2. Il sorriso di un agnello
A
quell’ora la chiesa era deserta e quasi completamente al buio, se non per
alcune candele ormai consumate che facevano una fioca luce verso l’altare
spoglio, tranne che per una pala di legno che doveva essere abbastanza antica.
Da lì non riusciva a vedere bene cosa vi fosse raffigurato, ma le ombre che
intravedeva gli fecero pensare ad una lotta tra un angelo e un demone.
Severus
Snape sentiva di averla dentro di sé quella lotta, nonostante gli anni passati
e nonostante fosse addirittura creduto morto.
E
avrebbe preferito che tutto restasse tale, ma la sua dannata curiosità lo aveva
portato verso il cimitero che avrebbe dovuto accogliere il suo corpo freddo sul
quale ancora si sentiva l’odore del sangue e dell’aria stantia della Stamberga
Strillante, poteva percepirlo anche adesso.
«I fantasmi non puzzano!», di nuovo le sue labbra si stirarono in un sorriso,
stavolta più ampio perché nessuno era lì a osservarlo.
Severus
Snape non era un fantasma, puzzava di morte, di sangue, gli aromi che tuttora lo
nauseavano erano il dolore e la colpa che non si erano ancora dissolti
nell’aria, ma erano rimasti con lui come fedeli compagni, e ringraziava che
nessuno potesse sentire quegli odori che sarebbero stati soltanto per lui.
L’acuto
suono di una campana lo aveva spinto all’interno di quella piccola chiesa
accanto al cimitero, celata da alcuni alberi e buia, proprio come sentiva la
sua anima: oscura e nascosta da un fitto intrico di rami.
Camminò
lentamente lungo la stretta navata centrale, i suoi passi si udivano appena
sulla pietra consumata da anni e anni di preghiere e canti.
Man
mano che si avvicinava all’altare, una dolce litania si faceva via via più
forte, anche se piuttosto tenue rispetto a un normale livello di voce, si voltò
per cercare la fonte di quelle parole, ma non vide nessuno.
Non
era mai stato dentro una chiesa e pensò che fosse la suggestione a fargli
sentire simili voci.
Durante
la sua vita aveva letto numerosi libri riguardanti la religione, ma nessuno lo
aveva fatto accostare a essa, credeva che fosse una mera consolazione inventata
dai Babbani per sopportare meglio la cruda realtà della vita.
E
se c’era una cosa che
Allora
perché era entrato lì dentro?
Severus
Snape non seppe dare una risposta, voleva soltanto vedere com’era addentrarsi
in un posto simile, inginocchiarsi e pregare un’entità invisibile.
Si
fermò davanti la pala d’altare a osservare quelle figure che finalmente gli
apparivano nitide: un’ombra nera ricopriva una parte del legno, sprigionata
dalle ali di un demone, e inghiottiva un agnello che urlava straziato alla
madre morta accanto a esso.
Ripensò
a quella notte a Godric’s Hollow e si sentì di colpo un agnello straziato che
urlava alla morte e un demone nero che si era macchiato le mani del sangue
della sua Lily.
Come
potevano dire che fosse un eroe?
Sulle
sue labbra si dipinse un aspro sorriso che gravava più di un macigno sulle
spalle, si piegò per un attimo sentendo le gambe pesare e dovette stringere con
forza le dita pallide sul marmo dell’altare per non cadere sul pavimento.
Era
quello il peso che ti spingeva a inginocchiarti a terra?
Severus
Snape si sarebbe piegato e avrebbe pregato per tutta la vita se solo gli fosse
concesso un solo giorno senza quelle lame a tormentargli l’anima.
Sapeva
però che questi privilegi erano riservati ai giusti, e lui non lo era.
Era
il demone che con la sua ombra inghiottiva ogni cosa e il suo aspro sorriso era
l’urlo atroce di un agnello, poteva sentirlo farsi agghiacciante e tagliente nella
sua testa.
La
luce dell’angelo che combatteva quell’oscurità la notò appena, forse perché
aveva sempre pensato che in lui non vi fosse neppure il frammento di un
bagliore.
Cercò
di mantenere l’equilibrio fissando la raffigurazione sull’altare, ma
all’improvviso quella sembrò prendere vita e animarsi davanti ai suoi occhi che
guardavano sconcertati la scena che pian piano mutava.
