poteva risolvere, e io avevo dovuto mostrarmi stoica e far finta che tutto andasse bene.
Il nostro Legame di Sangue mi aveva impedito di essere del tutto ermetica con lui, ma Duncan era partito comunque, pur se di malavoglia.
Immaginavo comunque che sapesse che, ciò che gli avevo detto, non corrispondeva del tutto a verità.
In ogni caso, non potevo scaricare tutto il mio dolore su di lui.
Non sarebbe stato giusto pretendere che assorbisse tutto lo strazio e l’amarezza che provavo, e solo per evitare che io soffrissi.
Il fatto rimaneva. Leon era morto e io ne ero la causa, seppur in maniera indiretta.
Tutto il calore e l’amore del mondo non avrebbero mai potuto cancellare questo fatto; potevano solo mantenermi in vita, niente di più.
Restare sola era comunque impensabile, perciò non rifiutai quel che Erika e Gordon erano venuti a donarmi con tanta generosità d’animo.
Restai aggrappata a loro, piangendo in silenzio e chiedendomi cosa dovessi, o potessi, fare per migliorare lo stato delle cose, ma non mi venne in mente nulla di buono.
Anche Jasmine, con i suoi miagolii e i suoi ron-ron, venne a unirsi all’abbraccio, per una volta ignorando del tutto la presenza di Erika.
Con un mezzo sorriso, la guardò divertita prima di chiosare: “Deve amarti davvero molto se passa sopra al fatto che ci sia io accanto a te.”
“Già” ammiccai, allungando una mano per accarezzare il pelo sericeo e folto della gatta.
Gordon celiò divertito: “Sembriamo proprio un bel gruppo di piagnoni, ammettiamolo.”
“Chi può negarlo?” ammisi, appoggiandomi alla spalla di Gordon prima di mormorare: “Sii gentile con Erika, mi raccomando. Non voglio che si venga a lamentare con me circa le tue maniere.”
“Non corri questo pericolo, sorella” bofonchiò Gordon, dandomi un fuggevole bacio sulla fronte.
Sapevo quanto gli costava comportarsi in maniera così affettuosa. Non lo era mai stato. Nessuno dei due.
Era la mia condizione di licantropo ad avermi resa più desiderosa di un contatto fisico e lui, da bravo fratello quale sapeva essere - quando si impegnava - si era piegato alla realtà dei fatti, tirando fuori quel lato gentile di sé che, di solito, non esternava mai.
Non sapevo se con Erika si comportasse alla stessa maniera, o se tendesse a rimanere schivo come sempre, ma lei mi sembrava felice, perciò non volli indagare.
Non erano affari miei, in fin dei conti.
Con un sospiro e un sorriso mi scostai infine da loro, quando le lacrime ebbero smesso di scorrere a fiumi sul mio viso.
Gordon, asciugandomi gli occhi con un fazzoletto, mi chiese: “Va un po’ meglio, ora?”
Annuii, non sentendomi ancora pronta per mettere a parole ciò che sentivo.
Erika, stringendomi alle spalle e baciandomi sotto l’orecchio, mi confidò: “Tutto il branco è con te, Prima Lupa, ricordalo. Una tua parola, e ci avrai qui al tuo fianco a condividere il dolore assieme a te.”
“Lo so. Ma ora sarei troppo morbosa, e finireste con il desiderare di farmi la pelle. Meglio aspettare qualche giorno” ironizzai, abbozzando una risatina mentre mi alzavo dal divano.
Rimanere inerte sarebbe servito a poco e, se volevo evitare di ferire altre persone, dovevo scrollarmi di dosso l’apatia e fare qualcosa, qualsiasi cosa per trovare una soluzione al mio disagio interiore.
Anche se la voglia che avevo di lasciare le pareti domestiche, era pari a zero.
Erika e Gordon mi fissarono dubbiosi e io, scrollando le spalle, spiegai loro: “Ho bisogno di andare al Vigrond per un po’. Parlare con la quercia mi farà bene, ne sono sicura.”
“Sei certa di voler andare da sola? Io potrei seguirti. Altrimenti, chiamerò Branson. In due minuti sarà qui” brontolò Erika, un po’ turbata.
Evidentemente, l’idea di lasciarmi senza protezione alcuna la metteva in ansia.
Sorrisi, scuotendo il capo, e replicai: “Branson è al lavoro, adesso. Non puoi chiedergli di lasciare la cucina del ristorante solo per venire a fare da balia a me.”
Sbuffando, Erika replicò: “Sei la nostra Prima Lupa. Dobbiamo pensare al tuo benessere.”
“E io sono felice che tu tenga così tanto a me, ma non avere timore. Chi vuoi che mi faccia del male, nel nostro luogo di potere?” sorrisi bonariamente, scrollando le spalle.
