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Autore: La neve di aprile    07/05/2013    2 recensioni
Chiudere gli occhi non significava trovare la pace di un buio forzato, ma rivivere con metodica, precisa sofferenza ogni singolo istante che avevano condiviso assieme. I sorrisi separati solo da una scrivania e la brutta copia di un bancone, la consistenza ruvida delle sue carezze nell'incavo del collo, il rumore dei suoi respiri mentre dormiva, la gentilezza con cui le aveva scostato i capelli fradici di pioggia la fatidica sera in cui aveva attraversato ogni confine e infranto ogni regola per avventurarsi sull'insidiosissimo terreno di una felicità precaria al punto da implodere in se stessa, lasciandosi alle spalle un cimitero di speranze e possibilità infrante.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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II

 
Erano le cinque del pomeriggio e il sole già stava tramontando.
Oltre lo spiraglio socchiuso del grande lucernario riusciva a intravedere il cielo, i filamenti di nubi trascinate dal vento sullo sfondo azzurrissimo del pomeriggio inoltrato, e i disegni caotici degli stormi di rondini agitati dall'incombere dell'autunno. Gli ultimi strascichi d'estate erano affogati negli acquazzoni che per due giorni avevano sciolto in fanghiglia le speranze dei più tenaci, scacciando il velo dell'afa tardiva della città che, assieme al sole, aveva accolto i primi refoli di un vento freddo e trasparente come vetro e i colori sgargianti di un incendio di foglie accesosi sugli alberi.
Nonostante l'umido della piscina dietro le porte chiuse che davano sul ballatoio, Viola riusciva già a sentire il pizzicore fresco dell'aria frizzante al di fuori mentre rinnovava l'abbonamento ad una signora dagli occhi gentili poco prima dell'inizio della lezione successiva.
« Senza convenzioni sono cinquantadue euro » le ricordò, alzando lo sguardo dallo schermo del computer mentre la stampante iniziava a ronzare, risucchiando nei suoi meccanismi due fogli. Ne porse uno alla signora, prendendo in cambio il tesserino e cancellando con un pallino nero il quadratino nero dove in obliquo stava scritto “ottobre”.
« A posto, fatto tutto. » sorrise nel restituirglielo e mentre la donna la ringraziava e si avviava verso lo spogliatoio alla sua destra gettò un'occhiata rapida al cellulare che aveva trillato, annunciando un nuovo messaggio. Lo raccolse, trascinando l'indice sullo schermo e aprendo la piccola busta dove Lucrezia aveva chiesto a che ora sarebbe dovuta passare a prenderla.
Ti scrivo quando arriva Sara, poi tu conta almeno mezz'ora.” digitò rapida, mentre una testa mora entrava nel suo campo visivo: Lara, l'istruttrice di spinning, le fece ciao con la mano.
« Ma tu non avevi una festa di compleanno, oggi? » le chiese, gli occhi chiari vagamente perplessi. Piccolina, trentacinque anni al massimo, era un grumo unico di muscoli e energia, impazienza e sorrisi miti.
« Si, ma devo aspettare che arrivi Sara per mollare la scrivania! »
« Ahhhhh, capisco! In ritardo? »
« Secondo te...? »
L'istruttrice rise, raccogliendo i capelli neri in una coda e scoprendo il collo dove un piccolo tatuaggio faceva capolino giusto dietro l'orecchia destra.
« Chi ho 'sta sera? » cambiò discorso, senza commentare, incrociando le braccia sul bancone.
« Mh, i soliti penso.. » fece Viola, vaga, allungandosi verso il quaderno ad anelli delle prenotazioni dove, tra tutti nomi ordinatamente segnati, uno in particolare le strappò un sospiro silenzioso.
Venerdì era arrivato prima di quanto immaginasse, il finale tanto atteso di una settimana dove il culmine d'emozione c'era stato il mercoledì sera quando il temporale l'aveva sorpresa lungo la via di casa e l'aveva inzuppata fino al midollo. Il solo pensiero di intravederlo, di incrociarlo per il tempo di un saluto mentre correva – in ritardo, già poteva immaginarlo – a cambiarsi promettendole di mostrarle il tesserino a fine lezione era una prospettiva che dava all'intera giornata una luce migliore. Si chiese se il vento gli avrebbe arrossato il volto, se l'avrebbe riconosciuta o se l'avrebbe scambiata per la sua collega come era accaduto due settimane prima.
« Guarda, l'unica aggiunta è uno dei nuovi dei lunedì » disse a Lara, alzando gli occhi dalle pagine sporche di scarabocchi ai margini « Tale Enrico. »
« Ahhhh, vero! Mi aveva scritto che sarebbe venuto, ma pensavo avesse sbagliato giorno come suo solito. »
« Perché, è uno che sbaglia giorno? » rise Viola, fingendo un disinteresse che non le apparteneva. L'idea di mettere assieme piccoli pezzetti di lui, componendo i contorni di una persona di cui non conosceva altro che il nome e qualche dato anagrafico, era un gioco troppo invitante per non partecipare, per non lasciarsi coinvolgere. A impedirglielo però fu Sara, la coetanea con cui divideva i turni e la scrivania, che tutta trafelata salutò entrambe lanciando la borsa a terra.
« Scusa, scusa, scusa, ti giuro che sono uscita di casa in tempo, ma è successo un casino che non puoi capire. » tentò di giustificarsi senza respirare tra una parola e l'altra. Il viso arrossato e gli occhi lucidi, bui di un nero fitto, suggerivano una corsa recente, l'affanno di qualcuno poco abituato agli scatti improvvisi. Si premette una mano sul petto, mentre con l'altra tirava giù la zip della giacca di pelle.
« Respira Sara, ti prego! » la pregò ridendo, infilando in una busta di plastica le ricevute stampate e i contanti incassati « Tanto c'è poca gente ancora, e quelli dello spinning te li becchi tutti tu! » le fece una linguaccia, sventolandole un saluto e arraffando la borsa posata su una sedia vuota. L'altra ragazza si lasciò cadere seduta, annuendo.
