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Autore: Take_Me_ Home    13/05/2013    1 recensioni
Brava la mia piccola. Ti amo, lo sai?
Se mi aveva fatto fare tutto quello per farmi capire che non dovevo fare quelle cose da “persone normali” era perché voleva proteggermi, e le persone proteggono coloro che amano, no?
“Sì, lo so. Ti amo anch’io”, risposi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Louis Tomlinson, Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cap 1

La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l'illusione inquieta di un domani impossibile
con l'inquietudine vicina del color della carne.

 
Questo recitavano i versi di “Pioggia”, di F. Garcia Lorca, una delle poesie che preferivo. Amavo la pioggia perché sembrava rappresentare tutto ciò che avevo dentro. Era fredda, proprio come me; Costringeva le persone ad allontanarsi da lei, proprio come facevo io, anche se non era proprio colpa mia. A lui non piaceva che parlassi troppo con le altre persone e sapevo cosa sarebbe successo se gli avessi disubbidito. L’idea del dolore, forte e in qualche modo meritato, mi occupò la mente, portandomi ad emettere un gemito. Ma io sapevo di meritarlo, sapevo che dovevo essere punita per ogni cosa che avrebbe potuto ferire o far arrabbiare lui. Sentii la porta scricchiolare, segno che qualcuno l’aveva aperta. Un debole fascio di luce proveniente dal corridoio mi illuminò il volto, ma io non accennai minimamente a distogliere lo sguardo dalla pioggia che cadeva incessantemente sulla strada. Mi piaceva starmene lì, seduta sul davanzale a guardare ciò che succedeva in strada. Guardare le altre persone vivere le loro vite tranquillamente mi ricordava tutto quello che non potevo fare... che non avrei mai potuto fare.
“Rachel... perché non scendi di sotto? Ci sono gli zii e vorrebbero vederti”, disse mio padre rimanendo sullo stipite della porta. Non si azzardava più ad entrare, almeno non da quando aveva fatto quella scenata. Non mi piaceva che qualcuno invadesse i miei spazi o che mi toccasse, così quando una volta era entrato con la forza in camera mia avevo cominciato ad urlare e a dondolarmi seduta sul pavimento. Quella volta i miei genitori si erano davvero preoccupati. Sembrava però che si preoccupassero solo quando avevano davanti ai loro occhi la prova schiacciante che io non stessi bene.
 
Ma tu stai bene, Rachel. Non stai forse bene con me?
 
Lasua voce mi rimbombò nella testa, facendomi tremare. Annuii come per rispondere alla sua domanda e poi mi girai verso mio padre.
“No”, dissi in un sussurro prima di tornare a guardare la strada. Lo sentii sospirare, come se fosse triste. Sapevo però che la sua era solo paura. Aveva paura che la gente si rendesse conto di quanto strana fosse sua figlia. Forse pensava che così i suoi affari sarebbero falliti, e io segretamente ci speravo. Ma loro non sapevano che ormai tutti sapevano che non ero normale. Ogni volta che camminavo per strada vedevo la gente che si girava verso di me, che mi indicava, che mi giudicava. Ma a me non importava, non finché avevo lui.
 
Brava Rachel. Tu sai che puoi stare solo con me. Solo io posso capirti.
 
Mio padre uscì dalla camera ed io tirai un sospiro di sollievo. Mi piaceva stare sola, anche se non ero mai del tutto sola.
 
No Rachel, tu non sei sola. Tu hai me. Me e soltanto me.

“Lo so, Lou. Grazie”, dissi, anche se nella stanza non c’era nessuno.
Figurati piccola. Ora vieni da me
Sapevo cosa voleva dire, così mi avvicinai al letto e mi ci sdraiai. Poi mi allungai e presi la boccetta di pillole per dormire dal comodino. Ne ingerii 3, in modo che durassero a lungo e poi tornai a sdraiarmi. Il sonno mi inghiottì in pochi minuti.
 