Il mio nemico avrebbe dovuto essere letteralmente un folle, per pensare di entrare nel Vigrond senza un invito. Nessun licantropo avrebbe potuto.
Lo squillo del telefono ci fece sobbalzare tutti – smentendo di fatto la mia apparente tranquillità.
Ridacchiando di fronte a tanto nervosismo, mi allungai per prendere il cordless dal tavolino del salotto e dissi: “Pronto, casa McKalister. Chi parla?”
Uno, due secondi e poi: “Sono Alec.”
Se mi fosse apparso il fantasma di Freddie Mercury davanti al naso, non sarei stata ugualmente sorpresa.
Me ne stetti impalata in mezzo al salotto, la cornetta in mano e l’aria da ebete stampata in faccia.
Alec, dall’altra parte del telefono, continuò seccato: “Ehi, sei ancora lì?!”
“Eh? Oh. Sì! Sì. Dimmi” riuscii a dire, dopo quel momento di confusione totale.
Con voce resa roca da qualcosa di simile all’imbarazzo e alla rabbia, gli sentii bofonchiare: “Senti, ho ricevuto l’e-mail di Bright sul tizio che ti ha aggredita.”
“Ebbene?” chiesi subito.
Cosa sapeva? Non poteva essere lui il mandante, o non mi avrebbe mai telefonato per dirmelo. Neppure Alec era così stupido!
Ancora un attimo di indecisione, poi ammise: “Beh, so chi è.”
“COSA?!” strillai, facendo sobbalzare sul divano sia Erika che Gordon, che mi fissarono con occhi allucinati.
“Ehi, non ti ho detto di mandarmi all’ospedale con un timpano perforato. Per tutti i demoni dell’inferno, ragazza, hai una voce che ammazza!” brontolò Alec, sinceramente infastidito dal mio urlo.
In effetti potevo capirlo, visto il nostro udito sensibilissimo.
Mi scusai succintamente, prima di ansare: “Avanti, dimmi cosa sai.”
“Era il fratello del mio precedente Freki. Penso te lo ricorderai” mi spiegò succintamente, facendomi raggelare il sangue.
Occhi rossi, uno sguardo libidinoso su un volto lupesco. Oh, eccome se me lo ricordavo.
Non avevo più incubi da tempo, su di lui, ma il sapore della sua morte potevo ancora sentirlo sulla lingua, quando andavo a caccia con Duncan o con gli altri membri del branco.
Era stato l’unico licantropo che io avessi mai ucciso, e mi sarei ricordata per sempre di lui.
“Credo volesse vendicarsi di te, o solo la Madre sa cos’altro” continuò col dire, con un tono secco e infastidito.
“Già, forse” annuii, prima di notare di un particolare e bofonchiare: “Aspetta un secondo. Hai detto ‘era’. L’hai fatto uccidere per ciò che ha tentato di farmi?”
Se l’avesse fatto giustiziare, non avrei potuto ritenermi soddisfatta. Lui, lo avrei ucciso volentieri di persona.
“No, il punto è questo. Lo abbiamo trovato stamattina. Morto stecchito” mi spiegò, la voce ora percorsa dal dubbio.
“Non penserai che uno di noi abbia infranto il patto, venendo nel tuo territorio senza permesso, perché…” cominciai col dire, subito sulla difensiva.
“Cielo, ragazza, ma sei peggio di una mitragliatrice! Cuciti il becco per cinque secondi e fammi finire di parlare!” mi urlò contro Alec, azzittendomi. “Non so davvero come Duncan ce la faccia a sopportarti. Si vede che sei una maga a letto, chissà.”
Erika sgranò gli occhi, scioccata – dopotutto, lei poteva sentire la telefonata più che chiaramente – ed emise un basso ringhio di gola.
Dal canto mio, impallidii visibilmente prima di avvampare in viso e, scocciata, esclamare: “Le mie prestazioni sessuali non sono argomento di discussione, Alec! Dimmi quello che vuoi dire, e non pigliarmi per il culo!”
Gordon fece tanto d’occhi a quell’accenno, mentre il ringhio di Erika si espanse per la stanza come il brontolio di una pentola a pressione.
Ben sapendo quanto Alec non stesse simpatico praticamente a nessuno, lei compresa, non mi stupii della sua reazione.
Una risatina, dopodiché celiò: “Come siamo suscettibili! Allora è vero. Sei brava a letto, eh? Beh, vedrò di scoprirlo. Mi incuriosisce, questa cosa. Con un legame d’anima e uno di sangue, quanto potrete percepire, l’uno dell’altra?”
Avvertii quasi invidia, nella sua voce, e fu solo quello a bloccarmi dall’ingiuriarlo come avrebbe meritato.
