Salve,
per farmi
perdonare il vecchio ritardo pubblico un capitolo un po' più
lungo, l'ultimo
non è piaciuto troppo *lacrimuccia mentre guarda il numero
di visite* ma spero
che questo vada meglio, mi ci sono impegnata molto anche se
è un po' surreale.
Ebbene sì, la trama comincia a prendere una piega che
finalmente spiega il
genere "sovrannaturale" ma ovviamente non ancora del tutto, la
verità
sarà svelata un po' per volta... (spero che nel cercare di
celarla non sia
arrivata al punto che non si capisce niente XD).
Confermo
imperterrita i
titoli con la parola "stelle", ma stavolta c'entra davvero, non come
il cap.3 che più o meno ci stava... ma sì, magari
un po' tirato..., no: qui è
davvero la Stella della Sera al centro dell'attenzione. Non sapete di
cosa
parlo? Vi rovinerei la lettura con una spiegazione scientifica
sulla Stella della Sera, quindi vi rimando a piè
di pagina per le dovute note (in cui
finalmente mi decido anche a spiegare che vuol dire Akhet).
C'è anche un'altra
novità significativa nelle prossime righe: signore e
signori, accogliamo
l'altra protagonista della nostra storia, la bellissima, serafica,
adorabile
Najma!
Oh
mamma, e pensare che
non volevo neanche scrivere un'introduzione, chissà che noia
per chi legge...
vabbè comunque spero che la lettura sia piacevole, magari
perfino bella, e se vi
piace appunto, fatemelo sapere con una piccola recensione, mi aiuta
davvero a
capire cosa scrivere e modificare ^^
4
La giustizia, ecco cos’era quel numero. 8. Era il numero che
rappresentava la
giustizia!
Ora
aveva un punto da cui partire, qualcosa di certo
da riferire a Nakia e su cui poi basare le loro indagini.
Giustizia…
L’autore,
o più probabilmente l’autrice di quei misfatti
aveva certamente voluto mandare un messaggio al faraone ecco il
perché di quel
numero.
Giustizia…
Suo
padre aveva dunque compiuto ingiustizie? Si era
macchiato di delitti per meritarsi un avviso così chiaro da
una signora del
cielo?
Non
poteva crederci: il farone era la
giustizia, come poteva essersi comportato da criminale? E
ora veniva punito, tra breve altre 4 persone sarebbero state colpite.
12 in
totale.
Quel
numero però non gli faceva venire in mente nulla.
Forse
alle altre 4 sarebbe successo qualcosa solo se
il re non avesse rimediato al suo errore, ritrovando quella certa lei?
Ancora
una volta le domande tornarono ad affacciarsi
nella sua mente, affollandola di mille voci per nulla
all’unisono e tutte
rigorosamente discordanti: il mistero dell’8 era ormai stato
risolto, ne era
certo, ma questo non faceva che far nascere nuove domande e alimentare
nuove
congetture; di nuovo qualunque ragionamento e tentativo di venirne a
capo
sembrava tanto corretto quanto sbagliato.
Ora
basta però, era comunque riuscito a sistemare un
pezzo, piccolissimo, del puzzle di quell’enigmatica
conversazione, ora doveva
smetterla e concedersi un po’ di riposo, visto che era notte
fonda.
Mentre
si stava finalmente incamminando verso
l’interno del palazzo si voltò per dare
un’ultima occhiata al giardino e fu in
quel momento che all’improvviso lo vide.
Il
cielo color pece, ormai privo di luna e rischiarato
a sprazzi dalle microscopiche lucine delle stelle come tante lucciole
su un
telo buio, brillò per una frazione di secondo e subito dopo
fu attraversato da
una lunga coda rossastra, luminosissima ma allo stesso tempo tetra.
Un
guizzo, una scia luminosa. Un istante.
Quella
luce lo raggelò, lo lasciò sgomento e
inspiegabilmente
impaurito: era qualcosa di stranamente anomalo e percepì una
sensazione di pericolo
provenire da quella coda.
Velocissimo
il lampo aveva raggiunto terra. Udì un
rumore sordo, come di un tonfo, una caduta in lontananza. Qualunque
cosa fosse,
sembrava atterrato proprio all’interno delle mura del
palazzo.
Ma
davvero il rumore del tonfo era dovuto a qualcosa che
era atterrato?
