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Autore: Mary P_Stark    24/05/2013    3 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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18.

 
 N.d.A.: Con questo capitolo si spiegano un sacco di cose. Ma, soprattutto, si scopre chi è il VERO nemico di Brianna. Buona lettura! :)
 
 
 
 
 


 

Non capii esattamente quanto tempo fosse passato, dal momento in cui mi ero addormentata sulla slitta fino al mio risveglio.
Supposi che la stanchezza mi avesse preso all’improvviso.
Di sicuro, sembrava esserne trascorso molto.
I miei occhi sfiorarono la luce tenue che ci circondava, illuminando in maniera sinistra le alture zannute che percorrevano interminabili l’orizzonte.
Doveva essere mezzanotte, più o meno.
Era la prima volta in vita mia che assistevo all’estate boreale e, pur apprezzando le tinte fioche del cielo, colorato di rosa, azzurro e violetto, non potei gioire come avrei voluto di quello spettacolare fenomeno della natura.
Rocce, terreni, vallate.
Un’immensa distesa di bianco uniforme si stendeva ogni dove – eccezion fatta per il cielo magnifico che ci sovrastava.
Il vento gelido che sferzava l’altopiano sollevava nuvole sottili di neve ghiacciata, simili a cristalli diamantati e purissimi.
Rabbrividii, stringendomi addosso le pellicce che mi avevano dato per non morire di freddo.
Guardandomi attorno con più attenzione, mi resi conto che i monti che, solo quella mattina, mi erano parsi tanto distanti, ora erano fauci spalancate intorno a me, pronte a divorarmi.
Le vette impervie erano denti affilati, scintillanti e mortali sotto la luce trasversale del sole morente.
Ogni cosa sembrava stata creata dalla Madre per incutere timore reverenziale. O una paura atavica.
Distolsi lo sguardo, cercando di non incrementare il terrore che già mi divorava e, con mosse rigide, tentai di sistemarmi meglio sullo scomodo sedile della slitta.
Armeggiai faticosamente con le mani legate tentando, contemporaneamente, di non cadere a terra.
Nel vedermi sveglia, Alfgar disse: “Ben svegliata, Bella Addormentata. Siamo quasi giunti a destinazione.”
Arricciai le palpebre – il riflesso di quel biancore uniforme mi feriva gli occhi – e biascicai: “E dove saremmo, con esattezza? Nel Walhalla?”
Lui ghignò sarcastico, forse divertito dalla mia acida ironia.
“Siamo vicini alla tua prigione eterna.”
Chiusi un momento gli occhi, sentendomi un po’ meglio rispetto ai giorni precedenti e, curiosa, asserii: “Non mi hai più dato aconito da almeno dodici ore. Perché?”
“E’ tempo che Fenrir riprenda in parte coscienza di sé. Non vorremmo mai che non comprendesse cosa sta per succedergli” ironizzò Alfgar, aprendosi in un sorriso soddisfatto.
Mi lanciò un'occhiata attenta, aggiungendo: “Sei troppo debilitata per poter approfittarne, e lui non può agire in vece tua. Tu sei una gabbia, e i tuoi occhi saranno lo specchio da cui Fenrir osserverà la sua disfatta, mentre le sue zanne non potranno far nulla per evitarlo. Non compirà una seconda volta il sacrilegio.”
Lo fissai confusa, chiedendomi di quale sacrilegio stesse parlando, e cosa avesse a che fare con le zanne di Fenrir, prima di rammentare un particolare.
Fenrir aveva mozzato la mano di Tyr, quando era stato imprigionato con gleipnir. Possibile che fosse lui, il mio nemico?
Un dio. Ottimo.
Sospirai afflitta, passandomi le mani sul viso per l’esasperazione e la rabbia, chiedendomi cos’altro vi fosse di peggiore rispetto all’ira di una divinità, ma non mi venne in mente nulla.
Forse, neppure la fine del mondo era così tremenda, al confronto.
Sentii ridere Alfgar – doveva essere evidente quanto fossi scioccata e spaventata, e la cosa lo divertiva – ma evitai di cercare il suo sguardo, perché avrebbe solo riso più forte.
Non ero spacciata. Ero definitivamente condannata all’eternità fra le fiamme dell’inferno.
“Ecco la tua tomba” mormorò all’improvviso Alfgar, attirando la mia attenzione.
Dinanzi a me vidi un’imponente montagna, ricoperta di ghiaccio azzurro come gli occhi di Lance.
Ai suoi piedi, un’oscura caverna dall’entrata circolare ci attendeva come una vorace bocca, pronta a fare fiero pasto di me.