Possibile che anche in Alec ci fosse un cuore? Non l’avrei mai detto.
Cercando di mantenere la calma, sibilai rigida: “Vogliamo andare avanti, per favore?”
Lui sbuffò, spiegandomi con dovizia di particolari ciò che sapeva.
“Aveva la gola tagliata in profondità, ma non abbiamo percepito puzza d’argento sulla ferita, né tanto meno di lupo, quindi non ho idea di come abbia potuto morire annegato nel proprio sangue.”
La cosa mi spiazzò. Quale poteva essere l’arma non argentata in grado di uccidere un licantropo?
E chi poteva aver avuto tutto il tempo di ammazzarne uno, vista la forza che possedeva un lupo mannaro?
La sola idea che esistesse qualcos’altro, o qualcun altro - a parte i Cacciatori - in grado di ucciderci, mi fece accapponare la pelle.
“Immagino che la cosa non faccia piacere a te, come a me” borbottò Alec, forse immaginando i miei pensieri. “E ora che Fitzroy è morto, non possiamo neppure sapere i motivi reali che l’hanno spinto a muoversi contro di te.”
“Si chiamava così?” chiesi con voce atona.
“Sì. Aveva cinque anni in meno, rispetto a suo fratello; un ragazzino. E una testa calda, con poco rispetto per le regole e per i suoi alfa, ma pensavo di averlo rimesso in riga a suo tempo. Di solito, non dovrebbero mai esserci rappresaglie di questo genere. E’ contro la legge. Tu hai ucciso Freki regolarmente” mormorò Alec, come se la sola idea che uno dei suoi lupi avesse violato il codice, fosse un peso immane da sopportare.
“Ti senti in colpa? E’ questo che stai cercando di non dirmi?” esalai, spalancando gli occhi per la sorpresa.
Un grugnito e un sì. Furono le uniche cose che ottenni.
Ma, ehi, mica si può pretendere la luna, no?
“C’è dell’altro, comunque” aggiunse, ombroso.
Avevo avuto qualche dubbio?
Dentro di me, per un paio di secondi, avevo sperato nel contrario.
Pur non provando alcuna soddisfazione nel saperlo morto – visto che non avevo potuto vendicare Leon di persona – mi ero sentita bene al pensiero di non averlo più alle calcagna.
Ma poi era sopravvenuta la ragione, e l’istinto. Un lupo non si fida delle apparenze, mai.
E neppure io mi fidavo di coloro che avevano ucciso a quel modo Fitzroy, specialmente considerando come lo avevano ammazzato.
Che diavolo avevano usato? E perché lo avevano fatto fuori?
“Ne avevo il sentore. Dimmi tutto” dichiarai, preparata – speravo – a qualsiasi cosa.
“Poco dopo aver trovato Fitzroy, Beverly è venuta da me per dirmi di aver visto un’ombra su di te. Un’ombra così oscura da far raggelare anche il più coraggioso tra i guerrieri” nel dirlo, la sua voce divenne quasi metallica.
La bestia, evidentemente, era d’accordo con la sua parte umana nell’emettere quelle atroci, quanto spettrali, parole.
Rabbrividii, nonostante mi fossi ripromessa di non farlo, mentre Erika mi osservava al colmo del panico e Gordon ci scrutava entrambe, preda della frustrazione più nera.
Con mano leggermente tremante, scostai il telefono dall’orecchio e, con voce non proprio controllata, borbottai: “Sei sul vivavoce, Alec.”
“Chi hai lì con te?” mi chiese a quel punto.
“La cugina di Duncan e mio fratello” spiegai succintamente.
“Ah, bene, una lupacchiotta alle prime armi e un senza pelo. Ottimo” brontolò l’uomo, sarcastico.
Mi astenni dal fare commenti, nonostante le facce accigliate dei due presi in causa.
“Fuori, a un centinaio di iarde da qui, c’è Anthony. Dovresti conoscerlo, no?”
“Lui, almeno, sa come si combatte” convenne Alec, prima di aggiungere: “Il problema è uno e uno solo, ragazza. Chi ha ucciso Fitzroy non è né un licantropo, né un umano. Quindi, mi chiedo cosa sia. L’odore che abbiamo percepito sul suo corpo non appartiene a niente che io, o gli altri, abbiamo mai incontrato sulle nostre strade. E se l’ombra che ha visto Beverly appartiene a quest’essere, nessuna precauzione sarà abbastanza, per mantenerti viva.”
“Vede… la morte?” chiesi con un gracidio, mordendomi istintivamente un labbro mentre le mani, tremanti, mostravano chiaramente la mia ansia.
