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Autore: Bethesda    11/05/2013    4 recensioni
"[...]Tuttavia non riuscivo a sopportare l’idea che in così tanti mesi fosse svanito nel nulla. Certo, Holmes ne aveva le capacità, ma non lo ritenevo leale nei miei confronti, e ciò provocava in me un’enorme frustrazione, che si ripercuoteva sul mio comportamento rendendomi scorbutico e poco propenso alle parole. E quando la rabbia svaniva prendevano il suo posto la preoccupazione e il terrore di averlo perso per sempre, magari a causa di un qualche nemico a me sconosciuto, miglia e miglia lontano da me."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Diario di un Consulente Criminale'
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Fu come se il sangue mi si fosse congelato nelle vene: sbiancai e per qualche istante trattenni il respiro, dacché la voce roca del vecchio marinaio era giunta alle mie orecchie con un tono noto che non sentivo da tre anni.
Avvertii le gambe cedere, ed ero sicuro che avrei avuto un mancamento, ma la mano andò a posarsi sulla parete alle mie spalle, e riuscii a reggermi in piedi, mentre la mia mente cercava di non crollare di fronte a quello spettacolo inaspettato: l’uomo si sollevo di circa un piede, l’espressione arcigna del volto scomparve, e mentre una mano portava via il cappello logoro e la parrucca di capelli biondicci e stopposi, l’altra toglieva dal volto quello che si rivelò essere un naso finto.
L’espressione sul suo viso si distese: scomparvero alcune rughe, e gli occhi, prima grandi e spesso lucidi, si mostrarono a me come quelle lame d’acciaio che nel tempo avevo imparato a temere e rispettare.

Ritengo che cercai di formulare qualche frase sensata, ma la lingua sembrava essersi incollata al palato e tutto ciò che riuscii a bisbigliare fu un “sei tornato”.
 
 
Holmes, in tutta la sua altezza, mi fissava senza aprir bocca, e sembrava avesse i muscoli contratti. La sua pelle era ancora quella scura, resa tale dal trucco, ma il volto conservava la stessa espressività alla quale non ero più avvezzo.
 
«Purtroppo sono costretto a presentarmi a te in modo così brutale: sembra che il colonnello Moran sia già sulle tue tracce. Immagino ricorderai il fedele braccio destro del professor Moriarty. Ebbene, lui--»
 
«Tre anni», dissi, questa volta con voce ferma. «Sono passati tre anni, e la prima cosa che mi dici riguarda il colonnello Moran».
 
«Tecnicamente io e te siamo in contatto da tre mesi», rispose rapidamente, come se il nostro ultimo incontro ufficiale fosse avvenuto pochi istanti prima.
A quel punto ignoro cosa mi trattenesse dallo sferrargli un pugno, ma immagino si trattasse del tremore che si era impossessato delle mie membra.
 
Holmes, il mio capo, il mio amico, il mio amante era davanti a me, lo sguardo impassibile e le labbra serrate, quando, fino a pochi istanti prima, lo pensavo ancora disperso da qualche parte del mondo; invece mi era sempre stato accanto, perlomeno in quell’ultimo periodo. Il mio stupore era comprensibile, come la mia ira e tutte le sensazioni che quasi riuscivo a sentire mentre mi impastavano la bocca di parole che non sapevo se sarei riuscito a dire, mentre la sua reazione, il suo timore nei confronti di un uomo che avevo visto una sola volta in vita mia e di cui non sentivo parlare dal mio ritorno a Londra, mi appariva completamente insensato e fuori luogo.
 
«Hai speso tre mesi come mio coinquilino, sapendomi in pena e con il cuore ricolmo di angosce accumulate per tutto il tempo della tua lontananza, eppure non hai fatto alcunché. Non trovi che il tuo comportamento sia stato estremamente egoistico», sbottai irritato: se non potevo colpirlo con i miei pugni perlomeno avrei utilizzato le parole.
 
«Egoistico?»
 
Holmes si avvicinò al catino, verso dell’acqua e con tutta la pacatezza del mondo si mise a ripulirsi dal trucco pesante, lasciando che lentamente la sua pelle diafana tornasse a risplendere da sotto la falsa abbronzatura del marinaio. Lasciai che continuasse con questo rituale, mentre lui mi lasciava sguardi fugaci attraverso il piccolo specchio posizionato sul muro.
 
«Non vi è stato alcunché di egoistico nel mio comportamento, Watson. Ho agito in maniera logica ed equilibrata, principalmente in funzione della tua salute. Capisco che tu possa sentirti irritato dalla mia improvvisa venuta, ma mi sono comportato in tal modo unicamente nel tuo interesse».
 