Ai lati dell’entrata, i berserkir che ci avevano preceduto ci attendevano come un comitato di benvenuto, alte colonne di folta pelliccia e muscolo ardente, pronte a bloccare qualsiasi nemico si fosse messo contro la loro missione.
La slitta che ci precedeva inforcò l’entrata, scomparendo nell’oscurità come inghiottita da un buco nero.
Rabbrividendo quando entrammo a nostra volta, mi sorpresi non poco nel trovare, pochi metri dopo quell’angusta bocca dell’Averno, una serie infinita di torce appese ai muri.
Sembravano essere stati scavati a picconate nella nuda roccia e nel ghiaccio secolare.
Procedemmo per alcuni minuti, inoltrandoci nel ventre della montagna  come a voler raggiungere il centro stesso della Terra.
Fu all'improvviso che, di fronte ai miei occhi sgranati per la sorpresa, sbucammo in un’enorme sala circolare, colma di stalattiti e stalagmiti imponenti e bianche come ossa dilavate dal tempo.
Nel mezzo dell’enorme salone di pietra e ghiaccio, una piccola isola svettava per grazia e fragilità, lei stupenda e perfetta, immersa in un laghetto di acqua trasparente e cristallina.
“L’isola Lynvgi” mormorò Alfgar, fermando la slitta al pari dell’altra dinanzi a noi.
Continuai a fissare inebetita quel luogo di ancestrale e terrificante bellezza, mentre la mano di Alfgar mi sollevava dalla slitta senza troppa grazia.
Mi rimise in piedi dopo tante ore passate semisdraiata sulle pellicce, e il risultato fu scontato.
Incespicai, rischiando di cadere rovinosamente a terra, ma lui mi trattenne, anche se non certo per gentilezza.
Mi lanciò uno sguardo duro, come se il mio incedere tentennante fosse voluto.
Replicai alla sua occhiata con una altrettanto rigida, replicando: “Cosa pretendi che faccia, dopo tante ore di inattività, e debilitata nel corpo come sono?”
Non mi rispose, e neppure mi ero aspettata che lo facesse.
In ogni caso, allentò la presa sul braccio e mi aiutò a scavalcare un paio di grosse rocce, sempre seguiti a breve distanza dagli altri berserkir.
Per tutta la durata del viaggio, si erano tenuti ben distanti dalla sottoscritta, quasi avessero paura di venir contagiati da qualche morbo misterioso.
Ne contai una decina: quindi, in parte, erano rimasti all’esterno della grotta, per essere certi che nessuno interferisse.
Non si fidavano del tutto, alla fin fine.
Tutt’intorno a me, il ghiaccio sembrava cristallo molato, liscio sulle pareti e apparentemente setoso al tatto.
Paradossalmente, nonostante fosse lo spettacolo più affascinante cui fossi mai stata testimone, riuscii solo a spaventarmi ancor più di quanto già non fossi.
Avevo ormai capito cosa fosse quel luogo.
Avevo riconosciuto le due rocce, a forma di lancia, che spuntavano dal terreno della piccola isola che avevo di fronte, fin troppo simili ai canini di un vampiro perché potessi stare tranquilla.
Fu in questo luogo che io perii nel mio corpo mortale.
Non sobbalzai. Non ne avevo la forza.
Inoltre, attendevo la sua voce sin da quando mi si erano schiariti i sensi.
Fenrir.
“Ti legarono a quelle rocce, giusto?”
Con gleipnir a stringere le mie zampe e una spada conficcata tra le fauci. La spada che ora vedi immersa nella terra dell’isola, tra le due sporgenze rocciose.
Deglutii impercettibilmente.
Avevo intravisto il suo spettrale bagliore di morte, ma avevo preferito non soffermarmi troppo su quel particolare del paesaggio.
Non volevo pensare troppo a cosa avrebbero fatto, con quella spada.
Distolsi gli occhi per non infierire su me stessa più del necessario e, subitaneo, il mio sguardo cadde sulla figura di nero vestita di un giovane, apparentemente mio coetaneo, dai folti capelli castani e la pelle diafana e perfetta.
Slanciato e magro, tradiva però la forza insita nelle creature soggiogate dalla luna.
Un licantropo?
Cosa stava succedendo?
Il giovane, che ci aspettava su uno spuntone di roccia nerastra, a cui era legata una piccola barchetta di legno consunto, si volse per osservarci.
Bloccando i miei passi non appena me lo ritrovai davanti, fissai costernata quelle pupille cupe come l’inferno più buio e desolato.
Erano colme di un odio atavico, che trascendeva il tempo e lo spazio per perdersi nei millenni.
Tremai, sentendo nel contempo la stretta di Alfgar sul braccio farsi più feroce.