« E poi dici a me che sono fuori forma! » esclamò Viola ferma sulla soglia dello spogliatoio, alla volta di Lara che rise rumorosamente e scosse il capo un paio di volte.
« In effetti non so chi tra voi due sia presa peggio. » fu tutto ciò che sentì, prima che la porta si richiudesse docilmente.
 
Passò una mano sul vetro appannato dell'unico specchio del bagno, trovandosi a ricambiare l'occhiata perplessa di una ragazza con gli occhi cerchiati di nero. Incarnato pallido, una cascata di ciocche umide che si riversava oltre la linea morbida delle spalle poco poco incurvate da una postura sbagliata, Viola sapeva di non essere bellissima mentre da un piccolo beauty tirava fuori delle salviettine struccanti e se le passava del viso con gesti spicci, metodici, abituali. Era carina tutt'al più, rifletté appallottolando la pezza intrisa di struccante per lasciarla cadere nel cestino accanto al lavandino.
Mancava della dedizione di Lucrezia, sempre in ordine e sempre curatissima, e non aveva il senso dello stile di Mia che sapeva abbinare chiffon e borchie con una facilità che riconosceva in se stessa solo nell'atto di addentare un trancio di pizza bollente; né tantomeno poteva dire di condividere l'aria da cucciola di Giada o la ferma sicurezza che a Claudia permetteva di muoversi con disinvoltura in qualsiasi ambiente, divorando chiunque attraversasse la sua strada con incredibili occhi grigi da gatta. Al contrario delle sue amiche era timida, un po' goffa, e per niente eccezionale; tra rame, diverse sfumature di biondo e nero corvino i suoi capelli castani non attiravano l'attenzione, né erano d'aiuto gli occhi nocciola. Miopi per di più, constatò con una smorfia dopo aver dovuto raccogliere una lente a contatto dal bordo del lavandino.
Come per tutto nella sua vita, se voleva qualcosa doveva combattere fino all'ultimo per ottenerla. Anche se questo significava litigare con i suoi capelli nello spogliatoio di una palestra miracolosamente deserto, tra nubi di vapore che neppure la finestra spalancata in un angolo sapeva dissipare: affondò il pettine tra le ciocche, tirando con violenza fino a quando la maggior parte dei nodi non si arrese alla sua tenacia, poi – cuffiette e ipod alla mano – attaccò il phon e si preparò a morire di caldo.
Con gli anni era migliorata, se non altro, imparando a convivere con i capelli indomabili e occhiali dalle lenti mai sottili abbastanza, presto abbandonati in favore delle lenti a contatto che le avevano permesso di mostrarsi al mondo con occhi grandi, forse banali nel colore, circondati da folte ciglia scure. La libertà economica, poi, le aveva permesso di abbracciare un'alimentazione più sana e dire addio alla pancetta che era stata croce e tormento dei suoi anni al liceo, nonché di affrontare una lotta serrata con un guardaroba pazientemente rinnovato mese dopo mese, un capo alla volta, con quello che riusciva a risparmiare d'ogni stipendio.
Era stata brava, si concesse sorridendo al suo viso riflesso e circondato da capelli scuri che ricadevano sulla casacchina nera di tessuto leggerissimo, quasi trasparente, a sfiorare la curva acerba dei seni racchiusi nelle coppe scure del reggiseno.
Non era bella ma aveva imparato a vendersi bene, sfumando l'ombretto per dare profondità agli occhi e delineandone la forma con matite scure, soffocando le ciglia di mascara e dipingendo le labbra con un rossetto tenue. Che poi fosse troppo pigra per costringersi ad affrontare un calvario simile ogni mattina era un altro paio di maniche, lo aveva capito il giorno in cui Lucrezia le aveva confessato di svegliarsi alle sei del mattino per arrivare impeccabile a lezione alle nove, capelli arricciati e trucco mai sbavato, e lei l'aveva guardata come se le avesse appena confessato di aver ucciso madre, padre e cane senza subire conseguenze.
No, decisamente preferiva di gran lunga essere così come era: senza fronzoli e senza pretese, con qualche picco nelle giuste occasioni che faceva sempre piacere sfoggiare.
Si rialzò dalla panca di cui si era appropriata più alta di dodici centimetri esatti e mise alla prova il suo equilibrio con qualche passo misurato. Appurato che non sarebbe precipitata a terra rompendosi l'osso del collo, raccolse alla meno peggio i jeans e la polo verde acido appallottolati in un angolo, spingendoli a forza nel sacchetto di carta assieme a spazzola tonda e trucchi, e diede un'ultima controllata sbirciando lo specchio poco più in là: la casacchina cadeva morbida a celare quasi completamente gli shorts neri di cui si intravedevano solo gli orli, calze scure le fasciavano le gambe e scomparivano all'altezza della caviglia dentro un paio di stivaletti in pelle dal tacco sottile. Alta e slanciata dai tacchi vertiginosi persino per i suoi standard – era stata Mia a costringerla a comprarli, quando lei invece era uscita per comprare un paio di scarpe da indossare tutti i giorni – sembrava più magra di quanto non fosse; i capelli cadevano una volta tanto nel modo giusto e non si era impiastricciata troppo con il mascara. Poteva andare.
« Ta-dan! » si annunciò squillante, spalancando la porta dello spogliatoio che andò a sbattere contro la parete vicina. Tre teste si voltarono a guardarla, in un silenzio così assoluto e così infinito che quando Sara finalmente si accorse delle occhiate imploranti che Viola le stava lanciando e schiuse le labbra per dire qualcosa, questa era già avvampata di imbarazzo.
« Ehm... »
Desiderando ardentemente di poter sprofondare al centro della terra seduta stante, Viola rivolse un sorriso cortese e un cenno di saluto al padre di famiglia – abitué dello spinning del venerdì, che ora la fissava con gli occhi fuori dalle orbite dimenticando di avere una figlia di vent'anni a casa – tentando di recuperare la situazione.