Manes
aveva avuto una strana sensazione, era durato
tutto una frazione di secondo ma non era molto sicuro che qualcosa
fosse caduto
dal cielo in terra o che la luce si fosse mossa dall’alto
verso il basso,
nonostante quel rumore.
Aveva
piuttosto l’impressione che la scia fosse
partita dalla terra stessa, dal palazzo.
Senza
riflettere più di tanto si alzò e si
avviò a
passi veloci verso il luogo dell’accaduto, con sua grande
sorpresa si accorse
di starsi dirigendo verso gli appartamenti della famiglia reale. La sua
famiglia.
Aveva
un brutto presentimento. Preoccupato continuò ad
avanzare fra i corridoi deserti e silenziosi, affrettando il passo,
mosso
dall’istinto e dal flash che aveva in mente del luogo da cui
gli sembrava il
guizzo fosse partito.
Realizzò
presto qual’era il punto esatto.
Le
stanze di sua madre.
Ormai
correva, ansimando si precipitò sull’uscio ed
entrò
trafelato nella grande camera, e lì la vide.
I
suoi occhi zaffiro si pietrificarono. Ecco cos’era
quel tonfo.
Il
torace snello si alzava e si abbassava
regolarmente, saliva verso l’alto e poi riscendeva
lentamente, con calma, seguendo
il placido ritmo del respiro di chi gode il meritato riposo. La notte e
i suoi
sogni. Questo era stato ciò che Nakia aveva sperato prima di
andare a dormire,
i suoi ultimi pensieri. Sì, non aveva pensato di nuovo a
Selene e alle stelle,
era scossa ancora dalla brusca separazione di lei e Manes quel mattino
e aveva
passato la giornata a pensare cosa potesse mai essere successo, quali
erano i
pericoli che non rendevano il loro periodo “buono
per stare da soli”, non
sapeva certo
che anche il ragazzo era stato tormentato tutto il giorno dallo stesso
interrogativo, con l’unica differenza che aveva degli indizi
in più, dei mattoncini
piccoli e fragili ma con cui poter incominciare a costruire le sue
ipotesi.
Lei
non ne aveva, aveva solo lo sguardo di Manes fisso
in testa: quegli occhi blu profondo che si erano discostati dai suoi
color
ametista per l’attimo di una frase, che preoccupati si erano
diretti lontano,
oltre le dune di sabbia, forse alla ricerca di questo fantomatico
pericolo, e
si erano poi abbassati repentinamente prima di tornare a specchiarsi
nei suoi:
quale minaccia avevano visto? Un lampo di tensione li aveva
attraversati,
fulmineo, ma abbastanza intenso da farle capire la gravità
della situazione,
senza temere di sbagliare nel valutarla.
Aveva
pensato, fatto congetture, costruito castelli di
fantasiose idee, di assurde teorie. Del resto l’unica cosa
che poteva fare era
basarsi su quello sguardo e tenere presente tutto ciò che
Manes avrebbe potuto
temere, e soprattutto temere che accadesse a lei.
Temeva
per lei, che pensiero dolce le era sembrato. Non
ci aveva mai riflettuto più di tanto, era troppo presa dagli
astri, troppo
egoisticamente raccolta nelle sue riflessioni esistenziali sul cielo,
nei suoi
dialoghi mistici con le stelle, per accorgersi di quanto in
realtà fosse
egocentrica, superba perfino, no, ecco: saccente. E infatti non aveva
molti
amici, era un tipo un po’ solitario, sempre sulle sue,
costantemente perso nel
suo piccolo mondo di cui solo lei possedeva la chiave, chiave che
prestava di
rado e che non avrebbe mai donato a nessuno… o forse
sì? A una persona… in
effetti l’aveva già donata. Manes era sempre
lì, a farle compagnia in quel suo universo
parallelo, ad ascoltarla nonostante i suoi difetti, a prestarle
attenzione,
anche se magari gli argomenti di cui parlava non erano poi
così interessanti e
tendevano a ripetersi. Sì, era davvero un comportamento
dolce.
Un
timido sorriso affossò uno degli angoli della bocca
nella guancia dorata. Possibile che riuscisse a riflettere anche mentre
dormiva?
Notte
fonda, il vento di Akhet ulula malinconico, un
triste lamento che sembra voler richiamare anime disperate e raminghe
nella
cupa speranza di portarle via con sé in un posto migliore, o
semplicemente
diverso, offrendo loro l’opportunità di vagare
proprio come lui, di paese in
paese, senza sosta, senza speranza. Queste erano le favole che le nonne
o le
sorelle maggiori raccontavano per costringere i bambini ad andare a
letto: il
terribile Vento degli Spiriti, il rapitore delle anime.
