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Autore: Selfdestruction    07/06/2013    3 recensioni
"Con la pioggia che lavava via la mia vecchia vita e mi inumidiva le ossa con questa nuova morte, mi trascinavo, come il più classico dei fantasmi che si porta ancora dietro le catene dei rancori e dei rimpianti. Ero morto, ma dovevo avere ancora un cuore, perché avevo iniziato a seguirlo".
Frank si sveglia, ritrovandosi su un marciapiede di chissà quale città. Non ricorda nulla, non sa neppure il suo nome, sa solo di essere morto, morto la notte di Halloween. Quando si accorge dell'unica casa in fondo alla strada che ha ancora una luce accesa nel cuore della notte vi si avvicina. In quella stanza al primo piano troverà l'unica cosa che cambierà per sempre la sua sua vi... morte. Ma cosa c'è realmente dietro tutto questo? Perché nessuno sembra accorgersi della sua assenza? Qual è il mistero che nascondono i flash continui che gli annebbiano la mente quando meno se lo aspetta? Frank è mai stato vivo sul serio?
ps. ho cambiato il nome della storia, di solito li metto alla fine i titoli, ma questa volta sono stata costretta.
Era ASLEEP OR DEAD, ora è THIS MUST BE AN EMPTY DREAM.
Genere: Malinconico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 1.

Early sunsets over monroeville.

BUT DOES ANYONE NOTICE?
BUT DOES ANYONE CARES?
And if I had the guts to put this to your head...
But would anything matter if you're already dead?


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Il cielo mi pioveva sugli occhi, quando mi sono svegliato. Ero seduto sul marciapiede di chissà quale città, avevo dormito in piedi. Avevo dormito? 
Stanco, sconfitto, morto. Come un fantasma rimanevo nei miei rimpianti, intrappolato, forse per sempre, nelle mie catene. Intrappolato in tutte quelle cose che avevo rimandato a domani e mai fatto, in paure mai superate e in tutti quei libri che mi ero ripromesso di leggere ma che, alla fine, non avevo mai finito. Ero morto, non sapevo di esserlo, la pioggia mi bagnava. Proprio la pioggia, che non cade sui morti e nemmeno su quelli che fanno finta di esserlo. Ero morto, vestito da fantasma, il giorno di Halloween, forse se avessi controllato nelle tasche del vestito avrei potuto ancora trovarci i cioccolatini. Il mio piccolo bottino dopo una serata passata porta a porta. Mendicanti di dolci, li chiamano bambini. Ma io bambino non sono, o forse dovrei dire non ero. Avevo vent’anni ed ero seduto su un marciapiede qualunque di un quartiere qualunque di una città qualunque di un mondo qualunque in una vita qualunque. Ero morto, mi sentivo morto, morto con ancora le caramelle nelle tasche. Quale razza di morto avrebbe voluto essere morto la notte di Halloween vestito da fantasma senza ancora aver mangiato i suoi cioccolatini? Quale razza di vent’enne andrebbe ancora in giro a fare dolcetto o scherzetto la notte di Halloween? Ma soprattutto, quale cazzo era il nome di questo morto vestito da fantasma seduto su un qualunque marciapiede e ad aspettare di morire una seconda volta sotto la pioggia? 
Era buio, buio e pioveva.
Ero morto oppure no?
I morti lo sentono il dolore?
Quando uno muore c’è una parte che rimane viva o si diventa soltanto cibo per vermi?
Non ricordo il mio nome, doveva essere un nome come… Jake, o Jason. Mi piace il nome Jason, si addice ai miei capelli neri. 
L’unica cosa che so di me è che sono basso, morto e pure basso! Prendetela una persona viva più sfigata di me. Di me so che ho i capelli scuri e lunghi, tanto lunghi da coprirmi gli occhi e di me so che nella mia vita passata (se mai ne abbia avuta una) devo essere stato innamorato, perché adesso che sono morto, seppur morto, ho lo stomaco dolorante, vuoto, come se qualcuno l’avesse calpestato, e credetemi non può essere fame, i morti fame non ne hanno. Deve essere questa la sensazione che provoca l’amore. L’amore calpesta, butta a terra e non tira su, l’amore non fa resuscitare, neppure un morto come me, un morto senza nome e ragione.
L’amore ti fa avere fame anche se hai appena smesso di mangiare.
Il vuoto, la voragine, i rimpianti, sento lo stesso anche se sono morto? Che rimpianti avrei dovuto avere poi? Ricordavo poco e niente. 
Mi sono alzato dal mio marciapiede, se fossi andato a spaventare qualche vecchietta? Nah, questo era troppo da fantasmi. Ero vestito da fantasma, ma magari ancora non lo ero. 
Ho messo le mani in tasca, i cioccolatini erano ancora lì, nemmeno uno sciolto, dovevano essere morti con me. Ho trovato un bigliettino nella tasca destra e l’ho tirato fuori. Le mie mani erano calme, non avevo freddo, ero solo freddo. Dovevo proprio essere morto morto. Il bigliettino era stropicciato, bagnato, ma sono riuscito ad aprirlo. C‘era scritto qualcosa, forse per me, forse l‘avevo avuta una vita prima di morire. 
 