Il giovane, aprendosi in un sorriso di scherno nel vedermi per la prima volta, esclamò: “Il mio più sincero benvenuto, Prima Lupa del clan di Matlock e custode dell’anima di Fenrir.”
Cercai di trovare la voce, ma uscì solo un tremante: “Chi sei? E cosa vuoi da me?”
Lui sogghignò, un ghigno che avrebbe fatto impallidire anche il più feroce Freki.
Alfgar, con un leggero quanto ossequioso inchino, dichiarò: “Ecco qui la lupa come avevi ordinato di condurre a te, mio signore Tyr.”
Tyr? Quel Tyr?, pensai turbata.
“Ben fatto, Lot” annuì il ragazzo, rivelandomi così il nome del mio rapitore.
Lot mi fissò per un momento, come turbato dal fatto che Tyr avesse proferito il suo nome senza pensare alle possibili ripercussioni di quel gesto.
Dopo un istante passato nel dubbio, si rivolse nuovamente al giovane licantropo e chiese: “Preparo la ragazza per il rito?”
“Ancora un momento, Lot. Vorrei scambiare quattro chiacchiere con la ragazza, prima di sigillarla” replicò Tyr, sorridendo malevolo.
Lot si limitò ad annuire, allontanandosi da noi dopo avermi lanciato un’occhiata feroce.
Non vi badai. Mi reggevo a stento in piedi e, anche se avevo recuperato la lucidità sufficiente per poter entrare in contatto con Fenrir, non potevo usare i miei poteri – per quanto scarsi – se legata da gleipnir.
Ero più inerme di un neonato.
Tyr, nel frattempo, mi girò intorno, soppesandomi come se fossi stata un bue al mercato, sfiorandomi i capelli scompigliati e le guance fredde e scavate con il tocco leggero di una mano.
Non mi piacque essere toccata da lui. Aveva un che di sbagliato, di abominevole.
La carezza terminò sulle mie labbra, dove il suo dito indice indugiò per un attimo, prima di allontanarsi e terminare tra i suoi denti.
Lì, lo succhiò con avidità, sempre guardandomi negli occhi con quel suo sguardo colmo di furore cieco.
Prendendo un respiro a pieni polmoni, chiesi: “Perché adesso? Perché non strapparmi alla famiglia, quando ancora non ero wicca e Prima Lupa? Non capisco.”
Lappandosi le labbra come se il sapore della mia pelle lo avesse in qualche modo eccitato, Tyr  dichiarò divertito: “Perché non potevo sapere chi fossi, o dove fossi, in quanto wicca. Sorgendo a nuova vita, volevo spingerti a riemergere dalla stasi che ti eri autoimposto, ma ti persi di vista non appena varcasti le porte del mondo delle anime. Studiasti davvero alla perfezione la tua rinascita. Solo quando il tuo sangue si mescolò a quello di un licantropo, ti percepii.”
Eccoti. Finalmente!
Quella frase, sussurrata nel tempo e nel vuoto dello spazio siderale, tornò alla mia mente come il colpo di un gong.
Rammentai l’attimo in cui il mio sangue si fuse con quello di Jerome, facendomi diventare un licantropo.
“Ho sempre deprecato il dono che tu concedesti ad Avya” continuò col dire il mio giovane carnefice, arcuando minacciosamente le sopracciglia e gli angoli della bocca.
Aggrottando la fronte, mi domandai cosa volesse dire con quelle parole.
“Che intendi dire?”
“Perché credi che io non abbia avvertito l’anima di Fenrir, finché tu eri solo wicca?” mi chiese per contro, sempre più irritato, parlando finalmente con me e non con l’atavico nemico.
Scossi il capo, non comprendendo e lui, afferrandomi le spalle con ferocia, mi sibilò in faccia rabbiosamente: “Le donò il potere. Un potere che non meritava! Lei era una semplice, sciocca umana, e non meritava il potere degli dèi. Il suo sangue non ne era degno!”
“Sangue?” esalai confusa.
Un attimo dopo, scorsi Fenrir e Avya, sulla cima di una collina, eseguire lo stesso rituale che io e Duncan avevamo compiuto molto più frugalmente nella sua cucina, quando la nostra linfa vitale si era mescolata creando il Legame di Sangue.
“E’ così che nacquero le wiccan?”
Irridendomi con lo sguardo, lui mi lasciò andare con così tanta malagrazia da farmi barcollare e, irrigidendo la sua postura, mi ringhiò contro: “Conferì ad Avya il potere di sfruttare l’energia della luna per parlare con la Madre, a cui lui era legato in quanto creatura della notte. E questo non glielo perdonai mai.”