Anche
in quella notte apparentemente normalissima,
Akhet aveva inviato il suo messaggero notturno preferito: un vento
fresco, che
trascinando con sé non anime o spiriti raminghi
bensì granelli di sabbia rossa,
foglie e batuffoli di polvere, li gettava con delicatezza contro gli
usci delle
case, i muri, le tende, compiendo placidamente il consueto giro della
città
deserta.
Bussò
anche alla porta di Nakia, che sognava
dolcemente nella sua piccola casa, avvolta in un leggero lenzuolo di
lino.
Qui
però si trasformò: divenne davvero il Vento degli
Spiriti, ululò, bussò con insistenza e infine
irruppe nella stanza spalancando
la porta. Nakia si voltò verso l’uscio quasi
scardinato ma non aveva neanche
sussultato. Non aveva paura del vento di Akhet, non di questo
vento.
Inaspettatamente
al di là della soglia di casa non vide
la stradina di ghiaia o le abitazioni dei suoi vicini, anche
l’oscurità della
notte era sparita: davanti a lei c’era una luce fortissima,
pura e candida come
il sole del primo mattino, che rende il cielo quasi bianco per quanto
splende.
Sentiva delle voci, strane voci di cui non avrebbe saputo identificare
i proprietari:
donne? Uomini? Bambini? Bambine? Erano … non sapeva bene
come fossero, ma provava
in lei una strana sensazione: ogni giorno provava sempre un senso di
smarrimento ed era arrivata a convincersi che le mancasse qualcosa, e
ora invece
si sentiva… completa,
quel qualcosa
era lì, anche se non sapeva come. Sentiva anche di potersi
fidare di quelle
voci, le trasmettevano un senso di sicurezza, di pace. Ora le udiva
più
distintamente, erano almeno due, limpide e cristalline come rugiada,
una più
grave dell’altra, e discutevano, ma non capiva le parole. Poi
tacquero, le
parve che dalla grande luce, che ora aveva avvolto del tutto la stanza
dandole
l’impressione di stare fluttuando in un mare bianco, si
muovessero delle
figure, che si avvicinassero a lei. Si sentì felice,
soprattutto nel vedersi
avvicinare una delle due, più piccola, simile, per quanto
riuscisse a capire, a
lei. La felicità si interruppe per un attimo, un bagliore
rosso si avvicinò
alla figura più grande, in un istante si
trasformò in una terza entità che si
allontanò, avvicinandosi ad altre otto del tutto simili che
Nakia prima non
aveva notato. Si accorse poi all’improvviso che non aveva un
corpo: era anche
lei una strana figura, quasi una persona trasparente, ma molto meno
luminosa
delle altre che le stavano vicino. Non per questo però si
spaventò. Si sentiva
a suo agio, almeno fino a quando la presenza più piccola le
stava vicino, non
sapeva spiegarselo ma era rassicurante. Allungò una mano
opalescente e la
sfiorò. In quell’istante si sentì come
se avesse trovato il pezzo mancante
della sua persona, quello che la faceva sentire incompleta.
“Chi
sei?” le disse.
La
figura sorrise, si era fatta più nitida, ora era
anche lei un corpo trasparente come Nakia, sebbene più
luminoso. Le
assomigliava davvero, la ragazza ebbe l’impressione di
guardare il suo riflesso
nel vetro.
Le
prese le mani con affetto, dando a Nakia
l’impressione di una vecchia amica che commossa riabbraccia
una persona cara
dopo una lunghissima lontananza. Sì, il tono con cui rispose
era proprio
commosso, affettuoso, eppure allo stesso tempo velato da rassegnazione
e tristezza:
“Io
sono Najma”.
Nakia
si accorse all’improvviso che Najma aveva una
caratteristica che la lasciò senza parole: due splendenti e
vividi occhi viola,
proprio come i suoi.
Guardare
quel volto uguale al suo era come specchiarsi
nell’acqua, nonostante continuasse a essere a suo agio la
ragazza cominciò a
sentirsi sempre più stupita,
incredula:
tutto ciò era incredibile, nel vero senso della parola.