Le
ali del demone si mossero, spostando l’aria con il loro battito, poi si
disciolsero in una nube cupa, densa, che quasi si poteva toccare, ma le dita di
Severus passarono deformandola appena, e in un attimo si condensò intorno alla
nera creatura avvolgendola completamente.
Sembrava
una lugubre veste, sembrava la sua lugubre
veste.
Non
riusciva a capire il senso di tutto quello e non riusciva a capire perché
semplicemente non se ne andava lontano da lì, ma le gambe non rispondevano,
rimasero immobili, così come gli occhi non erano in grado di distogliere lo
sguardo.
L’angelo
cadde a terra, le ali strappate da una spira verde fuoriuscita dalla bocca del
demone, il cui urlo terrificante echeggiò per le spesse pareti della chiesa,
guardò il sangue che invece di colare lungo la schiena, risalì sulla pelle fino
a raggiungere i capelli dorati della creatura celeste che in un attimo si tinsero
di rosso.
Il
rosso della sua Lily.
Severus
non riusciva a trovare una spiegazione a ciò che stava vedendo, riteneva che
fosse tutto frutto della sua immaginazione, un’immaginazione crudele che non
faceva altro che mostrargli quel dolore e quella colpa radicati nel profondo
della sua anima.
Il
piccolo agnello voltò il muso per guardare negli occhi Snape, gli sorrise, un
sorriso malvagio che presto si trasformò in una bocca spalancata urlante, un
urlo disperato che lo fece rovinare a terra sotto il peso di tutti quegli anni
che improvvisamente gli si rovesciarono addosso.
Inginocchiato
sul freddo pavimento, non riusciva più a sostenere quella vista, ma
l’improvviso trasformarsi di quell’agnello lo spinse a guardare di nuovo: il
bianco del suo manto stava mutando, si sciolse e si addensò fino a prendere le
sembianze di un bambino, una piccola creatura piangente con gli occhi di un
verde così luminoso che gli accecò la vista.
Il
verde della sua Lily.
E
pianse, pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, pianse guardando il suo
dolce amore che spariva nell’ombra lasciando solo il piccolo agnello, pianse
tutto il dolore che aveva causato con le proprie mani.
Pianse
pregando invano che tutto quello finisse.
«Ti
prego, basta.» furono le uniche parole che riuscì a pronunciare tra le lacrime,
ma la rappresentazione continuava a muoversi e a urlare in maniera orribile.
Eia, mater, fons amóris, me
sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam.[1]
Sentì
una voce carezzargli il viso, ma non c’era nessuno che avesse potuto
pronunciare quelle parole di cui non riusciva a comprendere il significato.
Che
cosa voleva dirgli quella voce così effimera?
Lui
voleva soltanto che tutto finisse, che quelle creature tornassero al loro posto
con le loro sembianze originali, voleva uscire da lì e continuare a sorridere
sotto il caldo sole.
C’era
un motivo per il quale aveva deciso di tornare, e non era di certo rivivere
ogni tormento, non in quel modo, sapeva che quei dolori e quegli errori
avrebbero sempre fatto parte di lui accompagnandolo fino alla fine dei suoi
giorni, erano le numerose spine conficcate nella carne delle molte rose di
sangue che aveva piantato.
L’angelo
e il demone si staccarono dalla pala d’altare e volarono verso il volto di
Snape, con forza lo spinsero a terra, costringendolo a spalancare le labbra per
potervi entrare, e le flebili fiamme delle candele esplosero in fuoco rovente e
abbagliante mentre il piccolo agnello gli si conficcò nel cuore, poteva
sentirlo penetrare lentamente e dolorosamente come una spada.
L’urlo
che proruppe dalla sua gola scosse le pareti di pietra, facendolo tremare
mentre le lacrime ancora sgorgavano come un fiume in piena.
Sentì
quelle creature entrargli fino in fondo, e poi tutto cessò. La chiesa tornò
avvolta dal silenzio e le candele tornarono a illuminarla debolmente.
Severus
Snape si alzò da terra rapidamente e uscì correndo per allontanarsi da quella
scena pietosa, incurante di quella nenia che ancora risuonava nel buio di
quella chiesetta, muovendo appena le flebili fiamme delle candele consunte.
Si
ritrovò a respirare nuovamente l’aria fresca che c’era fuori, sebbene il suo
respiro fosse ancora spezzato dal dolore e dalle lacrime, ma quella frescura e
i raggi del sole riuscirono ad acquietare un po’ il suo animo squassato da una tetra
tempesta.