«Il mio interesse! Non una lettera, non un telegramma, un codice, un dannato messaggero sotto copertura: non ti sei minimamente preoccupato di me per tutto questo tempo, e adesso pretendi di giungere qui affermando che tutto ciò che hai fatto era per il mio bene. Holmes, come pretendi che possa prestarti anche solo orecchio dopo esserti preso gioco di me! So bene che nella tua lettera volevi che mi dimenticassi di te, ma non tutti sono fredde macchine, e io non posso cacciare dalla mente un qualcuno con cui ho condiviso lavoro, appartamento e letto».
 
«Sei arrabbiato», disse lui con voce flebile, smettendo di darmi le spalle.
 
«Sono furioso», sbottai, finalmente libero di un peso: sembrava che la mia mente stesse formulando gli eventi in maniera lucida solo in quell’istante.
 
«Dove sei stato per tutto questo tempo? Perché non mi hai mai scritto? E, soprattutto, perché sei tornato?»
 
Questa volta parve scocciato, ma lo lasciava trapelare unicamente dal sopracciglio che era sempre solito sollevare quando qualcuno infastidiva i suoi processi logici o non riusciva a coglierli affatto.


«Mi pare di avertelo detto: sono qui per evitare che tu cada. Moran è sulle tue tracce. Immagino non abbia mai smesso di voler vendicare il suo amico e mentore, il ben poco compianto Professor Moriarty. Essendo ormai quasi sicuro della mia dipartita, vuole perlomeno disfarsi di te. Le mie fonti affermano che lui ti ritenga responsabile della cancellazione di alcuni documenti, solo che la mancanza di prove e la tua repentina scomparsa dal mondo del crimine e dalla vita mondana devono averlo costretto a rimandare per svariato tempo la sua vendetta. È molto probabile che sia davvero convinto della mia morte, ma, tuttavia, non ho ancora avuto contatti sufficienti per affermare con certezza quest’ultima informazione: dunque, fino a nuovo avviso, sei tu nel suo mirino. E posso assicurarti che, nonostante l’età, la sua mirabile abilità da cecchino non è affatto variata, e, in mancanza di tigri in giro per la città, sembra abbia deciso di colpire te».
 
Lo fissai per qualche istante, sedendomi infine sulla brandina cigolante che occupava un’intera parete della stanza. Sembrava quasi che tutte le mie forze fossero venute a mancare, e che l’unica cosa rimastami fosse ascoltarlo. Non potevo fare altro, tanto più che mi sembrava ancora di essere in un qualche sogno ovattato e impossibile.
 
«Come?»
 
«Portandoti davanti ad un tribunale, mi pare ovvio. E per tal ragione son venuto a vivere con te, Watson: non per qualche giochetto strambo, ma per poter gestire la situazione da un punto di vista più semplice. Con Sherlock Holmes morto, nessuno si sarebbe occupato di un innocuo marinaio beone. E tu, amico mio, non sei mai stato capace di fingere. Per tal motivo ti ho nascosto la mia identità: in qualche modo la tua eccitazione – o rabbia, correggimi se sbaglio – avrebbe potuto indirizzare Moran sulla giusta via, e il fatto che ci fossero due uomini, che so già aver avuto un passato con lui, appostati sotto casa nostra, avrebbe sicuramento portato a una brutta piega degli eventi».
 
Rimasi in silenzio, a fissarlo con aria vuota, mentre sentivo le sue pupille scrutarmi alla ricerca di qualche reazione. Il fatto che non ne ebbi alcuna probabilmente gli diede la conferma di quanto fossi giunto al limite.
Si alzò dallo sgabello, ormai libero dal trucco e in maniche di camicia, avvicinandosi a me e sedendosi con lentezza sul materasso, spingendolo ad abbassarsi sotto il suo peso e portando il mio braccio a sfiorare il suo. Fissammo per interminabili secondi il pavimento di quel loculo senza aria, con la candela che danzava a causa degli spifferi, proiettando ombre fioche.
 
«Avrei voluto scriverti. Dio sa quante volte la penna si è trovata fra le mie dita, e quante altre volte ho dovuto posarla nuovamente sul tavolo senza aver vergato alcunché. Non mi sembrava giusto nei tuoi confronti, viste le mie ultime volontà, se in tal modo possiamo definirle. Ti avrei potuto dare false speranze, e non le meritavi. E debbo ammettere che io stesso non avrei saputo cosa dirti. Che sarei tornato? Che saremmo andati nuovamente a vivere a Baker street? Watson, tu stesso ti rendi conto di quanto queste mie parole sarebbero state sciocche e dannose per entrambi».
 
Aveva ragione, ma mi seccava ammetterlo. Tuttavia a me sarebbe bastato un foglietto, anche un biglietto del treno con su scribacchiato “sono vivo e sto bene” per essere felice. Glielo dissi, e lui sospirò.
 
«Avrei preferito che mi dimenticassi».
 
