Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: E m m e _    28/05/2013    3 recensioni
Per secoli è stata tramandata l’esistenza di un’entità buona e di una malvagia.
Ed una volta era così:
Lucifero e Dio, l’eterna lotta tra il Bene ed il Male.
Ma ora non più.
Eravamo abituati a parlare di Dio come una presenza buona, genuina.
I nostri genitori, i nostri amici, preti e suore
ce lo hanno presentato come la Salvezza.
Ma si sbagliavano, si sbagliavano tutti.
Perché è a causa sua che la più grande di tutte le guerre si è abbattuta sulle nostre terre, sulla nostra gente.
E sta cercando i suoi Angeli, tra noi, quelli che lo hanno tradito, che lo hanno oltraggiato nel nostro mondo…
E se anche tu pensavi che Dio ti avrebbe risparmiato, ti sbagliavi.
Ora né Dio né nessun altro potrà salvarci.
STORIA SCRITTA A DUE MANI DA MIRIANA (ME) E ANGELICA (ENGI)
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 6:
CADUTA LIBERA (DI MIRI)
 
Hesediel
 
L’Angelo ci condusse fino all’interno del convento, dove, un’accesa discussione tra un altro Angelo e un ragazzo stava avendo luogo proprio davanti ai nostri occhi.
-          Damabiah…
L’Angelo ancora privo di un nome fermò la lite verbale dei due, poi disse qualcosa all’altro Angelo di nome Damabiah che ci guardava annuendo piano.
-          Andiamo.
Mi aiutò nel reggere il ferito, poi ci scortò in una grande stanza dalle pareti color panna, priva di quadri o di qualsiasi altra cosa che avesse dato un tocco di vissuto in quelle quattro mura.
L’Angelo posò il ferito sul letto e quest’ultimo respirò con forza, senza però aprire gli occhi.
-          Pensi che sopravvivrà?
La mia voce risuonò tremante eppure seria, avevo freddo e anche paura. Sembrava che tutto quell’intreccio di sensazioni, azioni, destini, fosse solo un piano programmato e ben preciso.
Qualcosa di inaspettato, come un’eterna partita di scacchi, e noi eravamo solo le pedine di un gioco inaspettato che ci metteva tutti a rischio.  Scappa, diceva la voce nella mia testa, corri via e non voltarti più indietro!
-          C’è qualcosa che non va, ragazzo?
Mi voltai verso l’Angelo, ma non gli risposi. Indietreggiai e basta, la mia vocina interiore gridava con forza, la voce mutata dal mio nero animo che emergeva sempre di più.
-          EHI! DOVE VAI?!?
Chiusi la porta, mettendomi contro di essa guardandomi intorno, alla ricerca di una chiave con la quale poter chiudere entrambi all’interno della stanza.
Bravo Hesediel, mi parve strano che la vocina si complimentasse con me, ma sapevo che non avrei dovuto farci molto l’abitudine.  Per la seconda volta mi guardai intorno, e alla fine trovai ciò che cercavo. La piccola chiave di metallo sporgeva sotto un minuscolo tappetino verde, che all’inizio non avevo notato.  Afferrai rapidamente il piccolo oggetto, poi chiusi la porta più volte.
Sono Angeli, Hesediel, non ragazzini!, la vocina ritornò fastidiosa ed invadente nei miei pensieri.
BLOCCA LA PORTA!, il suo fu un grido interminabile.
Afferrai il comodino di legno bianco e lo misi contro la porta, così che loro non potessero evadere.
Il mio sguardo rimase fisso sul corridoio vuoto e all’apparenza eterno.
Iniziai a camminare, silenziosamente, poi sempre più rapidamente, fin quando i miei piedi non si adattarono ad una rapida fuga fuori da quel convento.
Uscire di lì, cambiare vita, città, esistenza…
Era quella la mia nuova speranza.
 