Volse
nuovamente i passi verso la sua tomba e si fermò per qualche istante a
osservare uno a uno i caratteri che vi erano vergati, come se ognuno gli
raccontasse un pezzo della sua storia, come se ognuno fosse una parte della sua
anima che si era riunita lì, sul freddo e immobile marmo che avrebbe dovuto
accogliere le sue spoglie per sempre.
Sorrise
ancora e ancora a quella vista, mentre le lacrime sgorgavano pian piano dai
suoi occhi, la sua bocca gli mostrò di nuovo l’ironia di tutta quella
situazione: lui che in carne e ossa osservava la sua tomba.
Le
immagini che aveva visto muoversi sulla pala d’altare sembravano svanire dalla
sua mente, ma sapeva che dal suo cuore non sarebbe mai stato in grado di
rimuoverle, e non avrebbe mai voluto, a ricordo di tutto ciò che era stato e di
ciò che aveva fatto.
I
fiori che Ronald Weasley gli aveva portato giacevano ancora lì, sulla lastra di
pietra, a memoria di qualcuno che teneva a lui, ma chi avrebbe potuto tenere a
un simile mostro?
«Eia,
mater, fons amóris, me sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam.», questa volta
la voce era nitida, fuoriuscita da delle labbra reali, e ruotando appena il
viso, vide un’anziana signora che veniva verso di lui, con passo malfermo
avanzava sorretta da un bastone.
Le
ricordava Minerva, con tutta la sua fierezza e la sua forza, ma questa donna
era minuta, curvata sotto il peso degli anni, dei bianchi capelli raccolti in
una crocchia, sporcati da un po’ d’argento le delineavano il volto coperto da
rughe che segnavano il tempo passato, e sulle mani aveva vene così sporgenti
che avrebbe potuto vedere lo scorrere del sangue.
«Cosa
significa?» chiese Snape all’anziana donna. Conosceva il latino, ma il significato
di quelle parole riferite a lui, gli era oscuro.
«Permettimi
di piangere insieme a te.» gli rispose la donna con tutta la fierezza dei suoi
anni, poteva sentire l’odore dei campi che aveva lavorato per tutta l’esistenza,
della terra che gli aveva sporcato le mani, il profumo della farina.
Sorrise
a quell’anziana signora, un sorriso caldo, sincero, e lei ricambiò con uno dei
più bei sorrisi che avesse mai visto, sapeva di vita e di amore, aveva l’aroma
della speranza e della gioia.
Gli
invase il cuore.
«Nessuno
può piangere insieme a me.» un soffio rassegnato di dolore fuoriuscì dalle sue
labbra, ma la donna continuava a sorridergli.
«Era
un suo amico? Qualcuno a cui voleva bene?» domandò la donna rivolgendo lo
sguardo alla tomba.
Snape
non capì subito a chi si riferisse, ma poi vide la mano indicare il suo
sepolcro e sorrise di nuovo, era buffo, chiunque lo avesse trovato lì con gli
occhi lucidi avrebbe pensato che stesse piangendo per l’anima sepolta sotto
quel cumulo di terra, e questo lo trovava ironico.
«Era
un amico col quale ho condiviso tutta la vita, ma non so se gli volevo bene,
anzi, credo che non gliene abbia mai voluto e tuttora lo odio.»
«È
strano venire a piangere sulla tomba di qualcuno che si odia.»
«Lo
so.» stavolta nessun sorriso accompagnò le sue parole, si odiava, odiava tutto
ciò che era stato e tutto ciò che aveva fatto, si odiava perché la sua vita era
stata un completo disastro e si odiava perché tutti lo consideravano un eroe
che non era.
«Perché
ti odi?» quella domanda lo sconcertò. Chi era realmente quella donna?
Snape
non rispose, si limitò a fissarla con gli occhi sbarrati per l’incredulità.
«Cuius ánimam geméntem,
contristátam et doléntem pertransívit gládius.[2] Sento
il tuo animo afflitto e vedo cosa ti tormenta, e questo mi trafigge, proprio
qui,» e si portò una mano rugosa sul petto, «una lama nel cuore.» le dita le
tremavano mentre parlava.
«Chi è lei, esattamente?»
chiese turbato Severus che cominciava a vacillare sotto lo sguardo di quella
donna così forte e sofferente al contempo.
