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Autore: sophyakarenina    22/05/2013    1 recensioni
Fu il suo turno di inarcare il sopracciglio, chiedendosi se avesse realmente capito bene quanto appena ascoltato o fosse stato soltanto uno scherzo del suo cervello.
“Mi pareva che avessi detto che accettavi il patto per come era.”
Schernirlo ora, proprio quando aveva dimostrato un lato vulnerabile di sé.
“Touché.”
Raccolse la giacca della divisa e se la gettò negligentemente sulla spalla, senza aggiungere altro. La sorpassò con paio di falcate, facendola rabbrividire per lo spostamento repentino d’aria. Imboccò le scale svanendo velocemente dalla sua vista.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Draco Malfoy, Ginny Weasley, Harry Potter, Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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Visions come.


Posò la mano sulla maniglia in ottone, fredda e liscia, nonostante gli intarsi floreali.
La porta in mogano ruotò sui cardini silenziosamente, disegnando un piccolo cono di luce su un pavimento magistralmente piastrellato.
La sua stanza era rimasta inalterata in tutti quegli anni, come se non ci avesse mai realmente abitato.


E probabilmente era davvero così.

Sua madre l’aveva fatta ammobiliare appositamente per lui da un costosissimo arredatore francese, utilizzando il mobilio antico di secoli presente nel maniero, un simbolo
della potenza e del prestigio ereditato dai Malfoy e dai Black.
I drappi di velluto verde alle finestre, il grande letto a baldacchino in legno massello, i dipinti a olio in pesanti cornici dorate, lo scrittoio poggiato su grandi spire di serpente.
Difficilmente riusciva a guardarsi intorno e non pensare a quanto quella camera fosse un cliché.
Lui era un cliché, in fin dei conti.

Promettente rampollo di una temuta e “rispettabile” famiglia di maghi purosangue, sicuramente destinato a compiere grandi cose nelle file oscure della comunità magica.
Certo, come no. Era stato cresciuto come un principe, abituato ad ottenere tutto e a sottomettere tutti, proprio come un condottiero.
Aveva conosciuto la sofferenza del castigo e la necessità di non piegarsi mai al dolore.
Andando avanti giorno dopo giorno con l’unico proposito di coltivare uno spirito fiero, arrogante ed orgoglioso del proprio lignaggio.

Anche se, ad onor del vero, era semplicemente un ragazzo. Di razza, con un pedigree impeccabile, certo.
Ma lui poteva considerarsi soltanto come una proprietà di suo padre: un costoso purosangue da corsa su cui investire, da spremere fino all’ultima goccia di sangue.

Sedette sul bordo del letto, che si infossò appena sotto al suo peso, e lasciò che la mano destra vagasse distratta sul copriletto di lucido raso.
Quella stanza non sembrava affatto appartenergli: non rispecchiava minimamente la sua personalità e lo faceva sentire come un perfetto estraneo in casa sua.
Gli occhi vagarono ancora, perlustrando stancamente l’ambiente circostante, fin quando vennero catturati dalla sua vecchia Firebolt, abbandonata in un angolo vicino alla finestra.
Fu solo allora che una smorfia gli contrasse i lineamenti del viso, mentre fissava il fascio di ramoscelli di betulla curvati dolcemente a formarne la coda, per risalire poi, lungo il rigido manico di legno, ormai usurato dalla presa delle sue mani nelle interminabili ore di allenamento a Quidditch. Poter volare.

Si alzò ed afferrò la scopa stringendo la presa intorno alla consistenza del legno, bilanciando il peso. Stupenda, proprio come la ricordava.
In un attimo un vortice di ricordi si impossessò della sua mente: la prima volta che una scopa aveva risposto al suo richiamo, la prima volta che aveva volato, il primo allenamento, la prima volta che aveva preso il boccino d’oro tra le dita. La velocità, il vento tra i capelli, la pioggia sul viso.
Il sudore, la fatica, le vittorie e le sconfitte.