“Ha visto dolore, sangue e morte. Ma non sa di chi. Sa solo che tu eri in questa visione, e urlavi. Fitzroy era con te, morto ai tuoi piedi, e gli occhi erano rivolti all’ombra che ti minacciava” aggiunse Alec, prima di imprecare vistosamente.
Non mi avrai mai! I tuoi sogni di distruzione e morte non si concretizzeranno!
Quella frase mi rimbalzò nella testa come una pallina da ping-pong, sparata a tutta velocità da una parte all’altra del campo immaginario che era il mio cervello.
Sobbalzando leggermente, esalai a stento: “Mi vogliono morta.”
“E’ una probabilità che non escluderei. Come non escluderei che Fitzroy fosse in combutta con quest’ombra che vuole eliminarti o, comunque, farti del male. Il ragazzo era troppo ingenuo, per pensare anche soltanto di poter avvicinare una Prima Lupa e ucciderla. Devono averlo aizzato a farlo, spiegandogli come fare” ipotizzò Alec, la voce roca e piena di un’ansia quasi palpabile.
“Posso capire Fitzroy, ma chi può essere l’ombra?” riuscii a dire a voce alta, pur tremando.
Gordon, senza dire nulla, si alzò dal divano per avvicinarsi a me.
Sedendosi sul bracciolo della poltrona dov’ero seduta, mi avvolse le spalle con un braccio e chiese ad Alec: “La tua Völva non ha visto altro? Un particolare di qualche tipo che ci possa far capire chi vuole fare del male a mia sorella?”
“Il giovane Smithson…” disse Alec, con un accenno di ironia nella voce “… le visioni non sono come spot pubblicitari. Sono flash di immagini, di suoni. Niente di chiaro o concreto che possa essere studiato alla moviola.”
Gordon arricciò il naso, forse infastidito dal tono da sapientone di Alec ma io, stringendogli una mano sulla gamba per chetarlo sul nascere, intervenni e dissi: “Ringrazia Beverly da parte mia. Il suo apporto è importante, per me. Non sapendo contro cosa stiamo tutt’ora difendendoci, ogni piccolo indizio è un passo in più verso il raggiungimento della risposta.”
“Glielo riferirò” brontolò burbero Alec. “Duncan non c’è? Ho bisogno di parlargli.”
“Non è a casa. E’ dovuto andare fuori città per dirimere una disputa tra giovani alfa. Come se non avessimo già abbastanza problemi” sbuffai.
Dopo un attimo, mi imposi di aggiungere: “Lo trovi sul cellulare, se è urgente. Vuoi il numero?”
“No, grazie, ce l’ho. Piuttosto, tu. Che contromisure avete adottato per la tua difesa?” mi chiese con il suo classico tono scontroso e secco.
Ah, questo era l’Alec che conoscevo!
“Beh, a turno, ho almeno un membro del branco nei pressi dell’abitazione, ventiquattrore su ventiquattro  e, quando Geri o Freki sono liberi dal lavoro, stazionano qui in casa, vista l’assenza di Duncan e Lance, che è con lui. Ci siamo regolati così fin da quando sono tornata da Glasgow. Sai che è successo?” gli chiesi, provando il consueto brivido.
Gordon rafforzò la stretta e io gli sorrisi. Erika, dal divano, ci scrutava rassicurante.
Avrei davvero voluto non vederli così in ansia per me, ma come pretenderlo?
Con un basso ringhio di gola, Alec ringhiò: “Sì, ho sentito dell’omicidio di quel ragazzo, e suppongo che l’uomo e la donna feriti siate tu e Lance. Lo conoscevi? Il tizio che hanno ammazzato, intendo.”
Cercai di non prendermela per quella domanda così insensibile – da Alec, non potevo aspettarmi la delicatezza dei miei lupi o dei miei amici – e ammisi: “Sì, era un mio amico. Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era lì per aiutarci a trovare il coltello che volevamo usare per smascherare il mio aggressore. A questo punto, oserei dire che il cecchino fosse proprio Fitzroy, anche se non posso esserne sicura. So solo che, da dove è partito il colpo, c’era odore di lupo.”
“Possiamo darlo praticamente per scontato” sbuffò contrariato Alec. “E dire che la prima regola di un mannaro è quella di essere invisibile, per gli umani. E lui va a usare un’arma caricata ad argento in mezzo a una città popolosa come Glasgow! Neppure un Cacciatore sarebbe stato così idiota!”
Condividevo appieno la sua rabbia, e non solo perché Fitzroy, con il suo folle gesto, aveva ucciso Leon, ma perché aveva messo in pericolo l’intera comunità di licantropi di Glasgow, con quel colpo di fucile.
Avevo cancellato le tracce del mio passato per evitare che la cricca di Patrick potesse darmi la caccia, forte di notizie che non dovevano possedere in alcun modo.
