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Autore: Melabanana_    15/05/2013    4 recensioni
Hera Tadashi è un ragazzo apparentemente indifferente a tutto, che si lascia passare accanto gli eventi senza preoccuparsene molto.
Afuro Terumi è un idol emergente, ma già molto famoso, che nasconde il suo vero carattere.
Questa fic parla di come il loro incontro abbia modificato le loro vite, e di come la loro storia sia venuta ad intrecciarsi con quella dei loro amici.
Coppie: HerAfu, DemeKiri, ArteApo, vari ed eventuali.
{dedicata a ninjagirl, che mi ha fatto scoprire e amare queste pairings.}
~Roby
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Perché in ogni momento, il rosso e il viola sanno sempre trovarsi.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Afuro Terumi/Byron Love, Altri, Hera Tadashi, Jonas Demetrius/Demete Yutaka
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Buonasera :)
Questo capitolo affronta -e risolve-  la situazione di Artemis. Finalmente leggerete un po' di cose su di lui, che magari vi aiuteranno a capire meglio la sua personalità contorta e il motivo per cui si è innamorato di Hikaru. Anche Hikaru dovrà fare i conti con i propri sentimenti...
Beh, vi auguro buona lettura ;)
Baci,           
Roby

 


Capitolo 24.

Ogni mattina, sul levarsi del sole, percorreva quel percorso avanti e indietro. Contava i propri passi. 
Uno, due, tre.
Il rumore di un piatto rotto. 
Quattro, cinque, sei. 
La voce di sua sorella che cercava di calmarla.
Sette, otto, no…
-Mamma, ora basta! Smettila!- 
Saneki si fermò e spiò dalla porta. La mamma si era di nuovo arrabbiata, e stava dando di matto. Quando faceva così, lo spaventava davvero; eppure, non poteva fare a meno di volerla consolare, era tanto bella. Non appena lo vide, lei lanciò un urlo roco: -Tu… sporco bambino! Figlio di quella puttana…!- 
Poco dopo Saneki sentì il rumore dello schiaffo e una fitta di freddo dolore sulla guancia. 
Lei gli afferrò i capelli e cominciò a picchiarlo, ma lui non oppose resistenza né gemette. Sapeva che le dava fastidio sentire i suoi lamenti, perciò stava zitto. Sua sorella Ayaka intervenne per fermare la madre, che era sua madre ma non quella di Saneki. -Mamma, lascialo in pace!- gridò, trattenendole le braccia.
-Maledetto…! Figlio di puttana!-

Perdonami mamma, pensò Saneki e chiuse la porta. Perdonami se sono nato…

xxx

-Arute!-
Artemis si voltò di scatto e fissò perplesso la mano stretta intorno al suo polso. Poi alzò lo sguardo.
Il suo migliore amico aveva il fiato corto per aver corso. -Ma… ma che…- ansimò, poi deglutì e alzò la voce.
-Che cavolo ti è preso ieri?! Sei sparito all’improvviso!-
-Ah.- disse Artemis cupo. Sì, non era stato particolarmente corretto da parte sua, ma non aveva avuto il coraggio di rientrare con un volto incapace di sorridere.
Farsi vedere in quello stato da Hikaru era fuori discussione; avrebbe solo aumentato il disgusto che provava verso se stesso.
-Mi rispondi, o no?- disse Hera impaziente. Era stranamente agitato, rispetto a quella che era la sua indole.
Arute si sforzò di sorridere e si portò una mano alla nuca imbarazzato. -Ho avuto una chiamata urgente e sono dovuto andare. Mi dispiace.- Rise.
Tanto lo sapeva che Hera non se la sarebbe bevuta.
-Comunque ho saputo che hai vinto la scommessa. Bravo.- aggiunse.
-Sì, ho guadagnato un bel po’, oltre all’espressione sconfitta di Icarus.- ribatté Hera. 
I suoi occhi violetti cercavano di studiare Arute, che però evitava del tutto il contatto visivo. Rimasero in silenzio per alcuni minuti. 
-Tadashi… mi stai facendo male.- mormorò Arute, lo sguardo coperto dalla frangia.
Hera allentò poco a poco  la stretta intorno al suo braccio, fino a lasciarlo andare. Il braccio di Arute ricadde smorto al lato del corpo, e il ragazzo poggiò una mano sul punto lasciato caldo da Hera. -Scusami, ora devo andare.- disse e si voltò.
Hera non lo seguì; prevedibile. -A volte mi chiedo quale sia la vera maschera che indossi… ma tu cosa vuoi veramente?-
La voce di Hera lo raggiunse quando ormai era al cancello della scuola.
Arute sgranò gli occhi: inutile, Hera in un modo o nell’altro lo spiazzava sempre.
Sorrise. –Chissà…- mormorò, e se ne andò. La verità è che non lo sapeva più nemmeno lui.