Non devi andarci Frankie, non ti riguarda.
A discapito degli altri… ti amo, non te l’ho mai detto, te lo scrivo. 
G. 
 
E qualcuno doveva avermi amato. G. mi aveva amato. Qualcuno, davvero, aveva potuto amare uno come me? Uno che come me doveva essere sembrato morto pure da vivo. La mia G. mi aveva amato. Gianna? Dio, speravo di no. Gertrude? Giulie? Odiavo i nomi femminili, di questo ne ero sicuro. Odiavo il loro sembrare sempre estremamente vanitosi anche quando magari il soggetto in questione non lo era. 
E se il biglietto fosse stato per qualcun altro? Per un qualsiasi altro Frankie dell’universo? No, solo un morto come me poteva avere un nome del genere. ‘Frankie’, Dio, ero sul serio una checca da primi anni del liceo? 
Non smetteva di piovere, non un attimo, nemmeno per lasciare ai miei pensieri di prendere aria e intanto guardavo le mie scarpe che erano piene di pioggia esattamente nello stesso modo in cui la mia testa era piena di domande, dubbi che sbocciavano come fiorellini in primavera senza una primavera. Primavera. Ricordo di aver amato la primavera, in qualche modo. Al ricordo di una qualsiasi primavera mi sono sentito a casa, dovevo essere stato felice, da vivo. Ma adesso ero morto, morto e completamente solo, ignorato anche dagli altri morti. In primavera dovevo aver amato anche io, come la mia G. Forse anche io ho amato la mia G in silenzio, come aveva fatto lei. ‘Ti amo, non te l’ho mai detto, te lo scrivo‘. Doveva essere stato un amore strano quello tra questo ‘Frankie e la sua G’. E dovrei smetterlo di ripeterlo, suona davvero male… e strano
Ero morto, ma sveglio e non avevo un impiego al momento, solo tanto tempo da perdere. È strano aver tempo da perdere se non sei più vivo. Di solito, se si pensa alla morte, si cerca di non sprecarli i momenti che si hanno a disposizione, ma adesso che sono morto, morto sul serio, non so che farmene di tutti i momenti che avrò di fronte, di tutto quel tempo eterno da passare solo, tutti i giorni che saranno soltanto come infiniti pomeriggi di domenica.
Ma ve la immaginate una vita fatta solo di domeniche pomeriggio? Altro che morte.
Mi sono alzato dal marciapiede, strizzando con entrambe le mani un lembo del mio vestito da fantasma. ‘La vita è una merda sia da vivi che da morti'. 
'Ma qualcuno se ne accorgerebbe mai? A qualcuno importerebbe? A nessuno importa che io sia già morto, morto a vent’anni, un paio di cioccolatini nelle tasche e un bigliettino d’amore?’, la mia testa parlava da sola. 
Era tutto vuoto attorno a me, le case spente, buie, nessuna luce accesa, il mondo di notte dormiva e mentre dormiva, il male là fuori si muoveva. Doveva essere ancora la notte di Halloween, perché le case erano ancora addobbate come Natale e nell’aria c’era ancora odore di zucchero e bruciato. Dov’ero finito? Sarei mai riuscito ad uscire da questo piccolo inferno privato dove ero destinato a vagare in eterno, senza amore e senza un vero fine? Se vi capiterà di pensare che la vostra vita non ha senso, gente, pensate al vostro Frankie, ‘il fantasma di quartiere’ il quale ha addirittura una morte che non ha senso e non credo ci sia qualcosa di peggio. 
