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Autore: Cheonefer86    07/06/2013    1 recensioni
Severus Snape è morto e sulla sua tomba ci sono dei fiori, sembra tutto normale, terribile ma normale. E invece... quel che comincia nella commedia finirà nel dramma. O forse no?
Il giorno del giudizio arriverà per tutti, si tratta solo di vedere cosa gli è riservato.
"«Sei solo una lapide, non mi fai paura. Solo delle lettere e non mi fate paura.» ripeteva per cercare di convincere se stesso, ma Ronald Weasley sapeva che bastava anche solo il nome del mago che giaceva sotto terra, per trasalire al ricordo di tutto quello che lui e i suoi amici avevano passato tra le grinfie di Severus Snape. «Non mi fai paura!» urlò alla pietra."
Genere: Angst, Commedia, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Minerva McGranitt, Nuovo personaggio, Ron Weasley, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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Trilogia del Cimitero

 

2. Il sorriso di un agnello

 

 

A quell’ora la chiesa era deserta e quasi completamente al buio, se non per alcune candele ormai consumate che facevano una fioca luce verso l’altare spoglio, tranne che per una pala di legno che doveva essere abbastanza antica. Da lì non riusciva a vedere bene cosa vi fosse raffigurato, ma le ombre che intravedeva gli fecero pensare ad una lotta tra un angelo e un demone.

Severus Snape sentiva di averla dentro di sé quella lotta, nonostante gli anni passati e nonostante fosse addirittura creduto morto.

E avrebbe preferito che tutto restasse tale, ma la sua dannata curiosità lo aveva portato verso il cimitero che avrebbe dovuto accogliere il suo corpo freddo sul quale ancora si sentiva l’odore del sangue e dell’aria stantia della Stamberga Strillante, poteva percepirlo anche adesso.

«I fantasmi non puzzano!», di nuovo le sue labbra si stirarono in un sorriso, stavolta più ampio perché nessuno era lì a osservarlo.

Severus Snape non era un fantasma, puzzava di morte, di sangue, gli aromi che tuttora lo nauseavano erano il dolore e la colpa che non si erano ancora dissolti nell’aria, ma erano rimasti con lui come fedeli compagni, e ringraziava che nessuno potesse sentire quegli odori che sarebbero stati soltanto per lui.

L’acuto suono di una campana lo aveva spinto all’interno di quella piccola chiesa accanto al cimitero, celata da alcuni alberi e buia, proprio come sentiva la sua anima: oscura e nascosta da un fitto intrico di rami.

Camminò lentamente lungo la stretta navata centrale, i suoi passi si udivano appena sulla pietra consumata da anni e anni di preghiere e canti.

Man mano che si avvicinava all’altare, una dolce litania si faceva via via più forte, anche se piuttosto tenue rispetto a un normale livello di voce, si voltò per cercare la fonte di quelle parole, ma non vide nessuno.

Non era mai stato dentro una chiesa e pensò che fosse la suggestione a fargli sentire simili voci.

Durante la sua vita aveva letto numerosi libri riguardanti la religione, ma nessuno lo aveva fatto accostare a essa, credeva che fosse una mera consolazione inventata dai Babbani per sopportare meglio la cruda realtà della vita.

E se c’era una cosa che la Storia aveva insegnato, era che Religione e Magia non andavano per niente d’accordo.

Allora perché era entrato lì dentro?

Severus Snape non seppe dare una risposta, voleva soltanto vedere com’era addentrarsi in un posto simile, inginocchiarsi e pregare un’entità invisibile.

Si fermò davanti la pala d’altare a osservare quelle figure che finalmente gli apparivano nitide: un’ombra nera ricopriva una parte del legno, sprigionata dalle ali di un demone, e inghiottiva un agnello che urlava straziato alla madre morta accanto a esso.

Ripensò a quella notte a Godric’s Hollow e si sentì di colpo un agnello straziato che urlava alla morte e un demone nero che si era macchiato le mani del sangue della sua Lily.

Come potevano dire che fosse un eroe?

Sulle sue labbra si dipinse un aspro sorriso che gravava più di un macigno sulle spalle, si piegò per un attimo sentendo le gambe pesare e dovette stringere con forza le dita pallide sul marmo dell’altare per non cadere sul pavimento.

Era quello il peso che ti spingeva a inginocchiarti a terra?

Severus Snape si sarebbe piegato e avrebbe pregato per tutta la vita se solo gli fosse concesso un solo giorno senza quelle lame a tormentargli l’anima.

Sapeva però che questi privilegi erano riservati ai giusti, e lui non lo era.

Era il demone che con la sua ombra inghiottiva ogni cosa e il suo aspro sorriso era l’urlo atroce di un agnello, poteva sentirlo farsi agghiacciante e tagliente nella sua testa.

La luce dell’angelo che combatteva quell’oscurità la notò appena, forse perché aveva sempre pensato che in lui non vi fosse neppure il frammento di un bagliore.

Cercò di mantenere l’equilibrio fissando la raffigurazione sull’altare, ma all’improvviso quella sembrò prendere vita e animarsi davanti ai suoi occhi che guardavano sconcertati la scena che pian piano mutava.

Le ali del demone si mossero, spostando l’aria con il loro battito, poi si disciolsero in una nube cupa, densa, che quasi si poteva toccare, ma le dita di Severus passarono deformandola appena, e in un attimo si condensò intorno alla nera creatura avvolgendola completamente.