xxx

Pioveva.
Era una sera fredda, così come fredda era la sensazione di solitudine che gli attanagliava lo stomaco. Era quasi certo di avere la febbre.
Ma per nulla al mondo sarebbe mancato al funerale della mamma.
Non sembrava neanche lei, avvolta in quell’elegante abito nero; era talmente magra che la sua pelle sembrava solo un velo sulle ossa scarne, così l’aveva ridotta la malattia.
Ayaka piangeva, avvolta in panni di seta nera. Saneki fissava il velo nero che le copriva il volto pallido, cercando di scorgerne l’antica bellezza.
La mamma non l’aveva nemmeno visto compiere dieci anni.
Suo nonno, che l’adorava nonostante fosse un figlio illegittimo, subito dopo che la malattia della nuora era peggiorata l’aveva nominato erede della famiglia, destinandolo così a diventare il prossimo capofamiglia: ruolo che gli sarebbe toccato senza scampo ai suoi sedici anni. Così, Saneki si era ritrovato immensamente ricco; con un minimo cenno poteva avere tutto ciò che desiderava...
Ma in quel momento, fissando il volto velato della sua matrigna, e con un fiore rosso stretto in mano, pensò che quello che voleva davvero non l’avrebbe mai avuto.

E quel fiore rosso sarebbe appassito sulla tomba.

xxx

Pioveva.
Quella pioggia gli lasciava l’amaro in bocca.
Aveva compiuto sedici anni, ora il suo destino era scritto.
Sarebbe diventato il prossimo capofamiglia, diventando disgustosamente ricco… già.
Arute si era sempre chiesto cosa se ne sarebbe fatto della ricchezza che il nonno gli lasciava, mentre cercava di ignorare le pesanti catene che lo legavano.
Sì, perché il bambino Saneki era ancora incatenato da qualche parte dentro la sua mente, prigioniero del suo destino. Non era cresciuto affatto, e ancora oggi desiderava capricciosamente di poter avere tutto ciò che voleva.
Il cuore di sua madre.
Dalla morte di lei, non aveva più provato nessuna ambizione, nessun desiderio. Neanche l’amicizia con Hera gli dava soddisfazione, perché non poteva averlo tutto per sé. Ormai se n’era convinto: lei gli aveva rubato l’anima. Eppure... Eppure le parole di uno stupido ragazzino l’avevano fatta tremare. 
Si infilò le mani nelle tasche fradice, e vi trovò pochi yen, sarebbero bastati. Compose il numero con una certa lentezza, quasi godendosi il contatto con ogni singolo tasto che costituiva il suo numero, come se stesse toccando la sua pelle, e poi si accostò la cornetta all’orecchio e aspettò.