« Stai molto bene » la rassicurò Lara con un sorriso, afferrando la borraccia e staccandosi dal bancone con un colpo di reni « Bella borsa! »
« Belle gambe! » commentò invece Erik, allenatore della squadra di pallanuoto, scoccandole un'occhiata di apprezzamento prima di scomparire giù per le scale che scendevano al piano vasca. E a giudicare da come Franco Adige, classe 1954, continuava a guardarla, il pensiero era più che condiviso. Ci pensò Lara a richiamarlo all'ordine, mandandolo a cambiarsi con una battuta pungente e avviandosi a sua volta verso la scale. Viola incrociò le braccia sul bancone, senza sapere se ridere o piangere, e ne riemerse solo quando ricordò di dover chiamare Lucrezia per farsi venire a prendere: si immerse nella borsa fino ai gomiti, frugando alla ricerca del cellulare che già stava squillando.
« Non dire niente, lo so, sono imperdonabile! » esordì parlando in fretta, senza lasciar tempo all'amica di poter dire qualsiasi cosa « Ma sono anche pronta, per cui quando vuoi passa pure a raccattarmi. »
Tacque per qualche istante, tornando ad allungare un braccio nella borsa alla ricerca del portafoglio, ascoltando Lucrezia recriminarle la distrazione.
« Si, si, lo so, scusami » riprese « Ok, ti aspetto qui, tranquilla. A poi, ciao, ti voglio bene. »
Chiuse la telefonata alzando gli occhi al cielo e dalla tasca delle monetine tirò fuori una collanina sottilissima, con un piccolo ciondolo d'argento a forma di paperella. La fece dondolare davanti al viso della ragazza seduta alla scrivania.
« Saretta, mi dai una mano un attimo? »
« Te la do io una mano, senza che lei si alzi. »
Viola non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere la persona a cui la voce apparteneva.L'aveva immaginata, sognata, rievocata senza mai stancarsene, ubriacandosi di fantasticherie innocenti al punto da esserne stordita, al punto da non sapere più dove la realtà cedesse il passo alla sua immaginazione. Ma la realtà si era rivelata molto più dolce, molto più densa, la realtà era miele scuro, viscoso, e affondarci le dita significava non liberarsene più, significava morire di quella troppa dolcezza e farlo con il sorriso sulle labbra.
A parlare era stato Enrico.
Era arrivato mentre lei finiva di prepararsi, o così supponeva mentre cercava di ignorare il calore improvviso che le si arrampicava dal collo al volto e si girava a fronteggiarlo ostentando una sicurezza inventata sul momento, fragilissima e tangibile solo nei limiti del sorriso che aveva sulle labbra dipinte. In quello suonò il telefono della reception, cui Sara rispose prontamente.
« Non ti secca? » fece invece Viola, aggrottando le sopracciglia e allungando la collanina verso di lui che, pantaloncini e maglietta, le aveva mozzato il fiato in gola senza concederle aria neppure per respirare.
« Ma ti pare? »
Vederlo sorridere fu una pugnalata imprevista quanto il brillio improvviso dei suoi occhi, saldi in quelli di lei. Scuri, bui, senza fine e senza fondo, ma sotto sotto buoni, screziati di luce e gentilezze improvvise.
« Ad una condizione, però. » fece Enrico prima che Viola potesse riprendersi e ribattere.
« Cioè? »
« Ti aiuto se mi dici dove te ne vai, così elegante. »
Viola inspirò bruscamente, stordita e stupita.
« Prego? » chiese invece, spalancando gli occhi in due pozze buie.
« Dove vai di bello? Dubito tu sia venuta così tirata qui per il piacere dei nostri occhi, no? »
Annuì debolmente, incantata, ma prima di poter dire effettivamente qualcosa lui la prevenne con una risata.
« Questa palestra è migliore di quel che pensavo se nel servizio è inclusa anche la bella vista! » le fece l'occhiolino, posandole una mano sulla spalla destra per invitarla a girarti « Dai, fatti mettere questa. »
Aveva dita gentili e ruvide esattamente come la voce. Viola chinò il capo e sollevò le braccia per raccogliere i capelli tra le mani, permettendogli di cingerle il collo con il sottilissimo filo d'argento e una carezza involontaria cui reagì con un brivido.
« E' il compleanno di un mio amico, » si sentì in dovere di spiegare, libera dal giogo insostenibile del suo sguardo, nuovamente capace di respirare « Cioè, vado alla festa di compleanno di un mio amico. »
« Amico fortunato, insomma » lo sentì biascicare, mentre strattonava impercettibilmente la collanina tagliandole il collo per una frazione di secondo, litigando con la piccolissima chiusura.
« È solo un amico » si ritrovò a specificare Viola con un sussurro impacciato quanto le dita di lui che, finalmente, alleggerirono la presa e indugiarono qualche attimo sulla nuca scoperta, nella carezza bollente con cui sistemarono la collana e sospinsero il ciondolo verso il petto della ragazza.
« Fortunato lo stesso a poter vantare un'amica bella come te. » fu il commento leggero che l'accolse quando si voltò e, in una improvvisa vampata di spavalderia, piroettò per lui con una grazia che non aveva saputo di possedere fino a quel momento.
« Posso andare, quindi? » sbatté le ciglia un paio di volte, ringraziando il cielo che Sara fosse troppo presa dalla cliente che la teneva impegnata al telefono per poterla vedere mentre, rossa come un pomodoro, si rendeva ridicola con un cliente. Ma Enrico rise, una risata così viva da farle quasi male e che cancellò ogni sua preoccupazione, e con un inchino la invitò ad accompagnarlo verso le scale.
« Può andare signorina, può andare. »
Senza farselo ripetere Viola infilò il chiodo alla svelta e si tirò dietro la borsa, avviandosi sicura nella scia di profumo che lui si era lasciato alle spalle nel precederla di qualche passo. Scesero i gradini in silenzio, uno accanto all'altra, lui pensieroso e lei troppo concentrata nel tentativo di non precipitare e morire di una morte orribile sotto i suoi occhi per poter notare qualsiasi altra cosa che non fosse l'ampiezza delle sue spalle o la nota muschiata che si irradiava maschile attorno alla sua figura.
Stava andando a sudare in quello che probabilmente era il corso più tosto dell'intera palestra, e agli occhi di lei era circonfuso dall'aura di perfezione tipica degli amori improvvisi e volatili, infantili, fuochi fatui dall'innegabile intensità.