“Mettila giù, Draco.”

Quell’accento sottile e raffinato che, malgrado gli anni passati a Londra, non sembrava abbandonarla mai.
Il tono reso inflessibile dall’abitudine, soltanto per celare l’amore che una madre prova per il suo stesso figlio e mantenere così le apparenze di una condotta morale irreprensibile. Ma, nonostante ciò, spesso dimenticava quanto la sua famiglia sapesse esser priva di buone maniere.

“Suppongo di dovermi aggiornare: da quando bussare è diventato un costume demodé?”

Inclinò appena il capo in avanti nel dirlo; restare solo, era chiedere tanto?
Eppure, le ubbidì lo stesso riponendo il manico di scopa nell’angolo, esattamente dov’era, destinato ormai a prendere polvere.

“Ne dis pas de bêtises! E poi non essere così melodrammatico, sono solo preoccupata per te.”

Lo disse tutto in un fiato, avvinandosi al figlio così come una persona si sarebbe avvicinata ad un animale ferito.
Allungò una mano pallida verso di lui, quella dove il massiccio anello dei Malfoy faceva sembrare quelle dita ancora più piccole e fragili come grissini.
Ma non si permise di toccarlo. Non ancora.
Era sempre come una scommessa trattare con un Malfoy: una parola, un gesto appena un po’ più maldestro e si poteva rischiare di gettare tutto alle ortiche.
Delicatezza, era tutta questione di pazienza e delicatezza.

“Ti dispiacerebbe non preoccuparti, madre? Guardami, sto bene e tra una settimana tornerò ad Hogwarts, togliendomi dai piedi e facendo ritornare tutti quanti alla stessa amabile routine a cui siamo così abituati. Fidati di me.”

“Dubito che sia una buona idea.”

“Fidarsi di me?” Sorrise, volgendo finalmente lo sguardo per incontrare quello di lei. “Come darti torto?”

E a quel punto vide quegli occhi – dannatamente simili ai suoi – farsi di vetro, incrinarsi in miriadi di schegge grigie.
Lucidi di lacrime che non avrebbe mai lasciato cadere. Gli apparve improvvisamente molto vecchia: notò le ossa magre sotto al tubino nero, fili d’argento tra i lunghi capelli, le sottili rughe ai lati degli occhi. Lei era stata l’unica persona ad averlo veramente amato.
In un modo tutto suo, questo era chiaro, ma era pur sempre amore. E aveva sempre contato per lui.
Non sopportava l’idea di vederla così fragile, disposta a mostrare palesemente la sua sofferenza. La freddezza ed il distacco era in grado di gestirli.
Ma, quelle emozioni, la profonda tristezza e la rassegnazione su quel viso, lo lasciavano del tutto impreparato.
Aveva già i suoi problemi e non voleva dover essere forte anche per gli altri: del resto, non gli avevano forse insegnato che era giusto essere egoisti?

No, non poteva sopportare quella vista. Già suo padre lo guardava con gli occhi di un disilluso, di uno che aveva scommesso tutto per ritrovarsi con un pugno di mosche.
Non aveva bisogno di qualcun altro che lo guardasse in quel modo, che gli facesse capire che il suo futuro era già segnato e non ci sarebbe stato nessun colpo di scena.

Distolse lo sguardo, scrollandosi quel momento di dosso come se non avesse avuto alcun valore.
Aveva il cuore ferito di Narcissa Black Malfoy tra le mani – quasi riusciva a percepirne il battito – e fece la sola cosa che sapeva fare: lo gettò via.

“Vattene.” Distruggere tutto. Senza pietà.

