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Autore: Mary P_Stark    17/05/2013    4 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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17.

 
 
 
 
 
 
 


 

Sangue caldo e denso mi avvolgeva il viso, le mani, il corpo. Era come una coperta soffocante e intrisa di dolore.
La mia lingua lo assaggiò e, dalla mia bocca spalancata, eruppe un grido.
Quel grido perforò le mie orecchie, straziò i miei polmoni, divorò la mia anima.
E mi svegliai.
Ansante, spaventata, depressa, desiderosa solo di raggomitolarmi su me stessa e piangere fino a morire, mi rannicchiai sul lettino dove mi trovavo e singhiozzai. Le mani erano ancora bloccate da gleipnir, e l’ago di una flebo era infilato nella piega del gomito.
Le sacche trasparenti di soluzione fisiologica, che mi somministravano ogni poche ore, contenevano il quantitativo minimo necessario per farmi sopravvivere.
Assieme a liquidi e zuccheri, era presente anche una dose sufficiente di aconito, che manteneva intorpiditi i miei sensi e l’anima di Fenrir.
Cosa temessero da quell’anima, dovevo ancora capirlo.
In ogni caso, l’aconito mi stava indebolendo a ogni ora che passavo sotto il suo influsso.
La porta di ferro della mia cuccetta-prigione si aprì con uno stridio di cardini e ruggine, sfregati con malagrazia.
Scostando un poco il viso dal cuscino per scrutare il bagliore di luce penetrare temporaneamente nella stanzetta buia, mormorai roca: “Ah… sei tu.”
Alfgar. O come diavolo si chiamava.
Era l’unico berserkr che avevo visto, da quando mi ero risvegliata sulla nave cargo, su cui ero stata forzatamente imbarcata.
Non era stato mai violento con me, né mi aveva percossa, ma era evidente che non si sarebbe mosso a pietà decidendo di salvarmi.
Non ce l’aveva direttamente con me, ma con Fenrir.
Il fatto che io fossi il suo involucro di carne umana, contava poco per lui. Gli spiaceva, forse, ma non così tanto da impedire la mia condanna.
Di qualsiasi genere di condanna si trattasse.
Mi scrutò con i suoi chiari occhi di gelido ghiaccio siberiano prima di chiedermi: “Un incubo?”
Annuii, sospirando, e biascicai: “Brutti ricordi.”
Alfgar si appoggiò al tavolino sul fondo della stanza, le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans ed io, mossa dalla mia insaziabile curiosità, gli domandai: “Fitzroy… lo avete ucciso voi? Eravate in combutta con lui?”
Si accigliò leggermente al suono di quel nome, e rispose alla mia domanda con un altro quesito.
“Era questo il tuo incubo? La morte del ragazzo che ha ucciso Fitzroy?”
Quindi, era stato veramente lui.
Averne la conferma non mi fece stare meglio.
Non seppi neppure dire quale esatta reazione ebbe il mio cervello, a quella notizia, visto quanto era intorpidito dall’aconito.
Sentii solo altre calde lacrime scendere lungo il viso, silenziose come la morte cui avevo assistito e di cui ero stata causa.
“Fitzroy è morto per quello che ha fatto” mi confessò a sorpresa Alfgar, senza alcuna inflessione nella voce.
Fu come se avesse parlato del tempo, o del risultato di una partita di calcio.
Non gli interessava minimamente che il suo compagno licantropo fosse morto.
“Non. Capisco” riuscii a scandire, nonostante mi sentissi debole come un pulcino.
“Nessun innocente avrebbe dovuto morire durante la nostra caccia. Lui era stato avvertito.  Avrebbe avuto la sua vendetta su di te solo a queste condizioni, ma si è fatto accecare dall’ira e ha commesso un errore che gli è costato la vita” mi spiegò Alfgar, sempre con il suo tono piano.
“Perché non mi avete cercata voi fin da subito, allora?” gli chiesi a quel punto, sempre più confusa.
Perché nascondersi nell’ombra?