Sempre più confusa, fissai il giovane dinanzi a me che, come un puma in gabbia, sembrava contenere a stento l’enorme energia che si infrangeva contro le pareti del suo stesso corpo.
Turbata, borbottai: “Tu? Perché mai non glielo…”
Ma non terminai neppure la frase, colpita da un particolare che mi fece raggelare.
Tyr non avrebbe avuto motivi di avercela con Avya, per questo!
La voce preoccupata di Fenrir mi esplose nella mente come un colpo di fucile e io, indietreggiando di un passo, spaventata da ciò che quelle parole sottintendevano, esalai: “Non sei chi dici di essere.”
Fulmineo, lui mi afferrò al collo, sollevandomi di qualche centimetro da terra e stringendo così tanto la mano che, per qualche momento, temetti sarei morta soffocata.
“Pensi davvero che avrebbero dato una mano proprio a me, e solo per farti tornare da dove tanto scioccamente eri fuggito con la morte?” mi irrise il giovane ghignando divertito, parlando direttamente all’anima che dimorava dentro di me.
“Sei… sei Loki” singhiozzai spaventata.
“Chi altri, ragazza? Tyr sta marcendo tra le braccia della Madre, divorato dal rimorso, addolorato per aver tradito la fiducia del suo caro amico Fenrir. Ma io avevo ben altro in mente, che crogiolarmi nella rabbia per non essere riuscito nei miei intenti e, prima che sia troppo tardi per agire, tu dovrai aprire le porte per il Ragnarök.”
“Troppo tardi?” gracchiai, confusa non meno di prima.
Allargando maggiormente il ghigno, Loki asserì: “Sei così cieco da avere a cuore solo le sorti dei tuoi cari, così non percepisci altro che loro. Ma il quadro d’insieme è molto più ampio dei tuoi sciocchi figli e della tua inutile compagna, figlio.”
Che intende dire?
“A me lo chiedi? Che facciamo?!” replicai, sempre più terrorizzata.
Il manrovescio che Loki mi piazzò in faccia mi impedì di ascoltare la risposta di Fenrir.
Crollai a terra semisvenuta, il sangue in bocca a impregnarmi di amaro e metallico sapore la lingua, e la certezza che quello che aveva in mente per me Loki non era nulla di buono.
Cosa stava sfuggendo a me e Fenrir? Qual era la visione d’insieme che non scorgevamo?
Piegandosi su di me come un cobra pronto a mordere, Loki mi mise un bavaglio alla bocca e, ridacchiando divertito, disse: “Non vorrei mai che rovinassi la sorpresa al nostro caro Lot.”
Scostai il viso da lui per guardare in direzione del mio rapitore che, a poco meno di una ventina di passi da noi, attendeva paziente di poter fare la sua parte.
Pareva trepidante all'idea di poter mettere le mani su di me, apparentemente del tutto ignaro di ciò che Loki mi aveva detto.
Che l’udito dei berserkir non fosse sviluppato come il nostro? A giudicare dalla sua calma, parve proprio di sì.
“Sono bestie adatte alla guerra fisica e istintiva, non creature sopraffine come i lupi. Dopotutto, i figli di mio figlio non potevano che essere superiori a quelle misere creature” mi irrise Loki, strattonandomi a un braccio perché mi rialzassi in piedi.
Ghignò all'indirizzo di Lot, e asserì: “Sono servite allo scopo non meno di quello sciocco di Fitzroy. Talmente accecato dalla rabbia, e dalla sete di vendetta, da attirarmi come una mosca su dolce miele. E talmente tonto da non capire quanto lo stessi usando per i miei intenti."
Lo fissai al colmo dell'ira, ma lui non vi badò. Ero inerme nelle sue mani, e lui lo sapeva.
"E’ stato facile seguire te da un angolo all’altro dell’Inghilterra, una volta che ti avevo trovata, come è stato facile guidare lui nelle medesime direzioni. Niente più che due pedine su una scacchiera, al pari dei nostri amici uomini-orso. Anche loro sono stati ottimi attori nella commedia che ho messo in piedi. Sono stati bravi a tenere al sicuro da te la mia identità fino all’ultimo, mia cara, e darmi l’opportunità di vendicarmi sulla tua razza, e sui tuoi cari, nel modo peggiore possibile."
Si avvicinò al mio viso per sogghignare, uno squalo dinanzi alla sua preda, e terminò di dire: "Buffo che Fenrir e te, ragazza, amiate le stesse persone. La mia vendetta sarà ancora più dolce.”
Sgranai gli occhi, turbata, chiedendomi cosa intendesse dire e Fenrir, dentro di me, esclamò: Non vorrà scatenare una faida tra le due razze?!
“Come? Come!?”