Vide Lara guardarla stranita mentre deviava i suoi passi verso la saletta con le bici, e sventolò la mano in un saluto accompagnato da un sorriso nervoso, esagerato, fingendo fosse una cosa abituale e non un'improvvisata dell'ultimo minuto.
« Beh, buona pedalata! » augurò ad Enrico con una curva ben più mite disegnata sulle labbra.
« Non mi ricordo dove mi hai detto festeggiate » la sorprese lui, a tradimento, con un sorriso furbo.
« Perché non te l'ho detto » osservò Viola, stranita, con una prontezza che la lasciò persino più stupita della domanda di Enrico.
« In effetti hai ragione. Buona serata, Viola. » le sfilò accanto, così vicino che le parve di avvertire il calore irradiarsi dal suo corpo al proprio, e scomparve oltre la soglia della stanzetta. Prima che le porte si chiudessero e la musica esplodesse violenta dall'impianto stereo, però
« In Portizza! Sarò, saremo in Portizza! » lo rincorse con il pensiero e le parole. Lui però non diede segno di averla sentita e Viola sospirò piano, guardandolo prendere posto e aprire la bocca in una risata cancellata dalle note remixate di una canzone che non conosceva.
Era già seduta in macchina con Lucrezia, immersa in un resoconto dettagliato di quello che era appena successo, quando realizzò con un brivido che lui l'aveva chiamato per nome, per la prima volta.

 

**


Il lunedì mattina la sorprese con la guardia abbassata, distratta dai rimasugli di un weekend di fuoco e dalla preoccupazione dell'esame ormai imminente.
Con il capo chino sulla tazza ricolma di caffè fumante Viola guardò lo schermo del cellulare – erano le otto e venti, appena le otto e venti – e allungò una mano verso il barattolo dello zucchero ripensando alla serata di venerdì, agli strilli felici con Lucrezia mentre scendevano verso le rive e facevano a gara a chi alzava di più il tono di voce in preda ad un'euforia senza precedenti, ai sorrisi ben impressi nella sfila di fotografie che Claudia aveva scattato senza tregua e che lei, e lei soltanto, sapeva essere frutto della speranza segreta che lui l'avesse sentita e che avesse deciso di raggiungerla, un po' per caso, un po' per capriccio.
Fantasticherie innocenti, prive di significato, con cui aveva riempito i silenzi e smarrito brandelli di conversazione, scivolando in un universo parallelo tutto inventato, un'architettura di desideri costruita attorno ad un unico fulcro luminoso, centro di un sistema solare di pensieri e sogni ad occhi aperti che nasceva e moriva nelle sfumature morbide di occhi scuri e nel tocco ruvido di dita calde.
L'avevano presa in giro, certo.
Ma nel loro scherno era facile leggere l'affetto e la sottile preoccupazione di Mia, cupa negli occhi verdi, l'aveva spinta a rassicurarla che era tutta scena, che non ci stava poi pensando così tanto, che era solo divertente farlo diventare uno scherzo di cui ridere tutti assieme. Poi, un calice di prosecco dopo l'altro, la conversazione si era inoltrata in un labirinto di piccolezze sviscerate al dettaglio, risate e chiacchiere su tutto e niente, per sfociare poi nella colossale sbronza che aveva colto tutto il gruppo mentre si dirigevano barcollanti e a mezzanotte ormai passata verso il locale dove aveva consumato le suole – e ogni briciola di energia rimasta – a ballare sui ritmi vivaci di musiche balcaniche. Il sabato era già arrivato da qualche ora quando era crollata sul letto ed era scivolata in un meandro di sogni cullati dagli echi fiochi di una voce scura e densa, calda, in cui era rimasta invischiata fino a mezzogiorno inoltrato quando sua madre l'aveva chiamata.
La sera poi si erano ritrovati tutti a casa di Matteo che, non pago dell'aver festeggiato il giorno prima, aveva offerto loro una cena casalinga che avevano condiviso anche con Giada, riservando al computer il posto d'onore a capotavola. Poi erano di nuovo usciti, sia a Trieste che a Roma, e le ore erano scappate via veloci, consumando nell'inerzia e nella stanchezza una domenica uggiosa di ripasso faticato e stentato.
E ora il lunedì mattina reclamava la sua attenzione con violenza improvvisa, luminoso di un sole che invogliava passeggiate in bosco o in riva al mare piuttosto che un'ennesima giornata trascorsa sui libri nel tentativo di recuperare il tempo perso nel fine settimana.
Si accasciò sul tavolo, come svuotata, e nello sconforto generale si chiese come avesse potuto veramente, venerdì sera, credere possibile che lui accogliesse l'invito implicito nella sua rivelazione e si facesse davvero vivo. A che scopo? Per dirle cosa?
E anche se si fosse presentato, poi cosa sarebbe successo? Anche ammettendo dimostrasse un certo interesse – e l'istinto, un piccolo grumo di certezze che nei suoi ventitré anni di vita aveva pazientemente accumulato una batosta dopo l'altra le diceva che Enrico non era poi così tanto indifferente alla ragazzina che vedeva due volte a settimana in palestra, seduta dietro una scrivania con addosso una orribile polo verde acido, o almeno non lo era stato nel momento in cui l'aveva guardata veramente – non avrebbe potuto né dovuto aspettarsi nulla di diverso dalla storia di una notte. Non era così ingenua da convincersi che le sarebbe andato bene, che sarebbe bastato, perché si conosceva. Non era brava a conoscere e capire le persone, ma era infallibile quando si trattava di conoscere e capire e se stessa: sapeva, se lo sentiva nelle ossa, che andare a letto con lui avrebbe spalancato una voragine assoluta tra fantasia e realtà, e la prima avrebbe investito la seconda con una tempesta di se e ma tesi a sostenere un'impalcatura di convinzioni senza riscontro, campate per aria, che avrebbero messo radici dentro di lei. Si sarebbe fatta male, tanto male, e non voleva. Non ne valeva la pena, non per il brivido di una carezza o l'emozione di un sorriso.