“Il nostro odore così insolito vi avrebbe messi in allarme. Non volevamo scoprire le nostre carte prima del tempo. Avvicinarsi a te non è facile, Prima Lupa. A Londra, troppi alfa controllavano ogni tuo passo e sarebbe stato impossibile, per creature come noi, giungere a te senza destare sospetti. Il vostro fiuto è molto più sviluppato del nostro, e i lupi del clan londinese avrebbero captato subito una presenza estranea sul loro territorio. Pur non conoscendone la natura, si sarebbero insospettiti. Così, abbiamo preferito affidarci a Fitzroy, che avrebbe potuto muoversi più agevolmente senza essere notato” ammise Alfgar, intrecciando le gambe con fare disinvolto.
Sospirando, annuii e dissi: “Joshua non ha problemi nell’accettare sul suo territorio lupi nomadi. Vi siete informati bene.”
“Abbastanza” annuì a sua volta Alfgar, con un leggero ghigno.
“Quindi, lui doveva portarmi da voi, giusto?” Non avrebbe cambiato la mia situazione, ma volevo sapere.
“Esatto. Ma è evidente che ci siamo affidati alla persona sbagliata” commentò aspro Alfgar. “Lo avevamo avvertito che, se avesse commesso un altro errore dopo la tua aggressione al pub, l’avrebbe pagata cara ma, a quanto pare, il suo desiderio di vendetta si è rivelato più forte rispetto alla paura scatenata dalle nostre minacce.”
“Mai far fare ad altri ciò che si potrebbe fare da soli” chiosai, chiudendo gli occhi.
Ero troppo stanca per sostenere il suo sguardo.
“Lo abbiamo notato. Così, abbiamo deciso di muoverci in prima persona. Abbiamo allontanato con l’inganno il tuo compagno, così che lui e il suo lupo più forte non fossero presenti per aiutarti, e ci siamo mossi contro di voi. Spero non ne avrai a male per la fine che hanno fatto i tuoi lupi sul confine” mi spiegò, attirando la mia attenzione.
Spalancai gli occhi, sorpresa e inorridita, ed esalai: “Non avrete… le mie sentinelle!”
“Si sono battute bene, ma erano troppo poche e, contro i berserkir scatenati in battaglia, esistono pochissime possibilità di sopravvivenza, se non si è preparati. Di fronte alla berserksgangr scatenata, esistono ben poche armi” asserì Alfgar, con un tono neutro della voce.
Non si stava vantando. Ne parlava come se fosse un dato di fatto. E forse era così.
“Cosa… che diavolo è la cosa di cui hai parlato?” chiesi, stringendo i denti per non dire cose di cui, forse, mi sarei pentita in un secondo momento.
“La berserksgangr è lo stato di furia dei berserkir. E’ ciò che ci rende invincibili in battaglia” mi spiegò Alfgar. “Per questo ti dico; i tuoi lupi hanno dimostrato coraggio e sprezzo del pericolo, ma non avevano scampo alcuno.”
Strinsi le palpebre, desiderosa di urlare tutto il dolore che stava crescendo dentro di me, come un’esplosione di magma all’interno di un vulcano, ma mi limitai a dire soltanto: “Vattene. Per favore.”
Non avevo neppure la forza di gridare il mio tormento e il mio strazio, per la fine che avevano fatto i miei valenti lupi, e tutto per colpa dell’aconito che mi stavano dando per tenermi buona.
Li odiai con tutta me stessa, per questo.
Alfgar non disse nulla, limitandosi a uscire dalla cuccetta.
Rimasta sola con la consapevolezza di avere altre morti sulla coscienza, piansi in silenzio al pensiero di Jessie, Albert, Stephenie e i tanti altri lupi che avevo inviato sul confine per proteggere il clan.
Ripensai alla prima volta in cui avevo conosciuto Jessie, sia in forma animale che umana, e il mio cuore si spezzò.
Rividi nella mente il volto sereno e indomito di Albert, uno dei più potenti alfa del branco, e le mie mani tremarono al ricordo della sua stretta possente e fiera.
E Stephanie, la dolce, caparbia lupa che si era offerta volontaria per controllare il lato nord della contea di Matlock.
Ventitré inverni, nulla più. E i berserkir, forse, l’avevano spazzata via come un colpo di spugna su una lavagna.
Gilbert, Hugh, Marlon, Gwenevère, Sam, Joseline.
Tutti i loro nomi mi balenarono nella mente come tanti flash confusi.
Non sapevo chi di loro era sopravvissuto al passaggio dei berserkir, e chi fosse rimasto vittima sul campo, ma il pianto e la disperazione vennero per ognuno di loro, finché il sonno e la stanchezza non mi strapparono all’angoscia.