Najma
si accorse subito della meraviglia dipinta sul
volto di Nakia. I suoi occhi ametista erano fissi, pieni di dolcezza e
nostalgia, in quelli dell’altra. Quanto avrebbe voluto
rivelarle ogni cosa: la
loro nascita, il mistero di quel colore viola, Selene, il profondo
affetto che
provava per lei… voleva aiutarla svelandole la
verità, ma non poteva. Non era
compito suo, sebbene avesse sperato e pregato perché lo
fosse. Ma poteva ancora
esserle d’aiuto, era lì per questo, aveva comunque
ottenuto un piccolo ma
importante ruolo nella commedia del destino.
“Io
non permetterò che
le accada del male. Non porterai via anche lei, come hai fatto con
me”.
“Sai
di non stare
dicendo la verità. I patti che gli uomini decidono di
stringere con me
prescindono dalla mia volontà, non ne sono responsabile:
né del tuo destino né
di quello della ragazza.
Ormai
il cerchio è
stato tracciato, non si torna indietro, lo sai bene.
L’accordo stretto con
quell’uomo mi dà il diritto di richiamarla a me,
mi impone di farlo.”
“No,
tu puoi
farne a
meno. Come puoi accettarla e consegnare il potere nelle mani indegne di
un uomo
simile? Come puoi farlo a un simile prezzo?”
“Il
prezzo da pagare è
uguale per tutti, da sempre.”
“Ma
questa volta non
devi accettarlo, Espero*: io non te lo permetterò. Anche se
hai preso me non
porterete a termine quanto cominciato. C’è un modo per salvarla
e non mi
importa se richiede il sacrificio di altre
12 anime. Io non la abbandonerò!”
“A
chi io ceda il
potere mi è irrilevante, non mi riguarda. Che siano 12 anime
o solo la sua, il
patto va rispettato. Sarà il tempo a decidere la sorte
dell’altra tua anima: se
dovrà cessare di nascondersi o se continuerà a
vivere in quel mondo”.
“Io
però non me ne starò
con te a guardare indifferente che il suo amaro destino giunga a
compimento. Ho
già agito in modo che potesse salvarsi: le ho fatto
incontrare colei che dovrei
odiare, la vecchia. E ora porterò a termine il compito che
mi sono data:
l’avvertirò, le dirò tutto, non la
troveranno.
Nakia
non morirà!”
La
voce di Najma tremò
per la violenza con cui aveva proferito quelle ultime parole. Le sue abituali
riflessività e saggezza erano
venute meno per un attimo, avevano ceduto il posto alle emozioni e al
ricordo.
Era salda nella sua decisione, risoluta e pronta a qualunque cosa per
salvare
la ragazza dagli occhi viola.
“Tu
non le dirai
tutto!” ora Espero stava perdendo la pazienza, non tollerava
domande e
obiezioni: tutti dovevano seguire il proprio destino, il cammino
già tracciato
per loro da qualcun altro, non era possibile, non era lecito
interferire e
opporsi. “Puoi solo metterla in guardia su quale sia la sua
sorte, solo questo
ti concedo”.
Prima
che Najma potesse pronunciarsi di nuovo, Nakia,
in cui la curiosità aveva ormai vinto quello stupore che
l’aveva lasciata
attonita per un momento, le rivolse la parola
“Che
cosa sei?”
Si
sentiva un po’ in imbarazzo a fare una domanda del
genere, davvero inusuale, ma voleva delle risposte: era tutto
così strano, e di
Najma si poteva fidare ciecamente, lo sentiva.
L’altra
inclinò la testa luminescente di lato, con
malinconia, continuava a tenerle salde le mani, non riusciva a credere
che
fossero insieme, di nuovo.
“Cosa
ero, non
posso dirtelo, lo scoprirai col tempo. Cosa invece sono
ora, se è questo che ti preme sapere, invece posso
rivelartelo.
Ormai io sono…una stella.
Uno dei raggi
della stella della sera”
“Espero!”
“Hmm”
annuì la stella.
“Sei
uno dei raggi di Espero?! È lei allora, quella
figura maestosa dietro di te”
Najma
annuì di nuovo. Nakia era sempre più incredula
ma soddisfatta almeno di aver ottenuto una risposta, seppur
così assurda.
“Vieni
con me” le disse l’altra gravemente.
Nakia
aprì gli occhi. Era nella sua casa, avvolta nel
suo lenzuolo, tutto intorno a lei era buio e muto, perfettamente
conforme a una
tipica notte fonda. La porta era al suo posto come se il Vento degli
Spiriti di
Akhet non l’avesse mai toccata.
Aveva
sognato, non c’era altra spiegazione. Era un po’
delusa.