«Sono il tuo demone, il tuo
angelo e il tuo agnello. Sono quello che nascondi.» Snape continuava a
guardarla senza capire, mentre uno stormo di corvi adombrò per qualche istante
il sole prima di posarsi ognuno su una tomba diversa come se ciascuno di essi
fosse il custode.
«Io non nascondo nulla, in me
non c’è niente, soltanto ombra.»
«Dentro
di te c’è un demone, ma c’è anche un angelo, solo che in realtà sei quel
piccolo agnello che piange addolorato per le numerose perdite e per le colpe che
non riesce a buttare fuori neppure con il suo canto straziato.»
«Io
non sono un agnello innocente.»
«No,
non lo sei, c’è molto in te, ed io riesco a vederlo, chiamala saggezza
dell’età, chiamala che in questo stadio della mia esistenza posso scorgere parecchie
cose che a molti sfuggirebbero, ma so quello che ho visto, so quali sfumature
emana la tua anima.» Severus avrebbe voluto gridarle che nessuno poteva vedere
quello che si sprigionava dall’ultimo brandello della sua anima, persa ogni
volta che si macchiava di un’atroce colpa, nessuno avrebbe potuto scorgere il
sangue di ogni innocente che aveva ucciso, colorargli il cuore.
«Io
sono soltanto un demone.»
«Sei
anche un angelo che ha pianto e si è redento con sacrificio ed espiazione.»
«Lei
si sbaglia.»
«E
sei anche un piccolo agnello indifeso e il tuo sorriso ne è la prova. Sai
distruggere come un demone, sai essere giusto come un angelo e il tuo sorriso è
quello di un piccolo agnello innocente che ancora deve avere qualcosa dalla
vita.» poteva ancora vedere dei piccoli pezzi di quell’assurdo e dolente
spettacolo cui aveva assistito in quella piccola chiesa. Che cosa, in realtà,
aveva significato vedere tutto quello? Cosa avrebbe dovuto mostrargli quella
rappresentazione?
Severus
Snape aveva moltissime domande, ma ben presto dovette rassegnarsi al fatto di
non avere nessuna risposta.
«Lei
si sbaglia.» ripeté Snape più per cercare di convincere se stesso che l’anziana
donna.
«Sai
sorridere, Severus.»
«Come…
come fa a conoscere il mio nome?»
«Ti
ho già detto chi sono, e per questo conosco il tuo nome.»
«Cosa
vuole da me?»
«Sorridi
come un piccolo agnello, e prenditi finalmente ciò che la vita ha riservato per
il tuo futuro.»
Un
piccolo lume adagiato sulla tomba cadde facendo spegnere la tenue fiamma,
Severus si abbassò per rimetterlo al suo posto, era caldo e il rosso della cera
gli colorò le mani, per un attimo gli parve di nuovo di vedere del sangue
scorrere tra le dita.
«Io
non sono un…» alzò gli occhi dalla tomba, ma l’anziana signora era scomparsa,
non c’era nessuna traccia di lei, delle sue rughe e dei suoi anni. Neppure del
suo sorriso.
Quae moerébat et dolébat, et tremébat, cum vidébat
nati poena ínclyti.[3]
Il
flebile alito di quella nenia lo colpì dritto nell’anima con una fresca folata
di vento, aveva capito che si trattava di una preghiera, un’invocazione che non
c’entrava nulla con lui e si sentiva blasfemo anche solo per esservi stato
accostato.
La
preghiera per qualcuno che non era, poteva vedere l’ombra del demone che aveva
fatto scorrere sangue sulla terra e la luce dell’angelo che aveva sacrificato
la sua vita.
Rimase
in quel cimitero ancora a lungo, sorridendo amaramente alla sua vita, ai suoi
dolori e ai suoi tormenti.
E
a quei fiori che ancora erano lì.
Severus
Snape sapeva sorridere.
Il
suo però non era il sorriso di un agnello.
[1] Orsù, Madre, fonte
d’amore, dammi la forza nel dolore perché possa piangere con te (Stabat Mater –
Stava
[2] E il suo animo afflitto,
inconsolabile e dolente, era trafitto da una spada. (Stabat Mater – Stava
[3] Era afflitta e addolorata,
e tremava al vedere le pene del Figlio sofferente. (Stabat Mater – Stava