“Lot! Conducila sull’isola!” gridò a quel punto Loki, lanciandomi un’occhiata vittoriosa.
Scossi il capo, dimenandomi con le poche forze rimaste ma lui, afferrandomi per i capelli con la mano libera, mi obbligò a bloccare le mie proteste.
“Non obbligarmi a spezzarti un braccio seduta stante, ragazza.”
Come a voler rendere più credibile la sua minaccia, tese all’indietro il mio avambraccio e, immediata, una scarica dolorosa riverberò in tutto il mio corpo, portandomi a singhiozzare per il dolore.
Non sfidarlo più del necessario. Non serve a nulla!
Fenrir aveva ragione. Farlo arrabbiare non sarebbe servito a salvarmi la pelle.
Ma, quando vidi lo sguardo di Lot posarsi su di me mi dissi che, qualsiasi cosa avessi fatto, nulla avrebbe potuto salvarmi.
Da qualunque parte io posassi lo sguardo, vedevo solo aspettative di dolore e morte.
Non v’era speranza tra quelle pareti d’azzurro ghiaccio e nera e gelida roccia .
“Non ucciderla, ma fa sì che la terra ne assorba la linfa vitale” ordinò Loki al suo sgherro.
Lo fissai sgomenta, mentre Lot mi caricava a forza sull’instabile barchetta, pronto a condurmi sulla riva dell’isola senza neppure porsi il dilemma se fosse giusto, o meno, quello che gli avevano ordinato di fare.
Perché ciò che Loki aveva voluto dire era chiaro a me, quanto a Fenrir.
Lot mi avrebbe inflitto ferite tali da farmi intridere la terra ai miei piedi con la mia linfa vitale ma, nel contempo, non mi avrebbe uccisa subito.
Questo, avrebbe reso possibile il compimento del rito che Loki aveva atteso per millenni.
Se fossi morta subito, Fenrir non si sarebbe scatenato.
Perché avvenisse il Ragnarök, io dovevo perdere il controllo sui miei poteri prima di perdere la vita, e il dolore era il sistema migliore per farlo.
Sapere che non è Tyr non mi solleva. Con lui avrei potuto scendere a patti, in un modo o nell’altro.
“Gli mozzasti una mano” precisai, mentre scrutavo impaurita la costa dell’isoletta avvicinarsi sempre di più.
Mi tradì, sottolineò per contro Fenrir. Mi rifiutai di seguire mio padre, di appoggiarlo nel suo piano per impossessarsi del trono di Wotan. Così, Loki aizzò gli altri dèi contro di me – Tyr compreso –  perché mi imprigionassero."
Sospirò stancamente, e aggiunse: "Disse a tutti che volevo uccidere gli dèi dell’Asgard perché avevano messo in pericolo Avya e i miei figli, di voler scatenare il Crepuscolo degli dèi perché divorato dall’odio verso di loro.
“Ma naturalmente non era vero” Sapevo che Avya e i suoi figli avevano patito sofferenze immani, a causa dei Cacciatori, ma sentirgliene parlare fu comunque strano.
Oh, li odiavo, e molto, replicò con aspra e dolente ironia. Rimasero veramente  a guardare, mentre Avya veniva braccata dalla sua stessa genia.
“Dov’eri, tu?” chiesi, spiacente per lui.
A volte con loro... altre volte, a caccia di altri Cacciatori che depredavano e uccidevano persone innocenti, ree di essere diverse dagli altri, e perciò considerate impure.
Rivissi nuovamente, attraverso le sue memorie, quei momenti strazianti, momenti in cui Fenrir, colmo di rabbia e di amore, mentre tentava di porre un freno alle follie dei Cacciatori.
Fu Tyr a riportarmi a Palazzo, promettendomi che, se avessi accettato di sottopormi a una prova che dimostrasse la mia buona fede nei confronti degli dèi, che io avevo maledetto, avrebbero protetto Avya dal'assalto degli uomini di Fryc.
“Cedesti” dissi soltanto, ben conoscendo la risposta.
L’amore è più che cieco. Ti rende sciocco.
“Ne so qualcosa” ammisi.
Accettai la prova, e loro mi legarono a quelle pietre con gleipnir. Quando mi accorsi del sorriso di trionfo degli dèi, tranciai la mano di Tyr per vendetta, perché mi aveva attirato con l’inganno dove io non sarei mai andato di mia spontanea volontà, se non mi avesse promesso la vita di Avya.
Non faticai a percepirne la rabbia. Sfrigolava dentro di me come fuoco vivo.