Però,
che sogno strano, pensava, riusciva ricordarsi
nitidamente ogni particolare: il dialogo con Najma, le sue emozioni, le
sue
sensazioni, la luce, Espero.
Si
alzò lentamente, non sapeva quanto tempo avesse
dormito: poche ore? tutta la notte? ignorava infatti che ora fosse e
quanto
mancasse all’alba. Ma non aveva più sonno, dopo un
sogno simile non sarebbe mai
riuscita a riaddormentarsi. A passi
pesanti si avviò verso le piccole scale, le
salì con lentezza,
appoggiando la mano destra sul fresco muro; si sentiva come guidata da
qualcosa, attirata verso la terrazza. Doveva vedere le stelle.
Eccola,
proprio come si aspettava, Espero era lì, più
luminosa che mai.
Nakia
si mise a rimirarla, con l’animo di chi attende
qualcosa.
“Vieni
con me”
Una
voce. La chiamavano. Era Najma! Non c’erano dubbi.
Ma dov’era? Possibile che fosse davvero una stella, che la
stesse chiamando uno
dei raggi di Espero? Dunque non era stato solo un sogno…
Nakia non riusciva a
crederci e si convinse di aver avuto un’allucinazione,
continuò a fissare
l’astro nella speranza di chiarire i suoi dubbi.
Espero
brillava, luccicava di una luce tremolante,
emanando tanti minuscoli raggi che sembravano circondarla come una
corona: si
allungavano e si accorciavano impercettibilmente, in continuazione,
rivaleggiando l’un l’altro in lunghezza per brevi
istanti, riprendendo poi la
posizione iniziale per far posto agli altri. Uno era un po’
più lungo dei suoi
compagni, ma la ragazza non ci fece caso, le sembrava normale che i
guizzi
della stella avessero lunghezza irregolare. Il raggio però
non tornò al punto
di partenza dopo un istante, continuava ad allungarsi diventando sempre
più
visibile così luminoso contro il cielo buio.
Si
stropicciò gli occhi, doveva essere sicura di cosa
stesse succedendo, prima di cominciare a fantasticare e illudersi
doveva avere
la certezza che non fosse solo un’ impressione: aveva
aspettato 13 anni un
segno dalle stelle e ora… ora finalmente era arrivato.
Le
provò tutte: pizzicotti, secondi passati con gli
occhi chiusi e poi riaperti, passeggiate nervose con la testa bassa per
poi
tornare a voltarsi verso il cielo: non era un’illusione.
Sì,
era lì! Si sentì finalmente felice, ma poi
cominciò a pensare che forse non ne aveva motivo, che stava
sbagliando
atteggiamento. Magari le stelle dovevano comunicarle qualcosa di
doloroso e in
tal caso gioire sarebbe stata l’ultima delle cose da fare.
Riprese il controllo
di sé e aspettò. Il sottile raggio ora era
davvero lungo, sembrava una stella
cadente, ma molto più lenta nel precipitare. Nakia
capì che era Najma e che le
stava indicando un percorso.
“Magari
mi vuole portare da nonna Lene, forse è
finalmente giunto il momento”
La
situazione era davvero surreale e vagamente
inquietante, ma Nakia non poteva fare a meno di sentirsi trepidante e
in preda
a una sorta di frenetica impazienza, si sentiva proprio una bambina, la
stessa
bambina che anni prima a Keruit era conosciuta per essere la persona
più
ostinata e pedante del villaggio, di cui nessuno avrebbe mai potuto
liberarsi
se non soddisfacendone la curiosità.
Trovarsi
in mezzo a un’avventura simile la emozionava
ma poi si ricordò delle parole di Najma, pronunciate in modo
così triste e
malinconico: stando a quei toni le stelle dovevano davvero rivelarle
qualcosa
di doloroso, non c’era proprio nulla da festeggiare.
“Stupida” sussurrò a sé
stessa.
Il
filamento luminoso ormai era così vicino al suolo
che si poteva capire quale direzione volesse indicare. Nakia
constatò non senza
preoccupazione qual’era: il palazzo reale.
“Manes”
sussurrò fra l’angoscia e la sorpresa.
Scese
di corsa le scale di legno, prese un mantello
scuro per ripararsi dal vento e corse via a più non posso
verso le mura del
palazzo. La sua casa era piuttosto lontana da quel luogo ma questo non
l’avrebbe fermata di certo: aveva un brutto presentimento
ormai, Manes non
doveva entrare in questa storia se davvero poteva rivelarsi pericolosa.