Si fece coraggio e addolcì il caffè con due cucchiaini di zucchero: era lunedì, aveva tanto – troppo – da studiare e il pomeriggio lo avrebbe perso al lavoro.
Era lunedì, e in fondo poteva accantonare il pensiero di lui fino alle sei e mezza quando, un po' in ritardo rispetto al resto del gruppo, sarebbe comparso in cima alle scale assieme ai suoi amici e lei avrebbe avuto conferma del suo totale disinteresse di persona. Trangugiò un sorso insospettabilmente amaro e si alzò decisa: aveva da fare, non si sarebbe lasciata incastrare dal ricordo di due parole scambiate per caso e degli occhi di lui fissi nei suoi. Scacciò la fitta improvvisa di desiderio che la colse e si trascinò verso la libreria dove, ordinatamente impilati, quaderni e libri non aspettavano che lei.
Era quasi l'una e mezza quando cedette al brontolio insistente del suo stomaco e decise di averne avuto abbastanza per la mattinata. Chiuse i libri con un tonfo, li spinse in un angolo e in cambio prese il cellulare, scorrendo rapidamente la rubrica.
Tempo due squilli e Claudia rispose alla telefonata.
« Non ne posso più » esordì Viola, aprendo uno sportello di legno e sbirciando ai barattoli ordinatamente disposti all'interno del mobiletto « Studio dalle otto e mezza e continuo a non sapere un tubo, io ODIO questo esame di merda. »
« A me lo dici? È solo la terza volta che tento di darlo e manco questa volta mi presenterò perché più leggo le cose e più mi dimentico tutto quello che ho imparato. »
« Claudia, cosa abbiamo fatto di male nella vita? »
« Non lo so e non lo voglio sapere, preferisco non venire a conoscenza della terribile colpa di cui mi sono macchiata per subire un simile destino. Che fai ora? »
« Niente, sto inutilmente cercando qualcosa da mangiare ma in questa casa non è rimasto assolutamente nulla di commestibile » sibilò cupa, sbattendo l'antina in un moto di stizza e appoggiandosi al piano cucina « E il portafoglio piange, piange, piange. Se non mi danno oggi lo stipendio posso ufficialmente inaugurare la stagione del digiuno. »
« Vuoi passare da me? Non ho molto, ma penso che un piatto di pasta posso offrirtelo. Poi in caso puoi fermarti qui, così ripetiamo tutto il pomeriggio.. » le offrì Claudia.
« Sarebbe oro, davvero. Mi dai il tempo di indossare qualcosa di decente? »
« Non hai bisogno di farti bella, il tuo ciclista dovrebbe apprezzarti così come sei... »
L'ironia era così sottile, così impercettibile nel tono falsamente gentile, che per un attimo Viola sorride intenerita della premura dell'amica. Poi realizzò la battuta e, suo malgrado, arrossì furiosamente.
« Sei perfida... »
« ...come poche, lo so. Mi vuoi bene per questo, e io ti voglio bene perché sei una polla, e ti prometto che ti vorrò ancora più bene se adesso chiudi, muovi il tuo bel culetto e lo sposti qui al mio cospetto, che sto morendo di fame! »
« Sei una stronza » rise Viola « Cucina bene, non voglio morire avvelenata. Ciaaaaooo! »
Chiuse la telefonata senza aspettare repliche e, dopo aver lanciato il telefono nella borsa abbandonata vicino all'ingresso, lasciò cadere a terra la felpa sformata che aveva indossato fino a quel momento e i pantaloni del pigiama, in favore di un paio di pantaloni verde militare e una maglietta nera con le maniche a tre quarti che considerò dubbiosa, guardando al vento che soffiava fuori dalla finestra. Si sarebbe scaldata camminando, pensò indossandola in fretta, e in palestra non avrebbe certamente sofferto il freddo; che Claudia la prendesse pure in giro, aveva bisogno di sentirsi carina non per Enrico ma per se stessa, per scacciare via il grigiume insopportabile dello studio e dei troppi pensieri. Indossare la polo verde acido non avrebbe aiutato, decisamente.
Ad aiutare ci aveva pensato invece la passeggiata lungo i viali alberati incendiati da un autunno improvviso, comparso senza preavviso e senza annunciarsi: da un giorno all'altro il verde aveva ceduto il passo al giallo, al rosso e all'arancione, rivestendo i tronchi con un'ultimo lampo di colore prima che l'inverno li reclamasse spogli e scheletrici.
Le piaceva l'autunno, le piacevano i mucchi di foglie lungo i marciapiedi, il sapore friabile dell'aria quando all'imbrunire si faceva birichina e mordeva il naso, pizzicava gli occhi. Autunno era sinonimo di maglioni di lana e sciarpe tirate sul viso, castagne arroste e bicchieri di vino condivisi in compagnia, domeniche uggiose passate sotto le coperte in compagnia di un telefilm possibilmente straziante e le prime cioccolate calde a metà pomeriggio in qualche bar del centro.
Un passo dopo l'altro Viola si era riempita il petto di respiri sempre più ampi, di una serenità improvvisa che non avrebbe saputo spiegare in altro modo se non come il risultato della carezza sulla pelle di un sole appena appena tiepido oltre la cortina di foglie e delle canzoni canticchiate a mezza voce che le avevano fatto compagnia durante il tragitto fino all'appartamento di Claudia.
Era stato d'aiuto trovare l'amica accoccolata sul bancone della cucina, in compagnia di una sigaretta, sullo sfondo di una finestra chiusa oltre la quale una distesa di tetti di tegole rosse si stendeva docile fino al mare, e sorridere del piccolo piacere privato che era la sua compagnia.
Maglia color crema e pantaloni ruggine, si era fumata una sigaretta chiacchierando del più e del meno mentre Viola di prodigava a coccolare Felix, gatto di casa, e un pasticcio si scongelava nel calore del forno. Avevano pranzato ridendo delle ultime conquiste di Claudia e dei suoi letali occhi grigi, luminosi come argento e morbidi come nebbia, si erano lamentate dello studio e aveva piagnucolato un po' invidiando Giada e la sua carriera accademica ben avviata, senza ombre né incertezze, in una facoltà tra le migliori in Italia.