«Mi conosci abbastanza bene per sapere che ciò non sia affatto possibile, e il tuo comportamento è stato incredibilmente meschino. Ti odio, Holmes».
 
Era incredibile quanto sembrasse surreale quella discussione: il nostro tono di voce era pacato, e continuavamo a concentrare lo sguardo sui nostri piedi, come se nei lacci delle scarpe che portavamo fosse celato il segreto della vita eterna.
Non era vero che lo odiavo e lo sapevamo entrambi, ma nessuno disse nulla su questa ultima frase, e lasciammo che i tre anni di lontananza si condensassero nel calore che avvertivamo provenire dai nostri corpi affiancati. Non che fosse molto, ma il solo poter sentire la sua presenza a me vicina mi rendeva già un uomo rinato. E certamente non era la reazione di un qualcuno tendente all’odio. 
 
Non so quanti minuti passarono, ma stavo per decidermi a parlare nuovamente quando una mano si posò rapida sul mio braccio e me lo strinse con forza, facendomi sussultare.
 
«Holmes, cosa--»
 
Mi costrinse a zittirmi, tappandomi la bocca con la mano libera e continuando a tenere le orecchie ben tese, così come lo erano tutti i muscoli del suo corpo. L’ultima cosa che vidi, prima che spegnesse la candela con un soffio, furono i suoi occhi lucidi e crudeli puntati conto la porta d’ingresso.
 
Non capivo cosa lo stesse rendendo così nervoso, finché io stesso non avvertii un borbottio provenire dal vicolo da cui eravamo entrati. Erano parole sommesse, di cui non riuscivo a capire il significato. Sembrava tuttavia una discussione abbastanza concitata, e giunsi alla conclusione che Holmes temesse che si potesse trattare dei due uomini appostati sotto casa nostra. Che avessero seguito le nostre tracce? Forse il nascondiglio di Holmes non era così ben celato, e un qualche accolito di Moran si era reso conto che il marinaio mio inquilino era in realtà il più abile criminale londinese ritornato dall’Oltretomba o da qualche paese lontano. Certo, se loro se ne fossero resi conto prima del sottoscritto, che vi aveva passato tre mesi a stretto contatto, sarebbe stato uno smacco eclatante.
 
Il ciacolare continuò per diversi minuti, e sembrava che gli individui – chiunque essi fossero – non avessero alcuna intenzione di allontanarsi da quel luogo. Fu così che rimasi bloccato fra le braccia di Holmes per quelle che sembrarono ore, tanto che il cuore passò dal martellarmi nel petto per il pericolo al farlo per quell’intimità ritrovata, così strana e lontana nel tempo da confondermi, consolarmi e intristirmi al tempo stesso.
 
Infine le voci si spensero, un suono di passi si allontanò pian piano, e presto rimase solo il silenzio e i nostri respiri a interromperlo.
 
Le mani di Holmes allentarono la presa sulla mia bocca e sul mio braccio senza tuttavia allontanarsi del tutto, e di ciò ne fui grato, perché non desideravo altro che sentire ancora su di me quel contatto, per quanto grezzo fosse.
Mi tornò alla mente quando ci ritrovammo intrappolati nell’ufficio di Charles Augustus Milverton, e tutto ciò che ne derivò in seguito. Un’incredibile voglia di fargli violenza mi assalì, e ,prima che potesse allontanarsi ulteriormente da me, gli afferrai i polsi.
 
«Watson, cosa stai--»
 
Mi impossessai delle sue labbra con forza, spingendo il suo corpo esile verso il centro del materasso, lasciando tuttavia che non cadesse all’indietro grazie alla stretta con cui lo trattenevo a me. Quanto fu doloroso e sublime al tempo stesso toccare quella bocca tanto odiata e tanto bramata, che spesso era ricomparsa nei miei sogni a tormentarmi o con parole taglienti o con languidi baci.
Avvertii un fremito provenire da quell’uomo, ma nessun movimento ne scaturì: rimase immobile a lasciare che lo assaggiassi, senza opporsi ma senza unirsi a me e a quella che sembrava una goffa riconciliazione. Fu dunque allora che mi resi conto di quanto fossi ridicolo in quell’istante.
 
Portai lontano da me il suo corpo e abbassai lo sguardo, senza trovare il coraggio di dire qualcosa o perlomeno di allontanarmi. Lui era sempre lì, gli avambracci stretti fra le mie mani, ma questa volta con ancora la possibilità di fuggire al mio tocco.
 
«Non è il comportamento di qualcuno che prova odio».
 
Sollevai gli occhi, puntandoli sul lieve sorriso che increspava le sue labbra.
Ormai mi ero abituato alla poca luce che aleggiava nella stanza, e il suo volto mi apparve nuovo, con rughe agli angoli degli occhi che non avevo mai visto prima e un volto pallido e stanco, di chi ha viaggiato a lungo portando con sé un peso troppo grande.
 