***

Il suono della sirena della nave mi destò di colpo, liberandomi dal sonno privo di sogni in cui ero caduta dopo la scoperta della morte di alcune delle mie sentinelle.
Forse, non avrei mai saputo chi avevo perso, e solo questo mi bastava per avere il cuore pesante e afflitto.
Sapere che Duncan si era trovato lontano dai luoghi della battaglia, non bastava a rendermi speranzosa.
Alfgar aveva detto di aver attirato Duncan e Lance lontano da me con l’inganno.
Possibile che la disputa che si era accesa tra alcuni lupi, e che aveva richiesto la presenta del loro Fenrir, fosse stata orchestrata da loro? O da colui che attendeva il mio arrivo?
Chi avevo di fronte? Cos’altro poteva fare?
Rabbrividii, provando istintiva e spontanea paura e, rattrappendomi sotto le coperte di lana grezza, ascoltai intorpidita le gocce della soluzione fisiologica scendere a un ritmo cadenzato e costante.
Non potevo nulla, in quelle condizioni, e contro un nemico così potente.
Era davvero la fine, questa volta.
Non avrei mai più rivisto Duncan, o Gordon, o Mary B. I miei lupi! Elspeth! Nessuno di loro avrebbe più sfiorato il mio sguardo!
“Avrai presto compagnia, Leon” sussurrai, prima di sentire i passi ormai familiari di Alfgar lungo il corridoio.
Alcuni attimi dopo entrò, armato di bracciate di abiti pesanti e già vestito egli stesso per affrontare un clima rigido.
Sorpresa, lo guardai avvicinarsi a me prima di sentirgli dire: “Scendiamo. E’ ora di raggiungere il luogo in cui, finalmente, riceverai la tua degna punizione.”
Lo lasciai fare – ero più debole di un pulcino appena nato e, alla minima resistenza, mi avrebbe sicuramente malmenata.
Sollevandomi a sedere, mi liberò della flebo e dei lacci di gleipnir ai polsi, infilandomi subito dopo la pensante giacca a vento della Napapiri che mi aveva portato.
Fatto ciò, rimise a posto il laccio costrittivo mentre io lo fissavo vacua, stordita dall’aconito e resa debole dalla mancanza di cibo solido.
Lui si limitò a togliermi le scarpe da ginnastica – non le avevo volute togliere perché avevo avuto freddo ai piedi – per poi farmi indossare sopra i pantaloni un pesante paio di brache imbottite, come usano gli sciatori.
Da ultimo, infilò ai miei piedi due pesanti scarponi da trekking e, alla fine, disse: “Andiamo. La via è lunga e l’aria è fredda. Il viaggio non sarà di certo agevole, e tu devi arrivare viva.”
Annuii e mi lasciai aiutare a mettermi in piedi, prima di procedere verso la porta.
“Quanto è freddo, là fuori?” gli domandai con voce roca.
“Staresti meglio come lupo, questo è sicuro” replicò solamente Alfgar, sospingendomi senza eccessiva forza.
Lo osservai assorta mentre apriva la pesante porta di ferro e, come mio solito, svoltai verso destra – ormai avevo imparato a memoria quel tratto di corridoio, in quei giorni.
Mi diressi con passo strascicato verso il ponte, sperando di non trovare la Siberia ad attendermi.
Non avevo ben chiaro quanto tempo fosse passato – quattro, cinque, sei giorni, chi poteva dirlo? – perché l’aconito aveva reso le mie percezioni davvero confuse e poco affidabili.
Alfgar non aveva certo aiutato, in questo, dandomi risposte vaghe e, a volte, non rispondendomi affatto.
Di lui, sapevo solo che era educato e non violento ma che, all’occorrenza, mi avrebbe steso con un pugno, se mi fossi ribellata a lui in qualche modo.
Non era un tipo con cui si potesse scendere a patti.
Sarebbe stato gentile con me finché io mi fossi comportata bene, altrimenti me l’avrebbe fatta pagare cara.
Dovevo arrivare viva ovunque lui mi dovesse portare, ma non aveva specificato in che condizioni di salute.
Quindi, meglio non farlo innervosire.
Inoltre, che mai avrei potuto fare, coi poteri ridotti a zero, indebolita dalla mancanza di cibo, da sola e in un luogo che non conoscevo?