-Pronto? Chi parla?- La voce dall’altra parte suonava incerta.
-Hikaru.-
L’indecisione nell’altro crebbe quando riconobbe Arute, sebbene in quella voce cupa non ci fosse nulla di familiare.
-Hikaru, usciresti con me?- chiese Arute, con tranquillità.
Sorrise; poteva quasi vedere Hikaru arrossire. -Manco morto!!- gridò infatti il ragazzino.
Arute fece finta di non aver sentito. –Domani mattina, verso mezzogiorno, ti aspetterò davanti al cancello di scuola.- disse, non gli lasciò il tempo di rispondere e attaccò.
Lasciò cadere le braccia smorte lungo i fianchi, mentre adocchiava la macchina nera parcheggiata all’angolo. Erano venuti già a prenderlo; che premurosi.
Tanto ormai la pioggia se l’era beccata tutta.

xxx

-Vieni avanti, Saneki.-
La voce di suo nonno, benché debole e secca, risuonò con forza nel buio della sua stanza, dove si era rinchiuso da quando aveva praticamente perso l’uso delle gambe.
Era ormai vecchio, il nonno, eppure aveva ancora una grande forza, una grande volontà.
Era merito suo se la famiglia andava avanti, dalla morte del figlio, che gli aveva lasciato un moglie pazza, una figlia e un figlio illegittimo. E della sua amante, nessuna traccia.
Il nonno aveva pagato la madre di Arute per sparire e lei l’aveva fatto; ecco perché per Saneki c’era stata un’unica mamma, la sua adorata mamma.
Come avrebbe voluto essere davvero suo figlio.
Per lei, da piccolo, era stato pronto ad annullare se stesso. Si era ucciso tante, tante volte, per farla contenta, ma non era bastato. Il pensiero gli strinse il cuore.
-Saneki, vieni.-
Arute si convinse ad avanzare, pur brancolando nel buio. Nonostante fosse mattina presto, la luce non penetrava in quella stanza.
Poteva intravedere a malapena i contorni del futon in cui il nonno era seduto nella posizione del Buddha, perciò seguì più che altro la sua voce.
-Tu sai perché sei qui.-
-Sì.- parlò, con enorme sforzo fece uscire la voce. –Lo so.-
-Siediti.-
-No.-
Arute si concesse alcuni minuti per far vagare lo sguardo nella stanza. Di tanto in tanto la pioggia tornava a battere contro la finestra, un po’ più forte. Sperava che avrebbe finito di piovere per il suo appuntamento con Hikaru… sempre ammesso che sarebbe venuto, cosa assolutamente non prevedibile.
-Saneki.-
-No.- Lo disse a voce così alta che se ne sorprese lui stesso. Non credeva che avrebbe mai trovato la forza di dire quella semplice parola. Con un gesto rapidissimo tese la mano verso l’interruttore della luce. Il buio si dissolse; entrambi dovettero sbattere più volte le palpebre per abituarsi. Da quanto la luce non entrava in quella casa? 
Il nonno lo guardava indecifrabilmente. -Cosa ti succede, Saneki?- disse calmo. -Non hai gli stessi occhi di una volta. Vuoi forse sfidarmi?-
Arute strinse i pugni. Ce l’avrebbe fatta? Le parole di Hikaru risuonavano nella sua testa per dargli coraggio.
Già… era così semplice: bastava essere se stessi.
-Non fuggirò più. Non voglio più fuggire.- disse. 
Chiuse gli occhi, incapace di reggere il confronto con le iridi grigie e penetranti di suo nonno.
Credeva di amarlo… Chissà da quando aveva iniziato a temerlo così. 
In realtà, le sue convinzioni avevano già cominciato a vacillare quando aveva conosciuto Hera, il ragazzo che combatteva contro la sua vita disastrata con la tristezza nello sguardo... E quando si era dichiarato a Hikaru aveva preso una definitiva decisione.
-Decido io della mia vita! Decido io chi sono! Io… voglio diventare più forte.- Non si accorse di star urlando finché non pronunciò l'ultima parola.

Voglio essere libero. Voglio essere libero. Voglio essere libero. Voglio provare a far fiorire di nuovo quel fiore abbandonato. E poi finalmente… sarò libero da lei.