Poi si erano rimboccate le maniche, avevano legato i capelli e con il sostegno di una tazza di thé bollente avevano affrontato l'interminabile ripasso dei primi capitoli del programma, dedicato ad una metodologia già affrontata in altre discipline che faticavano comunque a mandare a memoria.
Le cinque e mezza erano arrivate prima di quanto immaginassero e con un'ombra di rammarico si erano salutate quando già il sole minacciava di tramontare oltre una coltre di nubi minacciosa, salita dal mare sulla scia di un vento poco poco più cattivo.
E adesso che sedeva nuovamente alla sua scrivania, presidiando gli ingressi agli spogliatoi della palestra, il nodo alla gola che aveva tramortito il buon umore di Viola di prima mattina se ne era andato, sostituito da una tranquillità tanto precaria quanto piacevole che le permetteva di sorridere senza fatica alle clienti che arrivavano per i corsi.
« Ciao Renata! » salutò l'ultima arrivata, con una confidenza che era solita permettersi con poche persone lì dentro. La donna, carnagione olivastra e impeccabile caschetto nero, ricambiò il saluto sfarfallando le dita in un gesto vezzoso.
« Ciao tesoro, come stai? » le chiese, fermandosi davanti al bancone e porgendo una guancia per pretendere un bacio. Viola gliene regalò uno con lo schiocco, schiudendo le labbra in un sorriso generoso.
« Bene, dai.. il pasticcio era prodigioso, ci hai salvato la giornata! »
« Mi fa piacere. Quando Claudia mi ha chiamata dicendomi che saresti passata a pranzo ho pensato che non potevo lasciarti nelle mani di quel disastro ambulante che è mia figlia. Probabilmente ti avrebbe propinato una pasta al burro scotta e insipida, conoscendola.. »
« Oppure avrei finito col cucinare io, come al solito, e i risultati non sarebbero stati migliori! » intervenne in favore dell'amica, sorridendo alla madre che annuì compita e si avviò verso lo spogliatoio arricciando il naso in una piccola smorfia.
Tale madre, tale figlia. Si appoggiò allo schienale sbiadito della sedia da ufficio, guardando con invidia alla versione più matura di Claudia che spariva oltre la porta dello spogliatoio nel suo elegantissimo completo nero, inseguita dal ticchettare dei tacchi alti sulle piastrelle immacolate.
Se all'inizio l'esuberanza e la tendenza a voler controllare un po' tutto l'aveva infastidita, nel corso degli anni aveva imparato a voler bene alla donna manager che aveva deciso di adottarla quando le era capitata per casa la prima volta, disperata dalle angherie dei coinquilini e fradicia della pioggia che l'aveva sorpresa a metà strada senza ombrello, tanto che ora faticava ad immaginare le sue giornate senza quella presenza a tratti ingombrante che aveva preteso di telefonare ai suoi genitori annunciando loro che avrebbe ospitato la figlia fin tanto che non avesse trovato un posto dove stare.
Sospirò silenziosamente, allungando una mano per ricevere il tesserino di Diana Columbo, fingendo di non sentire le sue lamentele sulle scale che era stata costretta ad affrontare a causa di un guasto all'ascensore. Ad un certo punto smise persino di ascoltarla, rapita dalle chiacchiere che sentiva farsi sempre più nitide passo dopo passo.
Voci maschili intente a confrontarsi sulle rispettive giornate di lavoro, a precedere una testa bionda e una mora, che non si interruppero se non davanti al bancone dietro al quale Viola sedeva nervosa e assolutamente imbambolata al tempo stesso, guardando Enrico aggrottare la fronte e annuire con aria pensosa.
« Bella rogna in effetti, mi sa che la telefonata a Milano non la eviti questa volta » commentò con aria seria, tirando fuori il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni per allungarle il tesserino. Il suo timido “ciao” passò del tutto inosservato, senza ricevere risposta, e non ci fu nessun “grazie” quando restituì la tessera gialla e blu.
« Una rottura di coglioni che non ti dico, se quel fascicolo non salta fuori sarà un casino » sbottò Gian con una smorfia, riavviando i capelli con una mano e facendo per andare verso lo spogliatoio.
« Ehm.. » la ragazza si schiarì la voce, a disagio come tutte le volte che le capitava di dover inseguire qualcuno anche solo per chiedere un nome « Il tesserino. »
Il biondo non batté ciglio, tornando sui suoi passi e lasciando la porta aperta per Enrico, che scomparve oltre la soglia senza una sola parola.
Cancellò entrambi i loro nomi dall'elenco, ignorando platealmente le continue lamentele della signora Columbo che aveva iniziato a raccontarle di quanto male le facesse le sciatica e trattenendosi dal farle notare che se erano venti gradini scarsi a ridurla in quello stato allora forse avrebbe fatto meglio a rimanersene a casa piuttosto che buttare via soldi ad ogni mese per dei corsi che, a sentirla parlare, non sortivano alcun effetto che non fosse irritare le ragazze alla reception e Paola, ormai esasperata dalla presenza della donna. Non era certa avrebbe capito il perché dei nervi improvvisamente a fior di pelle, né avrebbe colto l'amara delusione che con un pugno allo stomaco l'aveva riportata con i piedi definitivamente a terra: a Enrico non interessava, neppure per sbaglio. Non l'aveva neppure vista, essere addirittura guardataera qualcosa che trovava ragione d'esistere solo nelle sue infantili fantasticherie di ragazzina sognatrice.
Scostò la sedia dalla scrivania con un gesto brusco, scusandosi con un'allibita Diana che la vide correre via verso lo spogliatoio femminile e chiudersi in bagno. Non perché ne avesse bisogno, ma perché aveva come l'impressione che se fosse rimasta un solo istante di più a fissare la faccia grassoccia della signora Columbo si sarebbe messa ad urlare e non aveva una scusa valida da propinare neppure a se stessa per giustificare un comportamento simile.
Non era il suo ragazzo, non era un suo amante, non era neppure un suo amico.