Già prima che lui aprisse la bocca, seppe di essere caduta in fallo.
E quando le parole furono un eco nella stanza, ebbe la prova che lui non glielo avrebbe perdonato.
Non vi fu quasi nemmeno lo stupore, o un tremito di ciglia, nell’udire la forza di quel latrato pieno di risentimento.
Ma, era pur sempre una madre, dopotutto.
Avrebbe voluto avere la possibilità di fermarlo, nondimeno, sapeva fin troppo bene dove questo li avrebbe portati.
Ad una sofferenza estremamente più violenta.
Draco non si aspettava una replica e, difatti, non ne giunse alcuna.
Lei restò ferma ancora un instante, come ad imprimere nella memoria la sua immagine.
Proprio come era arrivata, poi, se ne andò, lasciando soltanto la scia discreta del suo profumo.

Il rumore della porta che veniva richiusa con cautela. E poi il silenzio.

Di nuovo solo in quella stanza, gli parve di affogare.
Slacciò bruscamente i bottoni del colletto della camicia e si appoggiò con la schiena alla colonnina del letto.
Respirare. Un concetto facile: aria che entra ed esce dai polmoni, il cuore che batte con il suo ritmo regolare, sangue che scorre nelle vene.
Semplice meccanica. Però, le mani iniziarono a tremargli leggermente. Aveva sempre dominato se stesso e gli altri, ordito piani diabolici e avuto successo, era arrivato all’apice della vetta e si disse che era pressoché inevitabile quella folle corsa verso il declino.
L’ombra di se stesso, una patetica imitazione di quello che avrebbe potuto essere.

Avrebbe dovuto iniziare a fare i conti con quell’insolente sensazione di impotenza, delle cose che sfuggono dal proprio controllo.
La rabbia sorda e cieca, quella vecchia compagna solitaria di un’infanzia lunga e difficile, era tornata per reclamarlo.
L’aveva covata e nutrita dentro di sé come un animale cura i suoi piccoli e al pari di una bestia in cattività questa gli si stava rivoltando contro, ormai stanca di accettare il giogo di una catena troppo corta e bramando soltanto vendetta.

Si accasciò sul materasso, tentando di sedare l’ira che gli attanagliava il petto.
Ripeté come una cantilena che doveva concentrarsi su pensieri di poco conto, liberando la mente il più possibile.
Chiuse gli occhi e per un assurdo scherzo del destino un’immagine iniziò a prendere lentamente forma.
All’inizio completamente sbiadita, ad ogni battito assumeva una nitidezza tale da farla sembrare davvero reale.
Di colpo quell’angoscia intollerabile si ritirò nei reconditi del suo pensiero.

Riusciva a distinguere facilmente il corridoio della scuola invaso dai raggi di sole all’alba di una pallida mattina di Settembre.
Era ancora troppo presto per essere affollato dagli studenti, eppure, c’era qualcuno che si incamminava solerte verso l’aula di Trasfigurazione.
Si concentrò meglio nel vedere le pieghe di quel mantello nero, oscillare ritmicamente al suono dei tacchi di usurate scarpe basse.
Fece risalire lo sguardo lungo quella schiena diritta ed incontrò una cascata di riccioli castani.
La luce di una finestra li accese improvvisamente di riflessi dorati e scarlatti, in una combinazione quasi impossibile.
Passi incessanti e svelti sul freddo lastricato quando tutto si arrestò di scatto.
Come in una scena al rallentatore, lei si voltò su se stessa, il mantello ruotò intorno alla sua figura, avvolgendola.
Fu in quel preciso istante che vide i suoi occhi. Grandi, espressive perle castane, ricolme di sorpresa.

Sbatté le palpebre una, due volte, prima di tornare alla realtà e ritrovarsi a fissare il tessuto damascato che costituiva il tetto del baldacchino.
La confusione gli lasciò un retrogusto amaro in bocca, che avrebbe voluto sputare a terra. Forse stava semplicemente diventando matto, proprio come sua zia.
Geni, niente di più. Gradualmente trovò la forza di rimettersi seduto e si portò una mano al volto.
Era un’idea malsana, la più irrazionale che avesse mai avuto in tutta la sua vita.
Ma, era anche quella che gli dava una ragione in più per ribellarsi ancora una volta a quel macabro gioco del destino.

  
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