Quel colpo esploso in maniera così imprudente, però, mi aveva reso impossibile star vicina a Leon nel momento dell’addio definitivo.
Con un solo colpo, aveva rischiato di mettere anche loro sulle mie tracce, e io non desideravo anche le loro premurose attenzioni, visto quello che già stavo patendo.
La minaccia scorta da Beverly bastava e avanzava.
“Il perimetro del clan è sorvegliato?” mi chiese ancora, sempre più scontroso. E nuovamente preoccupato.
Se neppure Alec riusciva a mascherare l’ansia e la paura, cosa avrei potuto fare, io?
Perché Duncan non era con me?
Sospirai, afflitta, dandomi dell’idiota per quello che avevo appena pensato e, cercando di trovare il coraggio di parlare, dissi faticosamente: “Abbiamo aumentato la sorveglianza. Ci sono dodici sentinelle solo nella contea di Matlock.”
“Spero bastino, visto che non sappiamo chi ti sta braccando” brontolò Alec.
Portandomi una mano alla nuca, mormorai rauca: “Esistono altre creature mistiche, oltre a noi?”
“Le uniche di cui io sia a conoscenza sono i satiri, ma si sono estinti secoli fa. Non erano guerrieri, ma semplici creature boschive, dedite al divertimento e alla musica. Di certo, non girerebbero armati ad ammazzare gente” ringhiò Alec, apparentemente frustrato come me.
“Allora, cosa diavolo c’è, in giro?” esalai spazientita.
“Tu sei wicca. Sai se i tuoi poteri possono essere rubati?” mi chiese allora Alec.
“No, fanno parte di me come il cuore o una mano. Smetterebbero di esistere nel momento stesso in cui io morissi. Inoltre, non possono essere estrapolati dal mio cervello” gli spiegai automaticamente, ben conscia di quello che, nei secoli, molti alchimisti senza scrupoli avevano tentato di fare alle wiccan.
“Chi ti cerca, quindi, non vuole i tuoi poteri e, dando per scontato che fosse in combutta con Fitzroy, non vuole neppure sporcarsi le mani in prima persona” riassunse Alec prima di aggiungere con aspra ironia: “Ma a chi hai pestato i piedi, ragazza, per cacciarti in un casino simile?”
“A saperlo” sospirai, scuotendo il capo per la frustrazione.
Gordon fece scivolare una mano sui miei capelli per carezzarli dolcemente ed Erika, abbandonando il divano, si venne ad accoccolare ai miei piedi.
Poggiò il capo sulle mie ginocchia e, leggera, la sua mano mi carezzò un polpaccio.
Chiusi gli occhi per alcuni attimi, assaporando sulla lingua il loro calore e il loro affetto, così importanti, vitali per me. Neppure tutta la loro energia, però, bastò a scacciare il gelo che sentivo sfiorarmi la pelle come la carezza di una piuma insanguinata.
Percepii la pressione del nervosismo e della nullità delle mie azioni premermi contro le pareti del cervello ed, esasperata, dichiarai: “Alec, devo andare. Voglio consultarmi con la quercia e chiederle se esistono creature diverse da noi, nella sua memoria collettiva.”
Dopo un secondo, convenne con la mia decisione.
“E’ una buona idea, ragazza. La vostra quercia è abbastanza vecchia per poter contenere qualche indizio utile. Ma fatti accompagnare!”
“Pensi davvero che potrebbero avvicinarsi al Vigrond? E’ protetto dalla magia della quercia” replicai, vagamente dubbiosa.
“Non sapendo contro chi stai combattendo, io starei un po’ meno tranquilla, circa i poteri della quercia” precisò Alec, con il suo solito tono di voce irritante.
“Ci penserò. Comunque, grazie per le informazioni che mi hai dato” mormorai, scrollando le spalle nel tentativo di rilassare i muscoli irrigiditi. “Hai la mia benedizione, Fenrir.”
Dopo qualche secondo di silenzio imbarazzato, sentii il mormorio sorpreso di Alec giungermi all’orecchio.
“E io la accetto con onore, wicca.
Detto ciò, chiuse la comunicazione.
Mentre spegnevo il telefono, il viso ancora aggrottato, Erika sollevò il capo dalle mie ginocchia e mi fissò sconcertata, esclamando: “Perché hai concesso la tua benedizione a uno come lui? Sei impazzita?!”
Gordon ci fissò a momenti alterni con aria stranita e io, sorridendo, gli spiegai: “Devi sapere, Gordon, che la benedizione di una wicca non si da così a cuore leggero, e chi la riceve non ha in mano solo vuote parole, ma molto di più.”
Sbuffando, Erika intrecciò le braccia al petto e continuò per me.