Ansimava
mentre a passi grandi e veloci percorreva le
strette stradine della Tebe di periferia, mentre a ogni vicolo e a ogni
angolo
rischiava di perdere l’equilibrio talmente svoltava
velocemente. Non sapeva che
anche stavolta Manes aveva compiuto i suoi stessi gesti, correndo a
perdifiato
per i corridoi della sua casa fino alle stanze di sua madre.
Correva,
e mentre correva e il vento le tagliava il
viso come una lama affilata pensava, pensava a perché
correva così tanto, a
perché si sentisse così preoccupata di colpo e
apparentemente senza motivo, a
perché fra tutte le centinaia di persone che abitavano il
palazzo dovesse
accadere una qualche disgrazia proprio a Manes, a perché
Najma aveva deciso di
apparirle proprio quella sera e di indicarle proprio quel luogo e in
ultimo
pensava a una cosa fondamentale seppur puramente pratica: come avrebbe
fatto a
entrare nel palazzo? Gridando alle guardie che uno dei raggi di Espero
le aveva
detto di farsi un giro per le stanze della reggia? Che il figlio del
faraone e
lei si incontravano tutti i giorni e semplicemente aveva deciso di
venire a
trovarlo? Sì, proprio delle belle idee, occorreva un piano o
almeno uno
straccio di immaginazione per inventarsi una scusa plausibile, se solo
Manes
fosse stato lì con lei…
Mentre
pensava e correva, imboccò finalmente la strada
principale, una via lunga e ampia che portava diretti alla residenza
del
sovrano.
Rallentò
il passo, aveva il fiatone per la lunga corsa
notturna e dovette fermarsi un attimo e appoggiarsi a un muro per
riprendersi.
Prendendo grandi boccate d’aria fredda alzò gli
occhi al cielo, niente, per una
volta che sperava che le stelle la ignorassero erano lì, o
meglio, lei era lì:
Najma indicava proprio il palazzo, non c’erano dubbi, ma
perché, perché proprio
lì? Sospirò tra lo sconforto e la rassegnazione,
e si avviò a passi pesanti
verso le mura.
Non
sapeva che fare adesso: doveva entrare, di questo
era assolutamente certa, ma allo stesso tempo non aveva idea del come:
pochi
passi e si sarebbe ritrovata nella zona sorvegliata antistante alle
varie cinte
di mura e ci sarebbe voluto un miracolo per nasconderla.
Ma
se la necessità aguzza l’ingegno, il pensiero che
Manes potesse essere in pericolo era così terribile che
prese la sua decisione.
Dando sfogo a tutta la sua agilità, stabilì di
improvvisarsi ladra e cominciò a
salire abilmente lungo la parete di una delle ultime case della
città prima del
palazzo. Quando, non senza fatica, raggiunse finalmente il tetto, ai
suoi occhi
si presentò la reggia in tutta la sua mole: vista
dall’alto faceva certamente
un altro effetto, in quel momento realizzò chi era davvero
la persona che stava
cercando di aiutare, il figlio del faraone. Sì, come se le
importasse qualcosa:
il loro rapporto, la loro complicità veniva prima di tutto,
poi c’erano i
titoli e il resto, e sapeva che lo stesso valeva per lui, lui che era
stato
così dolce da preoccuparsi per lei, e lei che ora voleva e
doveva assolutamente
ricambiare, di qualunque cosa si trattasse.
Tre
cinte di mura, un ampio cortile, un grande
ingresso principale, probabilmente numerosi ingressi secondari, ma
soprattutto
guardie ovunque, a dozzine. Non era pratica di certe cose ma le
sembrò comunque
insolito, tutto sommato era un periodo di pace per l’Egitto,
che motivo aveva
il farone per accerchiarsi così di soldati? Maledizione,
come se non fosse
stato già abbastanza difficile da sé.
Continuò a osservare la scena per lunghi
secondi, ponderando diverse possibilità: sgattaiolare di
nascosto, avvolta nel
suo mantello e nel buio della notte, da un tetto all’altro,
fino all’angolo
meno sorvegliato della reggia e poi infiltrarsi, oppure farsi passare
per una
domestica o chissà cos’altro e cercare di
ingannare le guardie, addirittura
attendere l’alba per approfittare del momento in cui il
faraone porgeva i suoi
saluti al sole e in cui tutti erano distratti per intrufolarsi dentro.