Mi trovavo in un prato grandissimo. Il verde dell’erba era spezzato dal bianco delle margheritine appena sbocciate. Riconobbi immediatamente il luogo. Era lì che ci incontravamo la maggior parte delle volte. Ci piaceva quel posto perché eravamo soli, proprio come piaceva a noi.
“Rachel, vieni qui”, mi voltai verso la voce e lo vidi, lì, a pochi metri da me. Era seduto sull’erba, con le braccia rivolte verso di me. Gli sorrisi come facevo solo con lui e lo raggiunsi, sedendomi sulle sue gambe e avvolgendogli la vita con le braccia. Appoggiai la testa nell’incavo del suo collo e mi distrassi annusando il suo profumo. Lui si allontanò per un attimo, giusto il tempo di fissare i suoi occhi blu nei miei. Quello era il suo modo per controllare che fossi stata brava e che non gli avessi disubbidito. In realtà non avevo mai capito perché lo facesse, dopotutto lui era con me anche da sveglia, quindi lo avrebbe saputo se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Dopo qualche minuto tornò a stringermi, sorridendo soddisfatto.
“Sei stata brava oggi. Brava Rachel”. Sorrisi soddisfatta. Mi piaceva tantissimo quando mi faceva dei complimenti, anche perché era l’unico che potesse farmeli. Se qualcun altro si fosse azzardato a dirmi qualcosa di carino poi mi avrebbe punito. A quel pensiero i tagli sul mio braccio cominciarono a bruciare, come a ricordami che dovevo sempre fare attenzione.
“Ti meriti un premio”, sussurrò vicino al mio orecchio. Arrossii perché sapevo quale premio mi sarebbe toccato. Lui si staccò nuovamente da me e, lentamente, portò le nostre labbra a combaciare. Fu un bacio veloce e leggero, proprio come piaceva a noi. Tornai ad abbracciarlo e lui ricambiò la stretta.
“Grazie”, gli dissi.
“Prego piccola. Mi raccomando, fai attenzione domani. Tu non sei come tutti gli altri. Tu sei fragile, speciale... mia. Ricordalo questo: tu sei mia. Ora vai, o farai tardi”. Disse facendomi alzare...
 
Aprii gli occhi e invece del cielo azzurro che mi aspettavo di trovare mi si parò davanti il soffitto bianco della mia camera. Questo voleva dire che era tutto finito, per quel giorno e che se avessi voluto vederlo di nuovo avrei dovuto comportarmi bene.
Brava Rachel, comportati bene
Disse la sua voce nella mia testa. Annuii, proprio come la sera prima e mi alzai per prepararmi. Avevo 17 anni e quindi dovevo andare ancora a scuola. Odiavo andarci, non perché non mi piacesse studiare, ma perché era proprio lì che rischiavo di cadere nel tranello, cioè di pensare che potessi essere come tutti quei ragazzi: normale. Poi sarei stata punita. Mi lavai e vestii velocemente per poi scendere per mettere qualcosa sotto i denti. In cucina trovai mia madre, intenta a bere del caffè e a leggere il giornale del giorno.
“Buongiorno tesoro”, disse alzandosi per abbracciarmi. Spaventata da quello che quel gesto mi avrebbe portato mi tirai indietro, guardandola inorridita. Se avessi lasciato che qualcun altro mi toccasse, altre a lui, sarei stata punita ancora più duramente. E poi, come ho già detto, non mi piaceva essere toccata.
“Amore... ma cosa ti succede? Perché ti comporti così?”, chiese lei cieca, come al solito.
“Sto bene”, dissi soltanto. Le girai attorno e mi sedetti al grande tavolo della cucina per fare colazione. La sentii dietro di me ed ero quasi sicura che mi stesse guardando.

Lei non può capire. Lei non è speciale come te.