“Già. Praticamente, gli ha offerto bandiera bianca. Ha messo Duncan nella condizione di non poter prendere a calci nel culo Alec, senza prima offendere lei.”
Nel dirlo, mi fissò malissimo.
Gordon ridacchiò, dandomi una stretta consolatoria prima di lasciarmi andare e, guardando con aria saputa Erika, celiò: “Ma non l’hai ancora capito che mia sorella è masochista?”
“Comincio a pensarlo” brontolò Erika, scuotendo il capo per l'esasperazione.
Sospirai nel rigirarmi i pollici e, nel tentare di calmarla, le spiegai i motivi che mi avevano spinta a concedergli la mia benedizione.
“Non devi vederla a questo modo, Erika. Alec non aveva nulla da guadagnarci a dirmi ciò che è successo al suo lupo, o a riferirmi le parole di Beverly.”
“Se non farti credere che lui è innocente!” protesto vibratamente lei.
Le sorrisi, comprendendo quanto il suo nervosismo fosse sintomo della sua preoccupazione nei miei confronti.
Allungando una mano per afferrare una delle sue, gliela strinsi e dissi per contro: “Dimentichi che le wiccan posso percepire le menzogne.”
“Anche al telefono?” esalò a quel punto, più che mai sorpresa.
“Io sì. Non so Kate, perché onestamente non gliel’ho mai chiesto. Ma io e Duncan abbiamo fatto delle prove, un po’ di mesi fa, e posso percepire chiaramente la menzogna, quando mi capita davanti” ammisi, sperando di averla chetata almeno in parte.
Gordon si piegò in avanti, poggiando gli avambracci sulle cosce e mi guardò attentamente.
“Quindi, puoi andare al Vigrond e leggere i ricordi della quercia come se fosse un’enciclopedia multimediale, dico bene?”
Annuii e lui, proseguendo, mi domandò ancora: “Funziona come un computer? Tu domandi e lei risponde?”
“Non è detto. A volte risponde in prima persona, a volte mi mostra delle immagini” scrollai le spalle, non sapendo che altro dire. “La quercia ha un modo tutto suo di aiutarmi e, in alcune occasioni, si è dimostrata davvero criptica.”
“Ottimo. Un’enciclopedia pensante. Sono le peggiori” borbottò schifato Gordon, facendomi ridere.
Alzandomi, baciai Erika sulla fronte e, rivolta a mio fratello, dissi: “Glielo riferirò, Gordon.”
“Grazie” bofonchiò.
La faccenda della quercia pensante lo aveva sempre lasciato piuttosto perplesso, e non avevo mai capito perché.
Ritenevo che, già trovarsi in mezzo a un branco di lupi mannari, fosse strano ma a lui, quel particolare, non aveva mai creato problemi. La quercia, sì.
Ognuno di noi ha il proprio limite di sopportazione; probabilmente, il suo era questo.
“Proverò a chiedere alla quercia quello che voglio sapere, e vedremo che mi dice” sentenziai, alzandomi in piedi, l’ansia e il dolore relegati momentaneamente in un angolo del mio cuore.
Ora dovevo solo pensare a trovare delle risposte e, se possibile, scoprire se coloro che avevano ucciso Fitzroy fossero potenziali nemici o, se l’ombra vista da Beverly, fosse un avversario del tutto diverso da loro.
Erika balzò subito in piedi a sua volta, bloccandomi per un braccio, facendomi notare un particolare non da poco.  
“Alec aveva ragione su una cosa. Io e Gordon non possiamo farti da spalla, ma Anthony sì. Fatti accompagnare, ti prego.”
Gordon la imitò, e mi fissò con occhi al limite della preoccupazione.
Davvero difficile che mi guardasse a quel modo, e il fatto che lo stesse facendo proprio in quel momento, mi fece crollare.
Annuendo, inviai un messaggio mentale ad Anthony perché mi raggiungesse a casa e, dopo aver atteso un minuto, lo sentimmo entrare con passo affrettato, l’aura distesa attorno a sé come un radar alla ricerca di nemici.
Lo accolsi con un sorriso e un abbraccio, dicendogli: “Penso dovrai accompagnarmi al Vigrond.”
“Ovunque tu voglia, Prima Lupa” replicò con un sorriso ossequioso.
Gordon fece l’atto di rimettere e, con ironia, celiò: “Dio, come li detesto quando ti trattano come una regina. Non te lo meriti proprio.”
Ridacchiai divertita, mentre Anthony guardava storto mio fratello.
La sua comicità aspra e, spesse volte, molto irriverente, era stata uno scoglio duro da far accettare ai miei fidati lupi.
Non avevano preso bene, nei primi tempi, le battutacce di spirito che lui soleva indirizzarmi.