Con la pioggia che lavava via la mia vecchia vita e mi inumidiva le ossa con questa nuova morte, mi trascinavo, come il più classico dei fantasmi che si porta ancora dietro le catene dei rancori e dei rimpianti. Ero morto, ma dovevo avere ancora un cuore, perché avevo iniziato a seguirlo. O forse seguivo soltanto l’unica luce accesa che veniva dalla casa infondo alla strada, altro che cuore. Magari un cuore neppure ce l’avevo più. 
Mi trascinavo pian piano, magari stavo levitando senza accorgermene e il pensiero mi ha fatto rabbrividire. Era una di quelle ‘cose da fantasmi’ ancora troppo lontane per me. Se avessi mai dovuto fare ‘qualcosa da fantasma’ sarei rimasto per il resto dell’eternità nell’angolino di una cantina buia, aspettando che qualche umano fuori dal comune si fosse accorto di me. Nessuna catena trascinata per le scale, niente urli alle tre di notte, niente apparizioni da infarto. Sarei rimasto solo, a farmi marcire le ossa da morto al buio. Ecco cosa avrei fatto da bravo fantasma. 
Mi sono avvicinato alla casa, l’ho osservata a lungo, tenendo gli occhi socchiusi a causa della pioggia che continuava a cadermi addosso, senza pietà o tregua, come in un fottutissimo film in cui la pioggia cade sempre nei momenti più drammatici. Ho guardato verso la finestra con la luce accesa, chi poteva restare sveglio a quell’ora della notte, ancora? Forse qualche vivo che si sentiva morto tanto quanto me. 
Ero morto, non un vampiro e non potevo semplicemente saltare per arrivare alla finestra. Il mio cervello da fantasma era ancora più lento di quanto doveva essere stato da vivo ed era uno schifo. Mi sentivo uno zombie ai primi stadi. O forse soltanto un’idiota un po’ sballato all’ultimo degli stadi. 
Mi sono tolto il vestito da fantasma e l’ho lasciato a terra, rimanendo soltanto in jeans e t-shirt. Di notte ogni azione prende un senso diverso. Scalare una casa per entrare nella stanza dove avrei potuto trovare anche una tredicenne in procinto di infilarsi il pigiama… beh, di giorno sarebbe stato molto più tragico. La notte copre, copre anche un morto come me. Ma la curiosità vinceva su qualunque regola di civiltà, così come la pioggia aveva vinto sulla mia morte. 
Ho iniziato ad arrampicarmi, cercando di infilare bene i piedi nei vuoti che i mattoni lasciavano. Ero piccolino, agile, ma senza un briciolo di forza nella braccia, dannazione. Perché, Dio? Basso, magro, morto e terribilmente fragile. Magari guardandomi allo specchio avrei scoperto anche di essere brutto, sai che sorpresa. 
Sono scivolato più di un paio di volte e… un morto sanguina? Sente il dolore? Mi sono sbucciato le braccia e strappato i pantaloni già fradici, ma stavo riuscendo a salire. E non erano neanche tre metri. ‘Fanculo, sono morto, non posso morire di nuovo’, mi sono detto mentre guardavo in basso e sentivo le vertigini. 
Ho fatto un ultimo sforzo e con le braccia mi sono appoggiato sul davanzale della finestra aperta, cercando di tirarmi su. Sospeso per aria, con una gamba appoggiata a malapena su un mattone che sporgeva e l’altra penzoloni ho guardato dentro l’unica stanza illuminata che avevo visto lungo tutta la strada. Non era di una tredicenne quella stanza disordinata, quelle mura su cui dominava una scritta. 