Ma non
poteva attendere, doveva entrare adesso, quando glielo aveva detto
Najma. La
fortuna per un attimo fu dalla sua, le dozzine di guardie si erano
inspiegabilmente
come dileguate. Bene, si calò velocemente giù dal
tetto e corse più silenziosamente
che potè fino alla prima cinta di mura, attese
nell’ombra se veniva qualcuno e
quando il luogo intorno a lei sembrò sufficientemente
deserto si precipitò a
ridosso delle mura, col cuore in gola e le mani che sudavano freddo. Le
scavalcò faticosamente, noncurante delle escoriazioni sulle
gambe e i gomiti
che lo strusciare, a causa della fretta e dell’ansia, contro
le ruvide pareti le
provocavano, si calò dall’altro lato, fece un
piccolo balzo e fu dall’altra
parte, le gambe le tremavano per l’emozione e le dita
formicolavano, ma non
poteva permettersi di perdere la coscienza di sé, doveva
agire rapidamente e
lucidamente se voleva riuscire; miracolosamente scavalcò
senza essere notata
anche le altre due cinte, da qui in poi pensò, anche se
l’avessero trovata
poteva sempre dire di essere una residente della reggia, certo fornire
un nome
plausibile e dare una spiegazione per tutte quelle abrasioni e i
capelli ormai identici
a una criniera per quanto arruffati dal vento e dalla corsa, sarebbe
stato più
difficile.
Tirò
un sospiro di sollievo e si accasciò un attimo
alla parete, solo un attimo, un secondo di tregua, si sentiva davvero
esausta. Ansimava
ancora quando poco dopo si costrinse a rialzarsi: non poteva concedersi
pause
proprio ora. Najma ora sembrava dirigersi verso un’ala
particolare del palazzo,
le sembrò strano che nessuno si fosse ancora accorto di
quella presenza così
insolita nel cielo, forse la vedeva solo lei. Si rese poi finalmente
conto di grida,
che si erano susseguite incessanti da quando si era avvicinata al
perimetro
della reggia: urla, rumori, lamenti incessanti che sembravano
provenienti dl
luogo indicato da Najma.
Era
preoccupata ma doveva farsi forza e mantenersi
lucida, senza farsi agitare da quegli strilli, avanzò
velocemente fino all’ingresso
addossandosi a una delle enormi colonne del portico per celarsi alla
vista
delle guardie. Inaspettatamente nemmeno il portone era sorvegliato:
doveva
davvero essere successo qualcosa di grave per lasciare incustodito
anche l’ingresso
del palazzo, la causa delle grida, che non accennavano a smettere, era
davvero
importante. Ora che si era avvicinata le udiva più
distintamente, sembravano
lamenti e pianti disperati di donne, si udivano anche passi frenetici
come di
corse affannate, richiami. Non era il momento di indugiare, bisognava
approfittare della situazione: Nakia entrò cautamente
all’interno delle mura,
lì al chiuso vedere Najma era impossibile perciò
la ragazza decise di lasciarsi
guidare dalle voci e dal clamore, si sistemò anche, per
quanto poté: se l’avessero
trovata, un aspetto presentabile avrebbe reso più credibile
qualunque scusa inventata
sulla sua persona. A passi cadenzati e non privi di agitazione si
avvicinò via
via all’ala del palazzo da cui avevano origine le grida,
riusciva già a
distinguere qualche parola, più si avvicinava più
si accorgeva del grande via
vai di gente diretta in quel luogo, correvano tutti e tutti avevano
un’espressione
addolorata e angosciata, inutile dire che questo non la
sollevò affatto. Una di
quelle persone la urtò nella fretta e per poco Nakia non
cadde:
“Sbrigati!”
fece quello, “è morto uno della famiglia
reale e tu te ne stai qui a gingillarti per i corridoi: datti una
mossa!” e
scappò via senza neanche scusarsi.
Morto?
Quella parola le gelò il sangue, sbiancò
completamente e cominciò a sudare freddo, non sapeva se il
suo cuore volesse
cominciare a battere a mille o fermarsi. L’angoscia e lo
sconforto la presero
di colpo. Come morto? Chi era
morto? Nella
famiglia del faraone erano solo in tre: era molto alta la
possibilità che… no,
non osava neanche pensare o fare ipotesi, un’unica parola
rimbombava nella sua
mente: corri. Obbedì a quanto detto dall’individuo
di prima, si affrettò e si
precipitò nella direzione in cui era sparito. Non sapeva
cosa sperare: che
fosse morto il faraone? La madre di Manes? Come era brutto sperare
nella morte
degli altri… no, non voleva sentirla quella parola: morte.