Disse Louis nella mia testa. Ed era vero. Anche se l’avessi detto a qualcuno, nessuno mi avrebbe capito. Louis era l’unico che mi conoscesse davvero ed io lo amavo. Era per questo che durante le sedute dallo psicologo alle quali i miei mi obbligavano me ne stavo perlopiù zitta e annuivo. Non volevo che qualcuno riuscisse a portarlo via da me. Lui era la mia salvezza... ma anche la mia condanna. Finita la colazione misi la tazza nel lavandino e uscii di casa senza degnare
mia madre neanche di uno sguardo. Mi incamminai verso la scuola sperando che la giornata passasse presto, così che avrei potuto rivederlo.
“Perché devo andare a scuola? Non potrei stare con te tutto il giorno?”,  gli chiesi.

Perché non puoi farlo, Rachel.

“E perché no? Le persone normali vanno a scuola, ma io non lo sono, giusto? Io sono speciale!”.

Adesso basta! Tu devi ascoltarmi, capito? Devi fare quello che ti dico io. Va’ a scuola e basta.

Lo avevo fatto arrabbiare, lo sentivo dalla voce nella mia testa. Sapevo che non avrei dovuto farlo, che poi ci sarebbero state delle conseguenze, ma era stato più forte di me. Rimase in silenzio per tutta la giornata ed io mi sentii sola. Per me era normale non parlare con nessuno e starmene sola a scuola, ma la sua mancanza si faceva sentire. Stavo pensando a quello che mi sarebbe toccato una volta arrivata a casa per colpa della mia impertinenza e non mi accorsi di un ragazzo che correva nella mia direzione. Inevitabilmente ci scontrammo ed io caddi a terra.
“Oddio scusa! Andavo di fretta e non ti avevo vista”, disse il ragazzo porgendomi la mano per aiutarmi ad alzarmi. Era biondo, con due occhioni azzurri che mi fissavano preoccupati. Ignorai la mano e mi alzai da sola.
“Stai bene?”, chiese ancora.
“Sì”, dissi raccogliendo i libri e andandomene. Avevo parlato con qualcuno e quel qualcuno mi aveva toccata. Sarei stata sicuramente punita quella sera. Quasi mi venne da piangere per paura di quello che mi sarebbe successo, ma cercai di rimanere forte. A lui non piaceva quando piangevo. Le lezioni passarono in fretta e dopo l’ultima campanella mi preparai per tornare a casa. Stavo per uscire dal cancello della scuola quando qualcuno mi afferrò per il polso.
“Ehi!”, esclamò il ragazzo biondo di prima. Io ritrassi il polso velocemente, come se mi avesse scottata e lui mi guardò confuso.
“Quando te ne sei andata oggi, hai dimenticato di prendere questo”, disse porgendomi un libro che riconobbi come il mio libro di matematica. Lo presi e lo infilai nella mia cartella. Avrei dovuto ringraziarlo, scusarmi per essere scappata via così, ma ero già nei guai e non volevo aggiungerne altri. Lo guardai un’ultima volta, inespressiva, per poi girarmi e andarmene. Aveva anche cominciato a piovere ed io non avevo un ombrello, ma non era un problema per me. La pioggia mi aiutava a pensare, mi piaceva. In poco tempo arrivai a casa, completamente fradicia. Come al solito in casa ero sola. I miei genitori non c’erano praticamente mai, questo per colpa del loro lavoro che li obbligava a stare fuori casa quasi tutto il giorno. Questo era quello che dicevano loro, ma io ero sicura che fosse perché non volevano avere niente a che fare con me. Salii in camera mia per cambiarmi, ma appena varcai la soglia Louis parlò.

Vieni subito da me.

Era arrabbiato, il che non prometteva niente di buono.
“Devo cambiarmi...”.

No, non devi. Vieni da me e basta.

Annuii abbassando la testa e raggiunsi il letto. Presi le pillole e mi addormentai.
 