«Mi hai abbandonato. Mi hai lasciato qui da solo ad aspettare il tuo ritorno, ma nonostante tutto non sono ricaduto nel fango. Ho camminato da solo per tre anni, compreso il breve periodo in cui mi sei stato accanto sotto falso nome. Ho lavorato, mi son sporcato le mani e non ho lasciato tracce del mio passaggio. Mi sono comportato in modo eccelso, il tutto senza la tua guida. Un tempo pensavo che senza di te non mi sarei potuto risollevare; forse è vero per quanto riguarda il nostro primo incontro, ma una volta abbandonato il punto più basso della mia esistenza, ho capito quali fossero gli scalini da compiere per riuscire a tornare in alto, sebbene con lentezza e costanza, e non ho più commesso gli stessi errori. Indubbiamente dovrei odiarti, e forse nel profondo del mio animo è così, ma tutto ciò che ho posseduto durante questo periodo sono stato io, io e solo io. Ho creduto di non poter sopravvivere senza di te, ma alla luce degli eventi non è così: sono un uomo in grado di vivere lontano dalla tua mente sopraffina, e ciò mi rende migliore e libero da qualunque contatto io abbia mai avuto con te, e in tal modo mi permette di scegliere quale strada intraprendere: se odiarti, come se fossi un debole, o se restarti accanto non più come qualcuno che ha bisogno di una guida, ma che lo desidera per semplice gioia di farlo».
Tacque per diverso tempo. E mi spaventai.
 
«Non ho mai creduto che tu fossi un debole, Watson. Non ho mai cercato qualcuno che leccasse la terra su cui cammino, anche se mi rendo conto che tu possa pensarla così: avrei potuto sin dall’inizio abbandonarti a ciò che il Destino, se vuoi definirlo tale, ti aveva riservato, ma ho visto in te qualcuno che non si sarebbe lasciato crollare la vita sulle spalle una seconda volta. Se avessi voluto solo un qualcuno che mi idolatrasse avrei riformato il mio impero circondandomi di ladruncoli, senza cercarti e lasciando che le parole che ti scrissi in quella lettera fossero le ultime. Ma sono tornato per aiutarti. E soprattutto per averti nuovamente accanto a me».
 
Continuammo a fissarci nel buio della stanza in modo tanto intenso che quasi mi fece male, dacché parole tanto sincere da parte sua non ne avevo mai udite, se non in qualche rara occasione.
 
Il ritorno del tocco delle sue labbra sulle mie questa volta mi destabilizzo: fu inaspettato e violento, disperato, un bacio che tentava di recuperare il tempo perduto e le notti spese a tentare di dimenticare. Ci eravamo mancati, e quel bacio ne era l’abbagliante testimonianza.
 
Assaporai la bocca di Holmes, del mio amico e amante ritrovato, finché non persi la concezione del tempo e tutto intorno a noi scomparve.
Lasciai finalmente i suoi avambracci, spostando le mani verso il volto, afferrandolo e portandolo a me con forza per poter meglio godere di quell’intimità umida e dolce, che con velocità travolgente diventava sempre più passionale.
Continuammo a toccarci, riprendendo un contatto che sembrava quasi infiammare la pelle, le labbra, il cuore.
Infine lo bloccai.
Chiusi gli occhi e appoggiai la mia fronte contro la sua, prendendo un profondo respiro e cercando di controllare l’affanno che mi aveva preso al petto.  
Non volevo staccarmi: avevo l’insensato timore che, una volta sollevato lo sguardo, avrei perso tutto ciò che avevo riabbracciato. Era sciocco e dettato da una paura profonda, e tuttavia la ragione non riuscì ad allontanarla da me.
Forse cominciai a tremare, ma non ne son mai stato completamente certo: tutto sembrava come in un sogno, quando il desiderio si volge in incubo, e ci si sveglia con il cuore in gola e un grido stretto fra i denti.
 
Improvvisamente sentii le sue braccia cingermi, ma me ne resi conto completamente solo quando il suo profumo mi travolse e il fiato andò a solleticare l’orecchio. La sua voce roca, nonostante la vicinanza, mi giunse in un sussurro.
 
«Fuggiamo».




Note: Capitolo due della sesta parte della AU. Bene, che dire? Ho perso la mia solita "abilità". Sento questo stile un po' lontano, e faccio quasi fatica: nel caso vi fossero differenze rispetto ad altre storie, o direttamente da un capitolo all'altro, la colpa è mia e del mio Iato. Riprendere a scrivere anche solo dopo pochi mesi è difficile, e credo che le scrittrici fra voi possano capirmi. Quindi pietade! Spero di postare al più presto la terza parte. Un bacio,

Beth
   
 
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