Rimase in silenzio, ad occhi chiusi, tremante.
La risata di suo nonno fu profonda, roca, con una nota di divertimento che non sfuggì al nipote. Arute aprì gli occhi e lo fissò incredulo, ma il nonno non smise per questo di ridere, anzi suonò sempre più rallegrato dalla situazione. -Finalmente ti vedo tirare fuori un po’ di carattere, Saneki.- disse ghignando, il ghigno di un vecchio bastardo.
-Da quando eri piccolo dici sempre di sì, ad occhi bassi. Mi facevi pena. Avevi paura di alzarti contro il mondo, vero, Saneki? Avevi paura che tutti vedessero i lividi che lei ti lasciava…-Arute distolse lo sguardo di scatto, irritato, e un ringhio gli vibrò in gola.
-Non parlare male di lei. Ero io quello in torto.-
Il nonno incrociò le braccia ossute e alzò un folto sopracciglio.
-In torto di essere nato? Ecco, proprio questo tuo atteggiamento mi faceva pena. Eri patetico. Sei patetico. Tu non hai la forza di sfidare il tuo destino.-

-Però, io…- borbottò Arute, mordendosi il labbro inferiore.
-Tuttavia- lo interruppe il nonno. –Tuttavia, lo stai facendo lo stesso.- Arute lo guardò sorpreso, e lui sorrise di nuovo. 
-Oggi, quando sei entrato, per la prima volta mi hai guardato negli occhi, persino con sfida. Il tuo rifiuto verso di me significa guerra.- disse serio. -Ora hai qualcosa che vuoi a tutti i costi, vero? Lo leggo nei tuoi occhi. Hai di nuovo qualcosa per cui sei disposto a lottare, qualcosa che ti ha dato la forza che ti manca.-
Le sue iridi grigie lo scrutavano, cercando di leggergli dentro.
Arute rabbrividì, ma non si mosse né abbassò il proprio sguardo.
-Hai ragione.- ammise, accennando un sorriso. –E stavolta mi prenderò quel che voglio.-
Quel vecchio bastardo, affezionato a suo nipote... L’aveva sempre protetto e anche ora che erano in guerra lo trattava con rispetto.
-La mia porta è sempre aperta, Saneki.- Il nonno sorrise e le rughe sulla sua fronte si distesero. Arute si sedette sul suo futon e lo abbracciò forte, sentendosi tornare bambino.
-Sono felice che tu sia nato, Saneki.-
-Grazie.- rispose lui. Si sentiva più fragile di quel vecchietto. –Grazie.-
Il nonno lo staccò da sé, ricomponendosi. -Ora vattene. E spegni la luce, che ti è saltato in testa?-  disse torvo.
Arute sorrise e gli obbedì, uscendo dalla stanza tornata nel buio. Ma lui non era più costretto a tornare nel buio, perché ormai apparteneva al mondo di fuori.
Si era liberato delle catene, ma sapeva che il suo cuore era ancora prigioniero di lei, ancora coperto da un velo nero. Non era riuscito neanche a versare lacrime, il giorno del funerale. Non era mai riuscito a farsi perdonare da lei. Lo sconforto lo prese di nuovo; come poteva ottenere l’amore di Hikaru se non aveva prima quello di lei?
-Saneki.-
Si voltò, e per un momento gli sembrò di vedere lei. Capelli sciolti e bruni, occhi distanti... le somigliava tantissimo.
-Ayaka…- La figlia di lei. Sua sorella.
-Saneki… non vuoi conoscere le ultime parole della mamma?-