Nulla.
Raggiunsi perciò il portellone che sbucava sul ponte della nave.
Dopo aver aspettato in silenzio che Alfgar calasse per me la leva che la teneva chiusa, uscii all’aperto e inspirai l’aria più fredda e secca che avessi mai sentito in vita mia.
Sgranando gli occhi, vidi di fronte a me un piccolo paesino immerso in un paesaggio lunare, con alti picchi innevati all’orizzonte e una luce fin troppo vivida per i miei occhi abituati da giorni alla penombra.
L’agglomerato urbano non sembrava essere molto esteso, e anche il porto dove eravamo arrivati ne rispecchiava le dimensioni ridotte.
Al suono cupo e profondo della sirena della nave, gru e uomini a bordo cominciarono a muoversi sul ponte per dare inizio allo scarico delle merci.
Sul molo, gli operai portuali erano già in posizione per spostare con i carri-ponti gli enormi container.
Quando le gigantesche strutture metalliche cominciarono a muoversi, con il loro stridore di cavi e di olio idraulico spinto a forza dalle pompe all’interno dei tubi, capii che quel cargo non era stato solo il nostro veicolo per raggiungere quello strano posto.
Si trattava davvero di un bastimento carico di merce.
“Pensavi di essere l’unica mercanzia a bordo?” mi irrise bonariamente Alfgar, sospingendomi perché scendessi le scale di metallo per raggiungere il ponte dabbasso.
Io e la mia faccia di cristallo!
Sbuffai infastidita, replicando: “Si può sapere dove siamo? Nel paese di Babbo Natale?”
“Siamo a Longyearbyen”  mi spiegò succintamente, prima di chiedermi “Hai freddo alle mani? Vuoi che ti metta i guanti?”
“Sarà meglio, o perderò le dita” mugugnai contrariata. “Dove sarebbe il posto che hai citato? Russia? Norvegia?”
“Svalbard” precisò Alfgar, infilandomi due pesanti manopole nere, come il resto degli abiti che mi aveva fatto mettere.
Ora, sembravo un enorme omino Michelin in versione dark.
Lo fissai per alcuni attimi, come per sincerarmi che non mi stesse prendendo in giro ma, nulla notando sul suo viso ermetico e bellissimo, sospirai afflitta e borbottai: “Andiamo bene. Non mi troveranno mai.”
“Perché? Pensavi potesse arrivare la cavalleria?” ridacchiò Alfgar, mentre un gruppo di una quindicina di uomini si avvicinava a noi.
Tutti indossavano abiti adatti al clima e, come potei notare con un certo disagio, erano tutti grossi come montagne.
Avevano un’aria così arcigna che persino Rambo avrebbe chinato la testa senza dire bau.
Mi rattrappii, quasi che da loro provenisse una minaccia fisica immediata ma Alfgar, chetando subito i miei timori, dichiarò: “Non ti uccideranno, se è quello che temi. Sono solo qui per scortarti al tuo luogo di … riposo eterno.”
“Oh, molto meglio di quel che avevo pensato io” brontolai, lanciando uno sguardo distratto alle casse che venivano calate fino alla banchina del porto.
Forse, avrei potuto lanciare un classico urlo da film, e attirare l’attenzione dei portuali perché mi liberassero dalla scomoda presenza dei berserkir.
Ma poi?
Come minimo, parlavano tutti russo, quindi non avrei neppure potuto spiegare loro cosa mi stesse succedendo.
Inoltre, se i berserkir avessero attaccato quegli uomini pur di non farmi scappare, in barba ai loro propositi di non uccidere innocenti?
No, non potevo di certo rischiare.
Sarebbe stato un bagno di sangue, e non volevo anche le loro vite, sulla coscienza.
Quando mi trovai a terra, perciò, rimasi in silenzio, camminando al fianco di Alfgar.
Cercai di non incrociare lo sguardo di quei curiosi che si stavano sicuramente chiedendo come mai, un gruppo di turisti – perché tali sembravamo – fosse sbarcato da una nave cargo.
Nessuno, comunque, ci disturbò. Sicuramente la stazza dei miei accompagnatori dissuase i più.