Enrico era un giovane uomo che frequentava la palestra, un cliente che si era dimostrato particolarmente gentile – o inopportuno, a seconda dei punti di vista – e le aveva fatto battere il cuore più forte del solito. Niente di più, niente di meno. La bolla si era spezzata e ora gli occhi le bruciavano per il sapone che ci era finito dentro, a ripulirli dalla patina di sogni ad occhi aperti che l'aveva resa più cieca e ingenua di quanto non credesse; non aveva motivo per piangere, né per essere triste. Così inspirò a fondo, si sciacquò la bocca con un sorso d'acqua e torno fuori con un bel sorriso disegnato sulle labbra, a fare quello per cui era pagata. Accogliere i soci della palestra e rinnovare abbonamenti; non fantasticare senza motivo per farlo.
Sono così patetica che la mia mente si è inventata qualcosa che non c'era pur di sopperire alla mancanza di una qualsiasi forma di vita sociale, digitò rabbiosa su twitter. Pigiò il tasto “invia” con forza, guardando il messaggio comparire in cima alla timeline sul display del cellulare che lasciò poi cadere in un mucchio di scartoffie, tornando a dedicarsi ai clienti che si arrampicavano solerti lungo le scale. Sorrise, salutò, rise, scalò ingressi e rinnovò abbonamenti, così concentrata su quello che stava facendo che, dopo aver infilato le banconote dell'ultimo incasso in una busta di carta, sobbalzò vistosamente nello sollevare il viso e trovarsi a fissare Enrico pigramente appoggiato al bancone.
« Ti ho spaventata? » si sentì chiedere con gentilezza squisita, alla quale rispose con una scrollata di spalle nel tentativo di ignorare la sensazione di calore che le si allargava in petto.
Inopportuno.
 Inopportuna.
Inopportuni
entrambi.
« No, sono io che non ti ho sentito, scusa. » raddrizzò automaticamente la schiena e « Posso aiutarti? » gli chiese senza calore, sporgendosi già verso il libro delle prenotazioni.
Se doveva imparare a considerarlo con un cliente e niente di più, tanto valeva iniziare da subito, si disse con fermezza, riavviando i capelli dietro un'orecchia e tornando a guardarlo in attesa, la penna già in mano per segnare, correggere o aggiungere.
« In realtà no, volevo sapere come è andata venerdì » riprese lui, allungando una mano per rimetterle a posto la stessa ciocca, nuovamente scivolatale davanti agli occhi.
Oh.
Inopportuno.
Inopportuna.
Inopportuni
entrambi.
Viola non poté fare a meno di addolcirsi in un'espressione felice, socchiudendo gli occhi mentre le dita di lui si ritraevano lasciandole sulla pelle una scia incandescente di calore.
« È andata bene. Credo. »
« Come sarebbe a dire, “credo”? »
« Eh, non è che mi ricordi proprio tutto in realtà » confessò Viola facendosi piccola piccola sulla sedia e sorridendo piano mentre lui rideva.
Ricordava perfettamente il senso di aspettativa e il suo guardarsi attorno con impazienza, ricordava la necessità quasi fisica di controllare il viso di ogni uomo avesse incrociato il suo passo per controllare quanto scuri fossero i suoi occhi e quanto spettinati i capelli, l'attesa infinita con cui aveva affrontato la serata e poi il sapore agrodolce di una delusione improvvisa, stemperato dall'alcol, quando finalmente aveva realizzato che no, non l'avrebbe rivisto, e che meglio sarebbe stato accontentarsi di quel poco che c'era stato senza pretendere niente di più. Poi il resto si era tutto confuso, disciolto, nella gioia primitiva della notte mai giovane abbastanza che l'aveva vista ballare fino a non poterne più, fino a doversi arrendere e abbandonare le scarpe in un angolo della sala e ancora oltre, quando l'aurora aveva violato i confini del buio e imposto il dominio di un giorno appena sbocciato.
« Abbiamo fatto festa, insomma! » commentò lui, dandole l'impressione di un vago apprezzamento taciuto.
« Così pare.. Pare anche ci abbiano scacciati dalla Portizza, ad un certo punto, erano fin troppo stufi di noi » rise, constatando quanto facile fosse confessargli qualsiasi cosa, di come le parole arrivassero da sole e si mettessero in fila per comporre le frasi. Lei, che per antonomasia con le persone non sapeva parlarci, adesso stava parlando.
« Guarda, ti confesso che un salto ho provato a farlo, ma devo averti mancata di un po' perché stavano già chiudendo. »
Viola non trovò voce per ribattere, imporporandosi di un piacere improvviso che si arrampicò con dita di colore lungo i suoi zigomi. Tuttavia s'impose di sostenere il suo sguardo, concedendosi il piccolo lusso di affondare nelle volute scure, nocciola, che si stringevano attorno alle pupille nerissime e non fosse stata troppo impegnata a perdersi, avrebbe potuto vedersi riflessa nel nero con una precisione quasi dolorosa e leggervi i contorni del suo desiderio tutt'altro che celato.
Inopportuno.
Inopportuna.
Inopportuni
entrambi.
A salvarla fu l'esplosione di musica che sancì l'inizio della lezione, un piano più sotto.
« Sono in ritardo! » esclamò Enrico con faccia inorridita.
« Sei in ritardo » gli fece eco Viola, guardandolo correre via con una smorfia buffa sul volto. Seguì la linea ampia delle sue spalle fin quando le fu possibile e quando scomparve dietro lo spigolo dipinto di bianco della parete sospirò con aria trasognata, allungando una mano a recuperare il cellulare e pensando già a come raccontare quello che era appena successo alle sue amiche.

« ...e comunque quando se ne è andato mi ha detto solo “ciao”, niente di che, quindi non so mi sono inventata tutto o se invece qualcosa c'è stato. »
Viola alzò lo sguardo dalla mano destra, ben premuta contro la tavola, e sventolò il pennellino dello smalto che stava mettendosi con aria dubbiosa, indicando lo schermo del computer dove Giada la guardava con occhi imploranti, in attesa di consiglio.
« Hai un succhiotto sul collo? » chiese dopo un silenzio infinito, assottigliano gli occhi in due fessure scure e sporgendosi verso l'immagine della bionda che trasalì e in un gesto automatico nascose la macchia scarlatta sotto le dita di una mano.