 xxx

I divani sono davvero un dono del cielo, questo pensava Hikaru mentre si rannicchiava su di esso. Schiacciato fra i cuscini, al caldo, fissava la tv in cerca di programmi decenti. In realtà, qualunque programma non gli sarebbe interessato, fosse stato sulla fisica quantistica o su Corto Maltese, perché la sua mente era distratta. Sua madre l’aveva definito “svagato” un bel po’ di volte, quella mattina.
Ed era vero, si sentiva svagato.
Nella sua testa c’era solo la telefonata di Arute, risalente alla sera prima. Non l’aveva riconosciuto subito, aveva una voce strana, e poi di sottofondo si sentiva lo scrosciare forte della pioggia. Per un momento l’immagine di Arute, in piedi sotto l’acqua, gli era balenata in testa. Non poteva fare a meno di essere preoccupato per quella testa di rapa, specie dopo che gli aveva dichiarato il suo amore tanto appassionatamente. No, no, non ci doveva pensare, sennò sarebbe arrossito di nuovo... Dannato Arute, era veramente scorretto da parte sua fargli una telefonata del genere, e poi inventarsi un appuntamento dal nulla e pretendere che lui ci andasse…!
“Non ci vado. Non mi interessa. Non ci vado.” Pensò testardo, stringendo a sé un cuscino. “Quello poi magari è capace di non venire. E poi mi prende in giro a vita. Ma io tanto non ci vado...”
Aveva preso una decisione, allora perché si sentiva tremendamente in colpa?
-Hikaru!- Sua madre urlò, facendolo sobbalzare.
-Che c’èèèèèè?-
-La posta elettronica si è bloccataaaaa!-
Sua madre e la tecnologia: roba da non mettere mai insieme. 
Si alzò e andò nella camera dove sua madre stava litigando con il computer. 
Una vasta schermata bianca ricopriva gran parte dello schermo, e in basso ogni tanto lampeggiava la scritta “Cancellare mail.”
-Tranquilla, ma’, è solo intasata.- disse. La donna gli cedette il posto davanti allo schermo e si mise le mani sui fianchi.
-Te ne occupi tu, okay? Ora devo andare a prendere la tua sorellina a danza.-
Hikaru annuì. -Sì, ma’, vai a prendere Hime, qui ci penso io.- la rassicurò. Mentre lei usciva, trafelata, Hikaru tornò a guardare lo schermo. Cliccò due volte sulla casella mail e capì subito perché si era intasata: c’erano circa cinquecento mail non aperte, in attesa di essere cancellate. Le selezionò tutte e le cancellò dalla memoria, e il computer ripartì regolarmente.
-Semplice.- disse soddisfatto. Ora che ci pensava era da un po’ che non apriva la propria mail. Cliccò di nuovo sull’icona, selezionò il cambio di utente e inserì la propria password; dopo alcuni secondi la sua casella mail si aprì, e trovò la casella piena di pubblicità di vari siti. Con un sospiro cancellò tutto, ma anche così segnava ancora dieci mail restanti.
“Wow, sono di un botto di tempo fa.” Si sorprese leggendo le date, poi i suoi occhi corsero sull’indirizzo mittente, che non conosceva.
Il cuore cominciò a battergli forte, senza che sapesse il perché.
Le dieci mail erano tutte uguali, tutte con lo stesso oggetto, tutte dallo stesso mittente…
E tutte contenevano solo una scritta, il suo nome.
Fu allora che Hikaru ricordò la sfida che Demete aveva proposto ad Arute, durante lo stupido gioco fatto durante l'estate.
-.. le ha inviate tutte a me…?-
Cazzo, meno male che non c’era nessuno in casa a parte lui… perché era arrossito di brutto e stava anche piangendo.
Spense il computer, si vestì in fretta e uscì di casa correndo.
Il “ti amo” di Arute gli rimbombava in testa, con sempre maggiore prepotenza; tanto che ormai Hikaru sapeva di non poter più mentire a se stesso: i sentimenti che provava per Arute, rinchiusi da qualche parte dentro di lui fin dal giorno in cui aveva deciso di odiarlo a vita, traboccavano. Pensava di essere l’unico a soffrire, prima, perciò non voleva interessarsi; invece, ora che si rendeva conto che Arute l’aveva sempre protetto, cominciava a farsi sempre più domande su di lui: quanto forte era il dolore di Arute? Perché stava nella pioggia tutto solo? Stava piangendo, e per cosa? Perché si era innamorato di lui a tal punto, perché le sue stupide e infantili parole l’avevano colpito tanto?