Perché proprio morte?
C’entrava qualcosa Najma, Espero? Ma non aveva tempo per fare
congetture,
doveva trovarlo, vederlo, sapere che stava bene, che era vivo. Vivo.
Sì questa
parola le piaceva, voleva che fosse quella la parola giusta, doveva
esserlo.
Se
invece che farsi prendere dall’angoscia e dai suoi
pensieri, Nakia avesse ascoltato le conversazioni dei vari servi che
facevano
avanti e indietro per i corridoi, e che sapevano già
cos’era successo,
probabilmente si sarebbe tranquillizzata.
Ma
ora correva ancora: ma quanto era grande quel
maledetto palazzo? Il cuore era bloccato in gola da tempo ormai, i suoi
occhi viola
si erano come spenti, erano vuoti se non per quelle lacrime di cui
erano gonfi,
pronte a versarsi a ogni momento.
Le
grida di dolore, i pianti delle prefiche erano chiarissimi,
perfettamente udibili: era ormai arrivata; voltò un angolo e
senza neanche
rendersi conto di avere qualcuno davanti a sé, ne
urtò violentemente la schiena.
Cadde a terra, ma non le importava minimamente, stava già
rialzandosi pronta a
ripartire come una furia senza neanche scusarsi, quando i suoi occhi
viola sollevandosi
ne incrociarono un altro paio di un colore che conoscevano benissimo:
blu
scuro.
La
figura si era voltata di scatto non appena la
ragazza l’aveva colpita, era un ragazzo, un giovane uomo, dai
capelli
scurissimi e le mani forti. Il dolore che provava in quel momento
cedette il
passo per un istante alla meraviglia quando incrociò lo
sguardo di lei:
“Nakia?”
“che diavolo fa…?” non ebbe il tempo di
finire la sua frase che la ragazza gli si gettò al collo,
abbracciandolo con
forza. Singhiozzava: “Manes”.
Note:
Come
vi sembra? Spero
che il capitolo vi sia piaciuto ^^ ma ora cominciamo con le note:
Allora,
partiamo dai
termini egizi, Akhet è la prima delle tre stagioni dell'anno
egiziano, più o
meno coincide con la fine della nostra estate e l'autunno
(settembre-dicembre)
ed era il periodo in cui il Nilo straripava rendendo fertili i campi
( mi
piaceva l'aria un po' malinconica dell'autunno e il pensiero della
rinascita
con l'inondazione del Nilo, che volete farci...)
Najma
è un altro nome
parlante (anche Manes in realtà lo è ma visto che
non l'ho scelto per il suo
significato, che tralaltro non mi piace neppure tanto, ma
perchè mi ispirava,
credo sia inutile riportarlo) anzi direi che più parlante di
così non si è
banali ma di più, sì avete capito bene, Najma
vuol dire proprio
"stella", se Nakia conoscesse l'arabo avrebbe potuto fare a meno di
chiederle "cosa sei" XD, vabbè.
E
passiamo alla mia
parte preferita, sono una pazza patita di astronomia, che volete farci
(ma del
resto si era capito no? tutte quelle stelle...). Espero è
uno dei nomi greci
per Venere (c'erano anche i nomi egiziani ma visto che Selene ha
educato Nakia
alla maniera greca ho pensato fosse meglio Espero che
Ouaiti); lo so che
venere è un pianeta e non una stella ma nel tempo della
storia non si sapeva
(si scoprì da lì a poco però) anzi,
visto quanto era luminoso, quel corpo
celeste aveva ricevuto nei secoli precedenti ben due nomi. Espero,
ossia stella
della sera (che si dice espèra) e Fosforo , ossia stella del
mattino (da phos,
photòs: luce), la stessa cosa valeva per gli egizi che la
chiamavano Ouaiti a
notte fonda e Tio Moutri vicino al mattino. A me
però piaceva in versione
stella, insomma: due nomi sono meglio di uno, e nel mio universo
parallelo
fatto di buchi bianchi, supernove, e piramidi Espero è una
stella, Venere
dimenticatevelo. Eppoi che sovrannaturale sarebbe se fosse dogmatico no?
Credo
di aver detto
tutto, scusate la mia notoria prolissità e ci vediamo fra
una settimana per il
capitolo 5, grazie per essere passati ^^