Mio padre cercò di persuadermi a cedere, ma io rifiutai ancora. Tentai di ribellarmi, di dire a Tyr e gli altri chi fosse veramente il nemico. Non mi fu concesso. Loki mi conficcò una spada tra le mascelle per impedirmi di parlare, adducendo come scusa il voler vendicare la mano mozzata di Tyr e, uno dopo l’altro, qui mi abbandonarono. Gli dèi se ne andarono baldanzosi, convinti che, così legato, non avrei più tentato di ucciderli. Loki, invece, mi lasciò soddisfatto, certo che avrei ceduto di lì a poco, e avrei finalmente scatenato il Ragnarök a causa del risentimento nei confronti di Odino, e per il tradimento del mio migliore amico.
“Tuo padre fece questo?”
Il concetto di paternità, tra gli dèi, non è affine a quello che esiste tra esseri umani. In ogni caso, sapevo perfettamente che, più fossi rimasto imprigionato lì, più avrei rischiato la follia, e quindi il Ragnarok, perciò usai la spada che mi teneva bloccate le mascelle e mi colpii mortalmente al cuore.
Rabbrividii al ricordo del suo dolore, ma lui proseguì incessante nel suo racconto.
Dovevo evitare che il mio potere si scatenasse, mosso dall’odio e dalla ferocia che sentivo nei confronti di coloro che mi avevano imprigionato, e l’unico modo per evitare la pazzia, e quindi la perdita del controllo, era perire di mia spontanea volontà.
“Perciò, Loki sta tentando di fare, con me, ciò che fece con te a suo tempo? Portarmi alla follia per far scatenare tutto il potere che risiede in me?”chiesi turbata, mentre lo scafo della barca sfiorava il terreno sabbioso dell’isola, arenandosi.
Temo proprio di sì.
Singhiozzai, strizzando gli occhi per evitare di piangere – cosa del tutto inutile, in quel momento – e Lot, voltandosi verso di me, sogghignò.
“Fai bene a disperarti. Perché non sarò gentile, con te.”
Non che mi aspettassi altro, da lui.
Perdonami.
“Non sei tu che mi legherai a quelle rocce, o che mi ferirai, procurandomi dolore e sofferenza” replicai, cercando di fare dell’ironia pur non avendone voglia.
Sei qui per causa mia, e nulla di quanto tu dirai potrà cancellare l’evidenza dei fatti.
“Sei rinato per proteggere la tua famiglia. Non l’hai fatto per fare del male” gli ritorsi contro, prima di chiedergli, titubante: “Sei tu che mi hai spinto tra le braccia di Duncan?”
La quercia ha detto il vero. Io non ho potere su ciò che fai, o che sei. Tanto meno, ho potere sui tuoi sentimenti più profondi. Il vincolo che creai con le anime di Avya e dei miei figli, serviva solo a proteggerli dalla rinascita di Loki, che io avevo avvertito svanire dalla Casa delle Anime.
Fu un misero sollievo, vista la situazione, ma riuscì ad alleviare per un attimo la paura e lo sconforto.
In un modo o nell’altro, vi sareste incontrati, ma tutto quel che fosse avvenuto tra di voi, io non avrei potuto gestirlo in alcun modo, come non avrebbero potuto farlo Avya e gli altri. Vi sareste spalleggiati a vicenda, solo questo avevo chiesto alla Madre. E solo questo mi avrebbe dato. Non si può giocare con le anime. Io ho potuto giostrare le corde del vostro destino solo per chiedere che vi trovaste, ma nulla più. Pur essendo un dio, non posso muovere le pedine sullo scacchiere della vita come voglio. Neppure la Madre può.
“Quindi, tutto ciò che mi è successo… non lo hai voluto tu?”
Non mi sarei mai permesso di far morire i tuoi genitori per riportarti in Inghilterra. Ho a cuore la sorte degli uomini, altrimenti non avrei sacrificato me stesso per salvarli dall’oscurità. Ciò che successe non dipese da me.
Lot mi sollevò dalla barca mentre io, intontita e fiaccata dal pensiero di ciò che sarebbe successo entro brevissimo tempo, non riuscii neppure a oppormi a quel lento trascinarmi verso l’ineluttabile.
Quell’aggrapparmi alla logica, al tentativo strenuo di comprendere perché fossi finita lì, era il mio modo per non impazzire, per non cedere alla follia e al dolore che, invece, Loki voleva per me.
Non ero mai stata una ragazza persa nei sogni e nelle favole.
Ero una persona affascinata dalla logica matematica, dallo studio analitico delle cose che mi circondavano.
Dare un ordine al caos primordiale in cui mi stavano infilando era la mia ancora di salvezza, il mio faro nell’oscurità.