Hariel
 
Camminavo nel lungo corridoio vuoto, l’unica speranza era di uscire in fretta da lì.
Sentivo i passi pesanti di Gabriel seguirmi nel grande viale dalle pareti bianche come latte.
-          Ehi aspetta, fammi spiegare!
Continuai a camminare, senza voltarmi. Sentivo le scarpe alte ticchettare rumorosamente sul pavimento. Quando, finalmente, mi ritrovai nella prima stanza che ci Damabiah mi aveva mostrato, proprio sull’ingresso, eppure parve così lontana vedendola vuota e silenziosa.
-          Ho detto aspetta!
Le dita calde di Gabriel mi stritolarono il polso, costringendomi a voltare lo sguardo verso i suoi occhi dorati.
-          Lasciami. Voglio tornare a casa.
Tentai di liberarmi dalla sua presa, ma fu tutto inutile. I suoi occhi continuavano a cercare i miei, con una forza tale che mi fu impossibile contraccambiare il suo sguardo.
-          Noi non abbiamo più una casa, Hariel? Capisci? È andato tutto… Distrutto.
I suoi occhi si lucidarono di lacrime, senza però versarle.  E improvvisamente capii che avrei voluto solamente che lui abbassasse lo sguardo, ma non lo fece. Strinsi gli occhi, sentendo le lacrime bagnare le palpebre. Gabriel mi lasciò il polso ed io avanzai verso un alto tavolo di legno, per appoggiarmi e riprendere fiato.
-          Non lo avevamo mai saputo o… Sospettato.
La sua voce riecheggiava nel buio della mia mente, come se quest’ultima si fosse svuotata, improvvisamente, di ogni certezza, di ogni verità.
-          Né uomo, né demone, né benché meno un angelo. Niente di tutto ciò…
Aprii piano gli occhi per poi guardare la mia immagine riflessa davanti al vetro di una finestra.
-          E allora cosa? Non riesco a capirlo. Eppure loro continuano a cercarti, vogliono… Cancellarti.
La bionda ragazza fissava a sua volta sé stessa, gli occhi azzurri di una sconosciuta che, sfortunatamente, conosceva.
-          Hariel…
L’immagine di Gabriel invase la visuale nello spazio ristretto dello specchio.
-          Non ti credo.
Mi sfiorò la mano ma io la ritrassi, violentemente. Abbassai lo sguardo, poi strinsi con forza gli occhi. Chiusi le mani in pugno, rimanendo in direzione dello specchio.
-          Tu sei stata adottata.
Un’ultima botta all’anima e tutto svanì. Guardai il mio riflesso nello specchio ed improvvisamente non vi fu più l’Hariel che conoscevo. La sconosciuta prese il sopravvento e mi guardò con asprezza attraverso il vetro. Chi sei tu?, mi chiese inclinando leggermente il capo.
Sono Hariel, ma la mia risposta le provocò solo un grande sorriso sulle labbra.
No che non lo sei, sorrise ancora continuando a lanciarmi sguardi fulminei.
Io lo sono, la sua voce vorticò nella mia mente come in un tunnel senza via d’uscita.
-          Dobbiamo andare. 
Damabiah ringhiò, accompagnato da un secondo Angelo che non avevo mai visto.
-          Gabriel, raggiungimi al furgone.
L’Angelo dagli occhi grigi sembrava furioso, eppure seriamente preoccupato. Che cosa poteva essere mai successo?
-          Ma…
Il ragazzo si voltò verso di me, ma io non mi mossi dalla mia postazione, ruotai solamente il capo per guardare la reazione del secondo Angelo che mi guardò senza fiatare.
-          Vieni anche tu.
Mi guardò senza far nulla.
-          Cosa? NO!
Si mise tra me e loro, allungando un braccio affinché rimanessi al di dietro della soglia da lui prestabilita.
-          Voi non toccherete mia sorella!
Il suo fu un sibilo aspro. L’Angelo guardò Damabiah, come per accordarsi su qualcosa e, quando il secondo annuì, l’altro schioccò le dita. Le immagini che seguirono il suono provocato dalla sua azione si susseguirono in rapida successione: Gabriel che cadeva a terra, il suo corpo che si contorceva in rumorosi spasmi, suoni di ossa che si spezzavano una dopo l’altra.
-          NO! BASTA, BASTA!
Mi lanciai contro l’Angelo, in lacrime.
-          Verrò con voi! Ma lasciatelo! Vi prego…
E così fu…
 
Hesediel
 
Ricordavo perfettamente quella sensazione, il respiro straziato dal vento e dal fiatone imminente.
Correvo, o meglio, fuggivo.
Ricordavo esattamente i punti di quel bosco che avevo percorso con il ferito sulle spalle, e allo stesso tempo dimenticavo i miei passi, riempendomi la testa della mia prima fuga dagli Angeli.
Erano passati ben cinque mesi; mia madre mi aveva svegliato quella notte e mi aveva gridato di fuggire, che non voleva più vedermi in quella casa, che non mi sarei dovuto voltare indietro.
Ma mentre uscivo di casa, il mio mondo distrutto, mi voltai, e fu allora che gli vidi:
mia madre era ferma sulla soglia della porta, le labbra schiuse nel pronunciare il mio nome, e la spada di luce che gli perforava il petto, all’altezza del cuore.
Quello era il mio ultimo ricordo prima del mio risveglio nel Laboratorio, e prima delle voci che si erano iniettate nella mia mente come un veleno.
Improvvisamente un rumore mi riportò alla dura realtà della mia fuga.
Mi voltai intorno perdendo, d’un tratto, l’orientamento.
Gli alberi apparivano tutti uguali, il cielo era scuro e privo di stelle, o della stessa Luna che, un tempo, sarebbe stata la mia guida.
-          Ti prego, fallo smettere.
La voce femminile trafisse l’aria come la punta acuminata di una spada. Mi voltai di colpo e l’ombra scura si piegò su sé stessa. 
-          Ehi… Va tutto bene?
Feci un passo avanti, ma la figura si nascose ancora di più nell’ombra.
La sentivo tremare, come una foglia al vento, battere i denti, strusciare con le scarpe contro la terra umidiccia.
La prima cosa che notai di lei, illuminate da una debole luce, furono le sue mani che stringevano qualcosa contro la terra.
La sentii alzarsi, il suo passo leggero contro il terreno. Il mio sguardo si spostò al cielo che si schiariva, man mano, illuminato da una luna che cresceva pian piano nel cielo.
Un rumore metallico mi fece rivoltare verso la figura.
In quell’istante il volto di una ragazza fu illuminato per intero e, con esso, anche la parte finale della balestra puntata verso di me.
-          Questo è per mio fratello.
E poi la freccia scattò…
 