« Come puoi credere di esserti immaginata tutto con una roba del genere addosso? Diamine, avete limonato duro tutta la sera in fondo! » riprese Viola senza mezzi termini, tornando a stendere lo smalto grigio sulle unghie. Storse le labbra in una smorfia, sbavandolo leggermente.
« Ho capito Viola, ma poi se è andato con un misero “ciao”, poi non mi ha neanche più guardata! »
« Per lo meno non si è limonato un'altra sotto il tuo naso, quello sarebbe stato estremamente rude da parte sua e in netto contrasto con il Galateo della Limonata Cortese. Ma non ho ancora capito perché stiamo parlando dell'ultima Jota, ancora! »
Giada si fece piccola piccola, rannicchiandosi sulla sedia.
« Perché sabato sera ce ne è un'altra e io vorrei tantissimo andarci.. » pigolò intimidita.
« MA PORCA MISERIA! » strillò Viola alzando gli al cielo e mordendo la lingua per non scomodare troppi santi in Paradiso « No Giada, non dicevo a te, scusami.. ho fatto il solito disastro, adesso devo rimetter tutto da capo. » si spiegò un istante più tardi, restituendo un po' di colore alle guance dell'amica improvvisamente impallidite. Sollevò persino una mano, mostrando l'unghia dell'anulare dove lo smalto non del tutto asciugato si era accartocciato in maniera impossibile.
« Comunque.. » riprese pazientemente, cercando l'acetone « Se ti preoccupa il fatto di rivederlo fossi in te andrei tranquilla, male che vade passate di nuovo tutta la sera a mangiarvi la faccia a vicenda e fin tanto che non ti fai coinvolgere sentimentalmente non hai di che preoccuparti. Hai ventitré anni, non quaranta, e non stai cercando marito in fondo. Puoi spassartela tutta la sera senza pensare ad un bel niente. »
« Non sono convinta, Vì.. »
« Perché come me anche tu sei stupidamente convinta che il grande amore prima o poi arriverà a salvarti da questo schifoso mondo di cinici, non per altro.. »
Sospirarono assieme, la bionda con lo sguardo perso in un punto non ben definito alle spalle della webcam e la mora nuovamente assorta nella delicata operazione di stesura dello smalto.
« ...diciamo però che nell'attesa è sacrosanto divertirsi un po', il grande amore indubbiamente apprezzerà l'esperienza accumulata. » riprese Viola dopo un po', strappando all'amica un mezzo sorriso mentre un pin! annunciava loro che Mia si era connessa. Non ebbero bisogno di dirsi nulla, bastò solo un cenno e lo spegnersi simultaneo delle due webcam che permise alla nuova arrivata di unirsi alla conversazione.
« Hola mi amor! » salutò Mia.
« Ancora spagnolo? » Giada sembrava sorpresa.
« Mi ha spostato l'appello a mercoledì, quell'arpia di una lettrice, quindi si: ancora spagnolo. Di che stavate parlando voi due, invece? »
« Mister Penna, once again » rise Viola, immaginando Giada arrossire e chiudendo lo smalto con le dita tese, nel tentativo di non combinare nuovi disastri.
« A dire il vero si parlava di spassarsela un po' in attesa del grande amore » puntualizzò questa, chiamata in causa.
« E a proposito di spassarsela, tu quando pensi di fare un giro sulla bicicletta del tuo ciclista inopportuno? »
Dire che non ci aveva mai pensato sarebbe stata una bugia troppo grande per poter essere propinata a chiunque, figurarsi a due delle sue migliori amiche, né indignarsi era un'opzione praticabile. Lui le piaceva, e lo spasmo al basso ventre che le mozzava il fiato in gola ogni volta che lo vedeva passare davanti alla reception era qualcosa che poteva giustificarsi solo con una violenta, innegabile attrazione fisica.
Le piaceva il suo viso, gli occhi circondati da sottili rughe d'espressione, la forma morbida delle labbra e il modo in cui si schiudevano per sorridere. Le piaceva il modo in cui si sporgeva in avanti con il busto, andando incontro a tutto ciò che la vita aveva da offrirgli, e la ferma decisione con cui toccava le cose, con cui aveva toccato lei per sistemarle la collanina. Le piaceva il modo assolutamente spontaneo che aveva di condividere con i suoi amici, come accoglieva le loro preoccupazioni e come si impegnava, si crucciava persino, nel tentativo di trovare una soluzione ai loro problemi. Di lui conosceva con esattezza la data di nascita – 24 marzo 1977 –, la consistenza ruvida dei polpastrelli sulla nuca, la luminosità dei sorrisi, la profondità dello sguardo scuro. Non lo vedeva che una, due volte al massimo a settimana. Non si erano parlati che due volte. E non aveva bisogno di altro per apprezzarne la pienezza con cui rideva e il calore che le riempiva il petto tutte volte che solo lo intravedeva. Come fosse il preludio di una felicità improvvisa, di una giornata di sole dopo tanta – troppa – pioggia.
Lui era la sua giornata di sole.
« Viola, ti abbiamo persa? Sei sconvolta? Dio, pagherei per poter vedere la tua faccia! » sospirò Mia, richiamandola alla realtà con una sferzata d'ironia pungente.
« No, brutta stronza, stavo solo cercando la maniera accurata di mandarti in un qualche bel posto. » si trovò costretta a replicare « Ma l'idea di un giro in bicicletta non è che sia poi così male.. » ammise subito dopo, con un sospiro, cedendo alla voglia che aveva di raccontare anche a loro il peso di quella rivelazione.
« Giada, stavi registrando? »
« Merda, no! Non ero pronta! »
« Che cosa volevate registrare, di grazia? »
« Hai detto che ti piace! » strillarono in coro Mia e Giada, con un entusiasmo tale da strapparle una risata, contagioso come il raffreddore a novembre.
Più tardi, rannicchiata sotto le coperte, nel silenzio del suo appartamento, Viola sorrise tra sé e sé.
Sembrava tutto più reale ora che l'aveva detto ad alta voce.
Era vero, lui le piaceva.
Enrico le piaceva.
Tanto.




 


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