Il cancello della scuola era desolato, il cortile vuoto. La scuola era così triste di domenica quando non c’era nessuno.
Hikaru si fermò per riprendere fiato, e si guardò intorno. 
Era quasi mezzogiorno.
Arute stava appoggiato vicino al muro di fronte, con le braccia incrociate dietro la schiena, e la maschera sul volto. Hikaru rimase un attimo senza fiato, soffocato dal battito del proprio cuore, quindi deglutì e con coraggio si avvicinò. -Arute!- esclamò.
Il ragazzo si mosse lievemente. -Oh, Hikaru.- disse sorpreso. –Credevo che non saresti venuto. Invece sei addirittura puntuale!-
Hikaru arrossì, ma decise di ignorare la provocazione. Sbirciò di sottecchi il ragazzo e domandò:- È… è tutto a posto?-
Arute non rispose subito.
-Sì- disse, infine. Ma Hikaru non gli credette; forse fu l'esitazione prima della risposta, a farlo dubitare che fosse la verità. O forse era quella dannata maschera dietro cui Arute si stava nascondendo.
-Togli la maschera.- ordinò serio.
Arute esitò di nuovo. -…no.-
- Ho detto, toglila!- insistette Hikaru, tendendo le mani verso il suo volto per sfilargliela. Arute arretrò, ma si trovava letteralmente spalle al muro.
-No!- ribatté, a voce più alta, ma cupa. Hikaru s’irritò, e saltando riuscì ad afferrare la maschera bianca e gliela tolse con un unico, fluido movimento. Non appena lo fece, gocce d’acqua gli caddero sul viso. Hikaru alzò lo sguardo, e per le sorpresa lasciò cadere a terra la maschera.
Arute non cercò neanche di coprirsi il volto solcato dalle lacrime; era la prima volta che piangeva davanti a qualcuno, che qualcuno lo vedeva davvero superando la maschera.
-Avevo deciso… di non piangere mai.- disse, con un leggero sorriso. –Che stupido…-
Si abbassò e le sue braccia cercarono il minuto corpo di Hikaru, per nascondersi nel suo calore. Il ragazzino lo lasciò fare, anzi lo strinse a sé.
-Già… sei proprio stupido.-
E poi Arute gli raccontò tutto.
Raccontò a Hikaru del suo passato, della mamma e del nonno e di Ayaka, e del suo destino già scritto, e dell’incontro con il suo unico vero amico, e di come si sentiva solo e vuoto.
-Ayaka mi ha detto che lei mi voleva bene, ma fino alla fine non è riuscita a dirmelo- confessò, mentre si torturava i capelli con le dita, un po' felice e un po' imbarazzato e innocente come un bambino.
Hikaru lo ascoltava in silenzio, con la mano stretta nella sua mentre camminavano avanti e indietro lungo il viale; nonostante avvertisse il sangue accalorargli le guance ogni volta che Arute gli sorrideva dolcemente, Hikaru non distolse mai lo sguardo. Quando Arute smise di parlare, era passata ora di pranzo e soffiava un vento leggero, che con la sua voce riempiva il silenzio.
-Hikaru...- mormorò Arute, si chinò verso di lui e lo baciò. Il calore delle labbra che si posavano sulle sue, pensò Hikaru, non era nulla in confronto alla dolcezza con cui Arute pronunciava il suo nome. Non se ne era mai reso conto, ma era come una carezza leggera. 
Poi Arute si staccò e posò la fronte contro la sua, respirando piano.
-Hikaru, lo dirò un'altra volta... Io ti amo- sussurrò. -Questo è ciò che voglio... Ti resterò sempre accanto, se lo vorrai anche tu.-
Hikaru sentì qualcosa scoppiargli dentro e serrargli la gola e d'un tratto non ce la faceva più. Non aveva mai voluto niente come voleva Arute, possibile che quell'idiota ancora non lo capiva?
-Oh, stai un po’ zitto- bofonchiò, nervoso. Gli prese il viso tra le mani e gli diede un altro bacio, dal quale riemersero senza fiato. Arute lo guardava adorante, quasi con venerazione: per una volta era lui ad essere arrossito.
-Hikaru?-
-Zitto e baciami, stupido.-




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