 
Hariel
 
-          Pensi che potrebbe attaccarci?
Guardai l’Angelo, il suo sguardo era quello di un cacciatore che aveva preso la sua prima preda.
-          Non fin quando rimarrà lì dentro.
Mi voltai verso il quadrato di vetro oscurato e antiproiettile, dove l’ombra lontana del ragazzo si mostrava seduta e curvata contro sé stessa.
Il ragazzo mosse lentamente il capo verso di me, poi la sua figura, rapida come un soffio di vento, iniziò a battere i pugni contro il vetro gridando come un pazzo, facendo versi strazianti e animaleschi. Mi feci leggermente indietro quando la sua testa iniziò a ruotare velocemente su sé stessa, senza controllo. Sentivo le sue mani spingere contro le pareti di metallo, come se volesse buttarla giù, e trattenni il respiro, terrorizzata. Ma quando mancava per tornare?!?
-          È questo il tuo potere…
Mi si smorzò il respiro. Allungai la mano verso la direzione dove sentivo le sue, la superficie della parete era liscia e fredda. Il suo respiro caldo appannò il vetro ma non abbastanza per nascondere i suoi occhi azzurri che cercavano i miei.
-          Aiutami…
E poi tutto scomparve; il ragazzo era seduto su una struttura di ferro, simile ad un blocco d’acciaio, legato con massicce catene nere sia ai polsi che alle caviglie. Il suo gemito, la sua richiesta sussurrata tra le labbra, mi risuonava nella mente, scivolando da una tempia all’altra, come un mal di testa stranamente indolore.
-          Ah, non guardarlo bambina… Il mondo che ti mostra è solo nella sua mente malata…
Mi voltai, uno strano dolore al petto, come di insoddisfazione, come se privassi me stessa della presenza dello strano fuggiasco. Abbassai lo specchietto del veicolo, abbastanza per vedere cosa faceva il giovane. Lo vidi alzarsi verso il grande specchio della parete, gli occhi sbarrati nel riconoscere la sua immagine.
Il suo sguardo rimase fisso sul petto nudo, dove la freccia iniettata di calmante spiccava ancora tra la spalla sinistra e il resto del petto. Il ragazzo ringhiò e la estrasse con violenza, senza pensare alle conseguenze che avrebbe potuto avere.
E poi voltò il suo sguardo a terra. I suoi occhi si spalancarono, e poi la sua bocca fece lo stesso, in un grido. Il ragazzo si lasciò cadere a terra, come se le sue ginocchia non reggessero più il peso del suo corpo, poi strisciò lontano dal centro della struttura.
-          L’ho ucciso! Oh mio Dio, oh mio… L’ho ucciso!
Il ragazzo continuò a guardare il posto vuoto al centro della struttura metallica. Mi strappai via la cintura di sicurezza, ma l’Angelo mi fermò. Le sue grida erano strazianti, avevo le lacrime agli occhi e non potevo far niente. Continuai a guardare attraverso lo specchietto e fu allora che lo vidi: il fuggiasco afferrò la freccia e, con forza, si incise un profondo taglio sul polso.
-          NO! Ferma la macchina!
Il polso iniziò a macchiarsi di sangue rosso e scuro. L’Angelo però pareva indifferente.
-          FERMA LA MACCHINA!
Lui sbuffò e chiuse gli occhi, frenando di colpo e facendo catapultare i loro corpi in avanti.
Respirai profondamente per fermare il batticuore che mi aveva preso il petto in quel momento.
Quando sentii il sangue ritornare a scorrere normalmente nelle vene, scattai fuori dall’auto e corsi verso la struttura che ci portavamo dietro, come la parte inferiore di un camion.
Aprii le pesanti porte di ferro e mi lanciai all’interno, verso il corpo del ragazzo.
-          Ehi! Guardami negli occhi! GUARDAMI! Non devi chiudere gli occhi!
 
 
Hesediel
 
Ed io la guardavo, il cuore che aveva perso ogni singolo battito.
-          Bravo… Continua a guardarmi. Così…
I suoi occhi intensi continuavano a fissarmi, le labbra chiare schiuse in un timido sorriso, appena accentuato sulle labbra. 
-Ti prego, lasciati salvare da me. 
La voce femminile era dolce e sottile nella mia mente offuscata e oscura. Salvezza?
L'avevano chiamata così in molti, ma mai ne avevo creduto l'esistenza, o almeno fino in quel momento.Le sue dita fredde e pallide mi sfiorarono la guancia e, dopo secoli di astinenza, una lacrima la rigò, rapida come pioggia e calda come una giornata d'estate.
-Ti prego... 
Forse lei non lo sapeva, ma l'aveva già fatto...
   
 
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