Era lì, come al solito, seduto su quel prato verde. Mi stava aspettando, ma non come la sera prima. Nel suo sguardo non c’era nessun segno di bontà. Gli occhi non erano altro che lastre di ghiaccio, duro e freddo.
“Vieni qui”, disse di nuovo. Mi mossi e lo raggiunsi, senza però sedermi vicino a lui. Senza dirmi niente mi tirò per un braccio per farmi sedere e mi afferrò il volto. Fissò di nuovo i suoi occhi nei miei e mi studiò per qualche minuto, per poi spingermi via.
“Sei stata cattiva, Rachel, e lo sai cosa succede alle ragazze cattive?”, chiese arrabbiato. Mi trattenni dal piangere e abbassai lo sguardo. Lui però mi riafferrò e portò la mia faccia vicinissima alla sua.
“Devi essere punita. Vai, ora!”, disse urlando. Sapevo che se non lo avessi fatto ci sarebbero state conseguenze peggiori, quindi mi alzai...
 
Aprii gli occhi e non riuscii a frenare una lacrima che, lentamente, mi attraversò il volto.

Piangi?! Non puoi piangere! Sei stata cattiva e non hai il diritto di piangere!

“Hai ragione”, dissi asciugandomi la lacrima. Ed era vero. Ero stata cattiva, gli avevo disubbidito. Avevo parlato con uno sconosciuto, lo avevo toccato, lo avevo fatto arrabbiare... meritavo di essere punita. Era solo colpa mia e mi serviva una bella punizione. Mi alzai dal letto e mi diressi in bagno. Chiusi la porta a chiave e aprii l’anta dell’armadietto, prendendo una scatolina. La aprii e tirai fuori quello che mi serviva. Mi portai la lametta al braccio e premetti con forza per poi trascinarla per tutto il polso. Immediatamente alcune gocce di sangue scarlatto mi imperlarono il braccio colando nel lavandino. Cercai di ignorare il dolore perché sapevo che se mi fossi lamentata sarebbe stato peggio. Ma non era colpa sua, era solo colpa mia.

Non è abbastanza. Ancora!

Ripetei lo stesso gesto, premendo ancora più forte. Di conseguenza il sangue aumentò, arrivando a colorare il lavandino.
Ecco, ora può bastare. Brava, piccola.
Sorrisi, felice che fosse tornato calmo e che mi avesse chiamata “piccola”. Ora che ero stata punita poteva tornare tutto normale. Mi fasciai il polso e pulii il lavandino per non lasciare macchie che avrebbero fatto preoccupare i miei genitori. Poi nascosi la lametta nell’armadietto e uscii dal bagno.

Brava la mia piccola. Ti amo, lo sai?

Se mi aveva fatto fare tutto quello per farmi capire che non dovevo fare quelle cose da “persone normali” era perché voleva proteggermi, e le persone proteggono coloro che amano, no?

“Sì, lo so. Ti amo anch’io”, risposi desiderando solo che la notte arrivasse presto.
 

Saaaaaaaaalve gente!
Ok, vi prego non tiratemi niente. Lo so che fa schifo, che non è il mio genere e che è un mattone,
ma mi era venuta l'ispirazione e non potevo non scrivere!
Di solito non scrivo ff di questo genere, ma non so, volevo provarci.
Allora, che ve ne pare? Il primo capitolo è un po' un macello e non ci capisce niente, ma capirete più in là.
Non aggiornerò tanto spesso perchè sono già molto impagnata con l'altra ff su Harry.
Vaaaaaaa bene, mi scuso ancora per l'orrenda cagata che mi è uscita.
No, non sono pazza, almeno credo.
Ah, il banner è stato creato da quella genia di

in love with horan
che mi sopporta tutti i giorni e che scrive delle storie favolose. Passate, dai! Vi assicuro tantissime risate.
Credo sia tutto.
Se volete lasciarmi una recensione, anche per insultarmi, io sono qui.
Se volete vi passo la scatola di pomodori (?).
Ok basta, evaporo.
Ciaoooooooo!

 

  
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