Era occorsa tutta la buona volontà mia e di Duncan, per far accettare loro il fatto che qualcuno – soprattutto mio fratello – si potesse permettere di prendermi in giro.
I lupi sono molto radicati nelle loro idee, e il rispetto delle gerarchie è forse la cosa a cui tengono di più.
Ora si limitavano a storcere il naso o, nei casi peggiori, a rispondere alle battute, ma sapevo che Anthony era uno dei lupi più pazienti del branco, perciò non dovevo temere una battaglia verbale, o peggio.
Si limitò ad avvicinarsi con fare molto protettivo e, con un cenno grazioso del capo, asserì: “Andiamo pure, Prima Lupa. Penserò io a proteggerti.”
“Sì, ecco, andate, che è meglio” celiò ironico Gordon, prima di tornare serio e aggiungere: “Ma guai a te se ti spezzi anche solo un’unghia.”
“Farò attenzione, Capitano” gli promisi con un sorriso, allontanandomi da loro per uscire di casa assieme al mio lupo.
“Non l’ho mai visto così nervoso. E’ una cosa insolita” mi fece notare Anthony, una volta raggiunto il cortile.
“Gordon fa tanto il gradasso ma, quando mi caccio in qualche guaio, è più protettivo di una chioccia. E dire che è il mio fratellino minore” convenni, sorridendogli a mezzo.
“E’ giusto così. E’ suo compito proteggerti” annuì con compiacimento Anthony.
Ridacchiai – alcuni lupi avevano ancora la fissa antidiluviana di dover pensare alla salvaguardia delle proprie compagne, anche a costo della vita.
Spesso e volentieri, non ricordando che le lupe in questione sapevano difendersi benissimo da sole.
Mi limitai perciò a borbottare: “Coraggio, corriamo un po’. Ho bisogno di sgranchirmi le gambe. Sono troppi giorni che me ne sto distesa a piangere. E’ ora che combini qualcosa per vendicare il mio amico.”
“Come chiedi” annuì, attendendo di raggiungere il limitare del bosco.
Volesse il cielo che Christine non ci vedesse mai compiere qualcosa di strano, e proprio mentre lei era nei paraggi, perché davvero non avrei saputo come spiegarglielo.
Non mi andava di manipolare il suo cervello, ed era l’ultima cosa che volevo fare.
Attendemmo quindi che le ombre del bosco ci avvolgessero nel loro morbido abbraccio dopodiché, aumentando gradatamente l’andatura, volteggiammo sul sottobosco come due uccelli predatori.
Scivolammo tra le piante e i cespugli, senza quasi rendere nota la nostra presenza agli abitanti del bosco.
Sentirmi schiaffeggiare il viso dal vento era sempre un’esperienza esaltante e, per qualche secondo, le endorfine prodotte dalla corsa mi aiutarono a distogliere la mia mente da tutti i problemi che mi stavano arrovellando il cervello.
Era difficile accettare tutto ciò che stava succedendo, non di meno non potevo mentire a me stessa.
Leon era morto, il suo assassino anche e, con tutta probabilità, nemici ancora più pericolosi di un fratello irritato e vendicativo mi stavano cercando.
Per uccidermi o altro, non potevo dirlo, e forse appartenevano a una razza che neppure conoscevamo.
Cosa, o chi, avevo scatenato? E perché?
Gli spezzoni di frasi che, ogni tanto, e sempre per troppo poco tempo, correvano come schegge impazzite nella mia testa, non mi avevano aiutato a farmi un quadro d’insieme.
Avevano solo contribuito ad accrescere la mia frustrazione.
Detestavo i ricordi a pezzettini.
Procedendo a velocità sostenuta come stavamo facendo, non ci occorse molto tempo per raggiungere il Vigrond.
Con un sorriso e un sospiro di sollievo, mi lasciai invadere dal coro di voci, suoni e sussurri che appartenevano a quel luogo così mistico e ricco di magia.
Anthony ristette al limitare della radura, come era d’obbligo quando una wicca operava con le potenze del Vigrond.
Sedutami dinanzi alla quercia, affondai le mani tra il fogliame secco, i fili d’erba e il terriccio smosso dall’azione di qualche scoiattolo in cerca di ghiande.
“Il mio ringraziamento a te, o Sacra Fonte, per tutto ciò che mi offri e per la serenità che porti al mio cuore.”
La tua mente e la tua anima sono turbate. In cosa posso esserti utile, Figlia della Luna, Sacerdotessa  della Madre, Signora dei Lupi?
“Un pericolo incombe su di me, ma non viene né dai figli della Madre legati alla luna, né dagli esseri umani, temo. Puoi dirmi se esistono altre razze senzienti, oltre a quelle che ti ho citato?” chiesi sommessamente, chiudendo gli occhi per immergermi nella memoria a breve termine della quercia.