Perciò, mentre Lot mi conduceva verso il mio destino, chiesi a Fenrir: “Per questo, contrariamente a tutte le altre wiccan, io posso usare i poteri della terra anche senza utilizzare necessariamente l’energia proveniente dalla luna?”
Il mio retaggio divino ha permesso questo. Avessi avuto un’altra anima, avresti posseduto solo i poteri delle altre wiccan, e i loro limiti.
“E ora non ne ho?”
Più o meno. Gleipnir ha effetto su di te perché ci sono io. Se non ci fossi stato, avresti potuto spezzarla senza problemi.
“Questo l’avevo notato.”
Per questo, ti chiedevo di perdonarmi. Il mio intento, nel rinascere dentro di te, era quello di tenere sotto controllo Loki, perché non volevo che facesse del male ai miei cari e a tutti coloro che ho imparato ad amare. Mi rammarico solo che la quercia sacra abbia deciso troppo tardi di liberarmi dalle catene che mi tenevano bloccato, perché avrei potuto aiutarti a riconoscere i segnali molto prima.
“I flash nella mia testa, e quelle parole smozzicate erano opera tua, dunque?”
Tentavo di liberarmi dalle catene imposte da Madre. Ogni richiesta ha un prezzo. Il mio, per avermi concesso la possibilità di avere l’appoggio di Avya e i miei figli in questa vita, era non allacciare alcun contatto con te, a meno che la quercia sacra non lo avesse ritenuto strettamente necessario.
“Per questo, lei mi ha chiesto scusa. Quindi, quelli erano i tuoi tentativi di liberarti. Temevi fosse Loki a perseguitarmi.”
Sì, ne ero quasi convinto. Anche se non comprendevo come mai, due Völva come Beverly ed Elspeth, non riuscissero a vederlo con chiarezza. Ora sappiamo. Non esponendosi mai in prima persona contro di te, velava le previsioni, rendendole quasi incomprensibili.
“Non a caso è il dio dell’inganno” mormorai afflitta, lo sguardo perso dinanzi a me.
Il suo potere è questo. L’inganno, il tradimento. Ed è per questo che ha bisogno di me, poiché la sua forza è basata interamente sull’intelletto. Con essa, non può aprire le porte del caos. Per questo, ripudiai la sua volontà. Non avrei mai permesso che i miei figli, e il genere umano, venissero spazzati via dalla sua folle idea di dominio.
“Il genere umano ti era divenuto così caro grazie ad Avya, vero?”
“Sì. Ero annoiato e privo di ogni stimolo, quando incontrai Avya. Loki non faceva che parlarmi dei suoi progetti di conquista, ma a me non interessavano. Nulla, mi interessava. Fu così che me ne andai da palazzo per girovagare nei boschi.
I suoi pensieri si fecero caldi, quasi colorati di rosso, e seppi che stava pensando al suo amore perduto.
Lì la vidi per la prima volta, intenta a raccogliere erbe odorose nella foresta, mentre un canto sommesso usciva dalle sue labbra. Colto da improvvisa curiosità, invece di divorarla come il lupo che ero avrebbe potuto fare, decisi di mutare in uomo per permettermi di conoscerla come, da fiera assetata di sangue, non avrei mai potuto fare. Era la creatura più buona e dolce che il mondo avesse mai visto, e non potei che cadere ai suoi piedi.
“Ma Loki e la famiglia di Avya non furono molto d’accordo.”
No. Loki istigò Fryc, il fratello di Avya, perché credesse che io la tenevo al mio fianco contro il suo volere, facendogli credere che l'avessi soggiogata, così scatenò la rappresaglia contro di noi… e ciò fece nascere i Cacciatori.
“Ottimo.”
Loki rappresenta il caos, l’incognita che scombina la sequenza, ma non può essere eliminato, perché altrimenti l’universo cadrebbe nel baratro.
“Lo so, lo so, la legge degli opposti. A luce deve contrapporsi tenebra, eccetera, eccetera.”
Esatto.
Era quasi assurdo pensare a quanto, questo nostro dialogare, ricoprisse in realtà lo spazio di un battito di ciglia.
Non era passato che un secondo o poco più, da quando avevo messo piede sull’isola, eppure mi sembrava di aver passato ore a parlare con Fenrir, nel tentativo di venire a capo dei miei dubbi.
Il tempo non esiste, tra l’anima e chi la detiene.
“Ma il tempo ha effetto su di me e, prima o poi, perderò la mia battaglia sul controllo delle mie emozioni e il tuo potere fuoriuscirà da me. Io sono mortale, Fenrir, non sono una divinità, e la mia resistenza al dolore ha un limite” sospirai afflitta, rabbrividendo al solo pensiero di cosa avrebbe potuto succedere una volta che il mio corpo avesse ceduto alle torture di Lot.