In ogni caso, i portuali avevano il loro lavoro da svolgere e non potevano perder tempo a chetare le loro curiosità innocenti.
Io mi limitai a non rimanere indietro, così da non dare occasione alcuna a nessuno di loro di darmi spintoni, o ingiuriarmi in qualche modo.
Non avevo voglia di discutere e, tanto meno, di essere usata come sacco da pugilato da quelle montagne umane.
Camminando a passo spedito, uscimmo dal porto schivando carrelli elevatori e trans pallet, raggiungendo infine un parcheggio isolato.
Lì, trovammo ad attenderci un paio di Land Rover, con tanto di appendici attaccate al gancio di traino.
Cosa vi fosse all’interno, lo ignoravo, ma le slitte montate sui tettucci delle Rover non lasciavano ben sperare.
Attraversammo in fila indiana la piccola cittadina, dove alcuni veri turisti stavano scrutando curiosi le vetrine di un negozio.
Forse, erano indecisi se acquistare o meno qualche gadget del posto, oppure erano semplicemente attirati dai colori sgargianti della merce.
Li osservai con un nodo allo stomaco, desiderosa di gridare e di mettermi a piangere ma, al tempo stesso, vogliosa di liberarmi e di uccidere tutti.
Non ero sicura se fosse un effetto collaterale dell’aconito, o se fossi proprio io a voler così tante cose contemporaneamente.
In ogni caso, mi sentivo da schifo.
Dopo aver lasciato alle nostre spalle il piccolo paesino costiero delle Svalbard, ci immergemmo nella natura selvaggia e aspra dell’isola, prendendo uno sterrato che poco assomigliava a una strada, e molto di più a un tratturo di capre di montagna.
La Rover cominciò a sobbalzare furiosamente sul permafrost duro e compatto e le pietre modellate dal gelo, che affioravano dal terreno brullo color seppia e verde oliva.
Stringendo i denti per non sentirli sbattere furiosamente tra loro, lanciai un’occhiata malevola al mio autista, prima di scrutare allarmata il computer di bordo.
Sul piccolo visore a cristalli liquidi, oltre a comparire il giorno e l’ora – era davvero passato così tanto tempo?! – notai con sgomento anche la temperatura esterna che, di miglio in miglio, si abbassò gradatamente fino a raggiungere i meno otto gradi Celsius.
Per il mio termometro biologico faceva già troppo freddo, soprattutto considerando che era estate.
Ma lì, incuneati tra quelle alte montagne seghettate, che si facevano sempre più vicine e minacciose, mi chiesi se le normali leggi della natura avessero qualche valore.
Tutto sembrava immerso in un luogo senza spazio né tempo, e ogni cosa pareva essere stata strappata dai miei incubi per poi prendere vita.
Turbata, mi domandai dove si trovasse il luogo in cui intendevano portarmi e se, per arrivarvi, avrei dovuto scalare quei mostri che scorgevo dinanzi a me, ritti e fieri in lontananza e inquietanti a vedersi.
Ero brava, negli sport, ma non così tanto.
Tra i miei sospiri e il rollio tremendo dell’auto, procedemmo in mezzo alla tundra e al ghiaccio per almeno due ore abbondanti.
Due ore in cui nessuno, in auto, emise fiato alcuno, in cui nessuno dei berserkir presenti si lasciò sfuggire un indizio di cosa mi stesse aspettando.
Era evidente che il momento delle parole era passato.
Neppure Alfgar desiderava fare conversazione.
Io, di certo, non ero così disperata da volere qualcosa da loro, foss’anche una parola.
Ma quel silenzio di tomba, unito all’ambiente spettrale, non mi aiutò a rilassarmi e, almeno per me, quelle due ore passate in auto furono peggio di una tortura.
Quando, alla fine, scorsi un gruppetto di tende dai colori sgargianti in mezzo a quella distesa di nulla e di bianco che ci circondava, mi chiesi fuggevolmente se quel terribile viaggio fosse infine giunto al termine.