I’m not dead, I only dress that way
 
Ho sentito il cuore sbattere in modo incontrollabile contro il petto, per qualche attimo, per poi sentirlo smettere d’un colpo, arrestarsi d’improvviso. Che morto del cazzo che ero. Morto con ancora un cuore che si agitava per un paio di capelli neri, scompigliati come matite scure messe in disordine su un tavolino da disegno. Era di spalle e i capelli lisci e scuri come le piume di un corvo le ricadevano su quel volto che ancora non riuscivo a vedere. Doveva avere un volto delicato. Ho osservato a lungo il suo cappuccio nero, il modo in cui la felpa le copriva le piccole spalle e in cui piano le stava per scivolare giù dalla spalla sinistra. Ho indugiato su quel collo scoperto come un vampiro e mi sono soffermato sulle sue converse scure e rovinate da tutti quegli anni passati a correre che tamburellavano sul pavimento, tenendo il tempo di chissà quale canzone stesse cantando nella mente. Le spalle andavano su e giù, non avevo notato che stesse piangendo. L’ho vista lasciarsi abbandonare sulla sedia lentamente e poi lasciar cadere il braccio fuori dal bracciolo. Qualcosa di rosso colava sul pavimento mentre l’altra mano lasciava scivolarsi dalle dita qualcosa di appuntito. Il suono della lama che cadeva sul pavimento mi è sbattuto contro le tempie, facendo un rumore tre volte più forte nella mia mente.
Sentivo il mio corpo cedere, ero morto, fragile e dall’energia esauribile. Ero la feccia dei morti, quelli morti morti, quelli con la M maiuscola. 
Sono rimasto a guardare mentre raccoglieva le forze e si asciugava le lacrime e il sangue dal polso. Si è tirata su, piano, sorridendo. - Cosa diavolo non va in me? - ha mormorato tra sé, sicuramente con un sorriso sulle labbra. Ma… mi sono accigliato, pronto a sconvolgermi ulteriormente. Cercavo di tenermi su mentre guardavo quella figura magra e debole alzarsi e voltarsi verso di me. Quando ho incrociato i suoi occhi verdi, appesantiti dalle occhiaie e dal rossore provocato dal pianto, le mie braccia non mi hanno retto più e in meno di un secondo mi sono ritrovato con la faccia per terra, ad assaggiare il buonissimo sapore dell’erba bagnata e piena di fango. - Merda! - ho urlato, sputacchiando l‘erba che mi era finita in bocca. - È un ragazzo - e mi sono ritrovato a ridere, non so se fosse sintomo di pazzia o rassegnazione. Mi sono soltanto sentito un gran coglione per essere rimasto imbambolato guardando qualcuno che pensavo fosse una ragazza. La cosa più strana, la cosa tanto più strana, era che nell’attimo un cui ho guardato i suoi occhi, così terribilmente da ragazzo e così terribilmente distrutti, non ho avuto più nessuna forza nel corpo. Quegli occhi avevano tagliato il filo che mi reggeva, mi avevano svuotato la mente e sono sicuro che anche se avessi avuto ricordi, quegli occhi, li avrebbero annullati tutti per farsi spazio nella mia testa.
E ho creduto, in quell’attimo, quel piccolissimo attimo in cui il suo sguardo è quasi sembrato posarsi su di me, di non aver mai più potuto vedere qualcosa di più bello e più doloroso. Occhi che andavano dritti nello stomaco, altro che cuore. Occhi da cui non c’era nessun davanzale che dava sul mare, ma solo un enorme burrone da cui vedevo tanto nero, così tanto nero da sentirmi schiacciato, come immerso in una piscina di petrolio. I suoi occhi erano verdi, come la primavera, come le mie sensazioni quando sentivo di esser stato vivo sul serio, una volta. Erano verdi, ma neri come la notte, oscuri come le cose in cui ero immerso, neri come la mia morte. 
Cosa c’era che non andava in lui?
I lineamenti del viso erano davvero delicati come li avevo immaginati, anche se non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte ad un ragazzo quando avevo visto la sua schiena. Dio, avevo un nome da checca e un comportamento da checca. 
Cosa c’era che non andava in me?
Quando mi sono girato di schiena per lanciare un’altra occhiata a quella finestra da dove sembrava spuntare il sole in mezzo ad una notte così scura, ho alzato lo sguardo e il suo viso sospettoso guardava in basso, senza vedermi. La mia caduta aveva spezzato un ramo e fatto un gran casino. Perché avevo l’impressione che ogni cosa che avevo fatto in vita fosse sempre stata un gran casino? Si è passato una mano tra i suoi lunghi capelli neri e si è seduto sul davanzale, accendendosi una sigaretta, con lo sguardo dello stesso colore de petrolio che fissava un punto lontano, nella notte. Osservavo come le nuvole di fumo che uscivano dalla sua bocca rimanevano nell’aria, per poi dissolversi come ricordi, lentamente. 
Le sue gambe penzolavano fuori dalla finestra, dondolando. Non mi ero accorto di essere rimasto sdraiato sulla schiena a guardarlo quando d’improvviso con gli occhi della mente, senza riuscire a controllarli, ho visto il suo viso delicato urlarmi contro, in una stanza vuota, bianca, senza finestra né porte. Urlava, la scena era offuscata e le immagini ruotavano, ma i suoi occhi incazzati e delusi li vedevo bene. Mi urlava contro, con la voce disperata di chi tenta tutto per salvare qualcun altro. ’Non devi farlo, non m’importa!’. Mi scuoteva. ’Non farlo, non me ne frega niente, ti prego, Fran…!’, l’immagine si era dissolta. Quel flash durato nemmeno un minuto era un ricordo appartenuto ad una vita, la mia e quel ragazzo ne aveva fatto parte.
Ero stato vivo. Ma perché ero morto? 
Basso, magro, fragile. Avevo vent’anni ed era la notte di Halloween.
Avevo vent’anni ed ero morto, con ancora i cioccolatini e un bigliettino d’amore nelle tasche.
Ero morto che ero vuoto, come l’ultimo degli innamorati. La morte mi aveva portato via non solo i ricordi, ma anche l’amore.     
  
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