Gjöll e Þviti apparivano ancora più minacciose, viste da vicino e, quando anche il mio carceriere le sfiorò con lo sguardo, mi sentii perduta.
Era dunque giunto il momento.
Lot, a sorpresa, si volse verso di me con un sogghigno e mi tolse gleipnir dai polsi.
Prima ancora di poter gioire per quel gesto di apparente umana comprensione, raggelai quando lo vidi togliermi di dosso la pesante giacca a vento, con la quale mi ero riparata dal freddo fino a quel momento.
Continuò a guardarmi tronfio, mentre le sue mani scendevano a togliere anche i pantaloni imbottiti.
Cercai invano di bloccarlo, solo per vedermi sbattere a terra da un manrovescio, che mi fece esplodere nel cervello mille piccole stelle multicolori.
Quando recuperai un minimo di lucidità, Lot mi aveva già tolto anche gli scarponi.
Scalciai confusamente nel tentativo di tenere lontano da me le sue mani ma lui, irritandosi per questa mia mancanza totale di collaborazione, mi afferrò alle caviglie e ringhiò: “Stai ferma, piccola lupa, o ti spezzerò tutte le ossa, prima di legarti di nuovo.”
Fu un comportamento da pazzi, ma lo feci.
Sollevai una mano per schiaffeggiarlo ma il mio carceriere, bloccandola agevolmente dopo aver liberato una delle mie caviglie, ringhiò al mio indirizzo prima di prendersi in faccia un calcio ben piazzato sotto il suo mento.
Sentii un dolore tremendo – calciare senza scarpe fa un male cane – , cui tentai di non far caso per concentrare quel poco di forze che mi restavano per la fuga, ma tutto fu vano.
Con un’imprecazione a denti stretti e uno ceffone, Lot mi ributtò a terra e, come un lampo, fu su di me, premuto sul mio corpo come un macigno inamovibile, mentre il suo sguardo perforava il mio, annichilendomi.
“Non. Osare. Mai. Più. Una. Cosa. Simile” sillabò in un ringhio ferale mentre, dalla riva, Loki rideva divertito.
Li odiai con tutta me stessa.
“Problemi a tenere ferma quella lupa, mio caro Lot?” lo irrise Loki, intento a posizionare i berserkir in punti precisi attorno al lago.
Una sorta di barriera mistica come eravamo soliti usare noi lupi al Vigrond? O c’era qualcosa di più sordido, in quelle sue mosse?
Lot non rispose alla battuta di Loki, limitandosi a rialzarsi assieme a me, per poi piantarmi un pugno in pieno stomaco.
Quel colpo mi fece crollare in ginocchio, preda di spasmi violenti e conati di vomito.
Tutto ciò che uscì dalla mia bocca furono acidi, ma tanto bastò a farmi desistere dal tentare altre folli imprese.
Che avrei fatto, anche se mi fossi liberata di Lot?
Ero così debole da non percepire neppure l’energia della Terra, perciò non avrei potuto rivolgermi alla Madre per aver salva la vita.
Ero spacciata.
Con uno strattone, Lot mi tirò nuovamente in piedi e, senza più trovare intralci di alcun genere da parte mia, mi strappò di dosso maglia e pantaloni, lasciandomi solo gli indumenti intimi a proteggermi dal freddo polare di quel luogo.
Srotolata poi dalla tasca della sua giacca metri e metri di sottile corda setosa, mi legò a Þviti, sibilandomi contro: “Così non combinerai più guai, maledetta.”
Il mio calcio gli aveva spaccato un labbro ma, pur apprezzando il risultato, non potei esserne felice.
L’avevo solo fatto arrabbiare ancora di più.
Quando terminò di legarmi, sembravo la macabra pantomima del Cristo sulla croce, con le braccia tese fino allo spasimo e il capo reclinato su una spalla.
Ora, attendevo solo la mia personale corona di spine.
Che non tardò ad arrivare.
Lot mi si avvicinò, solleticando il mio volto con uno dei suoi artigli e, sorridendo, scrutò il mio corpo asservito al suo sguardo e celiò: “Mi divertirei con te, se non avessi ripugnanza per ciò che vive nel tuo animo.”
Non avrei subito quel genere di violenza, alla fine, ma dubitavo che, per inzuppare di sangue il terreno, sarebbe stato tenero con me.
Quando il suo artiglio non si limitò più a sfiorarmi ma penetrò nelle mie carni, seppi cosa voleva dire bruciare viva.






Note:Gjöll e Þviti sono le pietre a cui, stando al mito, fu legato Fenrir per imprigionarlo per l'eternità.
  
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