Trovai comunque piuttosto strano che il tutto si risolvesse in un accampamento di fortuna.
No. Non era ancora giunta la mia ora.
Le Rover si fermarono in prossimità di quel campo improvvisato, dove due mute di cani già ben impastoiati non attendevano altro che di essere legati alle slitte che si trovavano sopra le nostre teste.
Scesi a fatica – aprire la portiera con le manopole e le mani legate non fu facile.
Alfgar, subito al mio fianco, mi trascinò quasi di peso verso la prima delle due slitte, già tolta dall’auto dai suoi sottoposti.
Torvo, mi disse: “Adesso, ci aspetta una bella gita tra i ghiacci per raggiungere il lago Ámsvartnir. Spero che la scampagnata sarà di tuo gradimento.”
“Mai stata su una slitta” replicai acida, scrutando gli Alaskan Husky che mi abbaiarono contro, in segno di riconoscimento.
Sorrisi per un momento nel vederli scodinzolare allegri e Alfgar, facendomi sedere tra le coltri di pelliccia della slitta – fortunatamente, non di lupo –, sogghignò e celiò: “Tra cani, ci si intende.”
Lo fissai malissimo – ormai, quell’epiteto dava fastidio anche a me – e sibilai rigida: “Tieni certi commenti per te. Penso di essere già abbastanza nervosa per i fatti miei, senza dover sopportare anche la tua ironia di bassa lega.”
Lui si limitò a ridere in quel modo fastidioso che avevo ormai imparato a conoscere.
Un attimo dopo, giusto per coronare in bellezza quel momento, anche gli altri berserkir risero di gusto, guardandomi divertiti e sì, bramosi di vedermi ricevere il castigo divino.
Passandomi le mani inguantate sul viso pallido e teso, la mia capacità di sopportazione ormai ridotta al lumicino, sospirai e sussurrai tra me: “Perdonami, Duncan. Perdonami. Perdonatemi tutti.”
Sapevo che la mia morte, o qualsiasi altra cosa mi attendesse sulle rive del lago nominato da Alfgar, avrebbe lasciato strascichi pesanti sulle vite dei miei cari.
Avevo comunque dovuto allontanarmi dal clan per salvarli tutti o, per raggiungere me, avrebbero continuato a uccidere. E io non lo volevo.
Anche se quel viaggio verso l’inferno stava diventando veramente insopportabile.
Speravo solo che la mia preghiera potesse in qualche modo raggiungere il cuore di Duncan, e rassicurarlo.
Non ci speravo molto, in ogni caso.
Osservai solo distrattamente la mutazione di alcuni dei berserkir in uomini-orso – ormai non badavo più a certi spettacoli.
Mentre loro cominciavano a correre sulla neve, allontanandosi da noi come a voler fare da apripista, sentii Alfgar domandare:“Pronta?”
Era ovvio che non stesse chiedendo realmente la mia opinione, perciò rimasi in silenzio, soffocando un singulto quando la slitta partì con un colpo secco.
I cani cominciarono a correre sulla gelida neve compatta, allontanandosi dal campo base da dove eravamo partiti, e a cui non sarei mai più tornata.
Difficile accettare che, alla mia età, tutto fosse già finito eppure sembrava che, per me, il futuro fosse un argomento da non prendere in considerazione.
Piansi in silenzio, sentendo le lacrime ghiacciarsi sulle gote, ricoperte da un sottile strato di cristalli di ghiaccio.
Piansi in silenzio, ascoltando il battito del mio cuore, come a voler imprimere nella mia mente quel suono, in previsione della morte.
Piansi in silenzio, odiando il mio nemico senza volto e i suoi aiutanti senza anima, desiderando la loro morte più di ogni altra cosa.
In silenzio, piansi.




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N.d.A.: E' probabile che alcune/i di voi siano in pensiero per Jessie, la sentinella (so che è un licantropo piuttosto apprezzato) ma, almeno per il momento, non posso dire nulla sulle sorti di nessuna delle sentinelle del branco. Verrà tutto svelato alla fine della storia.

 

  
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