Vidi solo una rappresentazione spettrale e silenziosa della foresta che mi circondava.
Come se fossi nella pagina iniziale di Google, e dovessi inserire nella barra di ricerca il sito di mio interesse.
So dell’esistenza di creature legate alla Madre, ma che non sono Figli della Luna, e neppure esseri umani. Essi sono pervasi dallo spirito della guerra, e hanno sembianze di orso, quando sono spinti a lottare e distruggere.
“Sembianze… di orso?” esalai sorpresa.
Orsi mannari, dunque? Possibile fossero loro a darmi la caccia? E perché, poi?
Temo che la loro sia una vendetta personale, Figlia della Luna, e mi rammarico di non avertene parlato prima, ma non pensavo davvero che qualcuno avrebbe sguinzagliato i berserkir contro di te.
“Berserkir? E che diavolo sono?” sbottai confusa, prima di rammentare i fumetti di mio fratello.
Oh, ottimo. Se erano le stesse creature che avevo in mente io, erano dei pazzi invasati con la mania della guerra e del sangue.
Percepii l’ansia di Anthony al suono ancestrale di quel nome, mentre il mio corpo formicolava come se fossi stata percorsa da una scossa a basso voltaggio. Che mi stava succedendo?
Flash di immagini baluginarono nella mia mente e la quercia, con voce rammaricata, mi mise a conoscenza di un segreto, rimasto fino a quel momento sopito nei suoi ricordi… e nei miei.
E’ giusto che tu sappia a chi appartenne l’anima che ha dato il soffio della vita al tuo corpo, poiché la sua rinascita è forse strettamente collegata a ciò che ora sta avvenendo.
“Che intendi dire?” esalai preoccupata, reagendo ai flash nella mia testa con brevi movimenti del capo a destra e a sinistra, come se mi stessero sottoponendo all’elettroshock.
La tua anima immortale apparteneva a Fenrir, il capostipite della vostra razza, figlio del dio immortale Loki, e perciò gemma di stirpe divina. Per questo, i tuoi poteri di wicca sono unici, per questo il tuo corpo di lupo è uguale a quello degli altri Fenrir, per questo temo tu sia in pericolo.
Fenrir. La mia anima era appartenuta a Fenrir! E, peggio ancora, la parte del mito riguardante Loki era dunque vera! Fenrir era figlio di un dio!
Sgranai gli occhi, turbata e annichilita assieme da quella notizia sconcertante e, balbettando a fatica, gracchiai: “Dunque… Duncan e…”
Coloro che fanno parte della tua Triade di Potere sono i possessori delle anime che, un tempo, furono di Avya, Hati e Sköll, Figlia della Luna. Fenrir chiese loro un’alleanza in questa vita e loro accettarono, ma non mi è dato sapere cosa lo spinse a decidere di rinascere visto che, fino a quel momento, la tua anima era rimasta sopita, per sua stessa scelta, nel ventre della Madre.
“Oh, mio Dio” sussurrai, socchiudendo gli occhi e portandomi una mano alla gola come se stessi soffocando.
E forse era davvero così.
Avevo mentito a Duncan. Non era vero che il destino non ci aveva uniti assieme. E io che mi ero illusa fino a quel momento!
Non pensarlo un solo secondo della tua vita, Figlia della Luna!
La voce stentorea della quercia rimbombò tra le pareti della mia testa come il suono di un gong e io, sobbalzando, esclamai piccata: “Perché dovrei crederti?!”
Perché non è così che funziona. Le anime non forgiano il carattere. Le anime danno la vita, ma non decidono come camminerai su questa terra. Avresti potuto innamorarti di Jerome, o di Lance, o di nessuno di loro. Non a questo serve il vostro legame. È un legame che ha lo scopo di rafforzare i tuoi poteri, e loro hanno acconsentito a essere con te come compagni in questa vita, null’altro. Tu e Duncan vi siete innamorati perché vi siete piaciuti vicendevolmente, ma le vostre anime non c’entrano nulla con ciò che provate.
“Sei sicura?” sospirai a quel punto, non ancora del tutto certa di poter ricominciare a respirare agevolmente.
Non mi è dato di mentire, Figlia della Luna.
“Capisco, però,…” cominciai col dire, prima di percepire il grido d’allarme nella mente di Anthony.
Un attimo dopo, avvertii a mia volta un odore insolito e che non avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo sacro, interdetto a chiunque non avesse il permesso di entravi.
Lasciando a un secondo momento la mia discussione con la quercia, mi alzai in piedi mentre Anthony mi raggiungeva. Afferratolo ad un braccio, gli chiesi turbata: “Senti quello che sento io?”
“Sì. Puzza di guai.”
Non avrei saputo esprimermi meglio.

  
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