Sembrava una lugubre veste, sembrava la sua lugubre veste.

Non riusciva a capire il senso di tutto quello e non riusciva a capire perché semplicemente non se ne andava lontano da lì, ma le gambe non rispondevano, rimasero immobili, così come gli occhi non erano in grado di distogliere lo sguardo.

L’angelo cadde a terra, le ali strappate da una spira verde fuoriuscita dalla bocca del demone, il cui urlo terrificante echeggiò per le spesse pareti della chiesa, guardò il sangue che invece di colare lungo la schiena, risalì sulla pelle fino a raggiungere i capelli dorati della creatura celeste che in un attimo si tinsero di rosso.

Il rosso della sua Lily.

Severus non riusciva a trovare una spiegazione a ciò che stava vedendo, riteneva che fosse tutto frutto della sua immaginazione, un’immaginazione crudele che non faceva altro che mostrargli quel dolore e quella colpa radicati nel profondo della sua anima.

Il piccolo agnello voltò il muso per guardare negli occhi Snape, gli sorrise, un sorriso malvagio che presto si trasformò in una bocca spalancata urlante, un urlo disperato che lo fece rovinare a terra sotto il peso di tutti quegli anni che improvvisamente gli si rovesciarono addosso.

Inginocchiato sul freddo pavimento, non riusciva più a sostenere quella vista, ma l’improvviso trasformarsi di quell’agnello lo spinse a guardare di nuovo: il bianco del suo manto stava mutando, si sciolse e si addensò fino a prendere le sembianze di un bambino, una piccola creatura piangente con gli occhi di un verde così luminoso che gli accecò la vista.

Il verde della sua Lily.

E pianse, pianse tutte le lacrime che aveva in corpo, pianse guardando il suo dolce amore che spariva nell’ombra lasciando solo il piccolo agnello, pianse tutto il dolore che aveva causato con le proprie mani.

Pianse pregando invano che tutto quello finisse.

«Ti prego, basta.» furono le uniche parole che riuscì a pronunciare tra le lacrime, ma la rappresentazione continuava a muoversi e a urlare in maniera orribile.

Eia, mater, fons amóris, me sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam.[1]

Sentì una voce carezzargli il viso, ma non c’era nessuno che avesse potuto pronunciare quelle parole di cui non riusciva a comprendere il significato.

Che cosa voleva dirgli quella voce così effimera?

Lui voleva soltanto che tutto finisse, che quelle creature tornassero al loro posto con le loro sembianze originali, voleva uscire da lì e continuare a sorridere sotto il caldo sole.

C’era un motivo per il quale aveva deciso di tornare, e non era di certo rivivere ogni tormento, non in quel modo, sapeva che quei dolori e quegli errori avrebbero sempre fatto parte di lui accompagnandolo fino alla fine dei suoi giorni, erano le numerose spine conficcate nella carne delle molte rose di sangue che aveva piantato.

L’angelo e il demone si staccarono dalla pala d’altare e volarono verso il volto di Snape, con forza lo spinsero a terra, costringendolo a spalancare le labbra per potervi entrare, e le flebili fiamme delle candele esplosero in fuoco rovente e abbagliante mentre il piccolo agnello gli si conficcò nel cuore, poteva sentirlo penetrare lentamente e dolorosamente come una spada.

L’urlo che proruppe dalla sua gola scosse le pareti di pietra, facendolo tremare mentre le lacrime ancora sgorgavano come un fiume in piena.

Sentì quelle creature entrargli fino in fondo, e poi tutto cessò. La chiesa tornò avvolta dal silenzio e le candele tornarono a illuminarla debolmente.

Severus Snape si alzò da terra rapidamente e uscì correndo per allontanarsi da quella scena pietosa, incurante di quella nenia che ancora risuonava nel buio di quella chiesetta, muovendo appena le flebili fiamme delle candele consunte.

Si ritrovò a respirare nuovamente l’aria fresca che c’era fuori, sebbene il suo respiro fosse ancora spezzato dal dolore e dalle lacrime, ma quella frescura e i raggi del sole riuscirono ad acquietare un po’ il suo animo squassato da una tetra tempesta.

Volse nuovamente i passi verso la sua tomba e si fermò per qualche istante a osservare uno a uno i caratteri che vi erano vergati, come se ognuno gli raccontasse un pezzo della sua storia, come se ognuno fosse una parte della sua anima che si era riunita lì, sul freddo e immobile marmo che avrebbe dovuto accogliere le sue spoglie per sempre.

Sorrise ancora e ancora a quella vista, mentre le lacrime sgorgavano pian piano dai suoi occhi, la sua bocca gli mostrò di nuovo l’ironia di tutta quella situazione: lui che in carne e ossa osservava la sua tomba.

Le immagini che aveva visto muoversi sulla pala d’altare sembravano svanire dalla sua mente, ma sapeva che dal suo cuore non sarebbe mai stato in grado di rimuoverle, e non avrebbe mai voluto, a ricordo di tutto ciò che era stato e di ciò che aveva fatto.

I fiori che Ronald Weasley gli aveva portato giacevano ancora lì, sulla lastra di pietra, a memoria di qualcuno che teneva a lui, ma chi avrebbe potuto tenere a un simile mostro?

«Eia, mater, fons amóris, me sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam.», questa volta la voce era nitida, fuoriuscita da delle labbra reali, e ruotando appena il viso, vide un’anziana signora che veniva verso di lui, con passo malfermo avanzava sorretta da un bastone.

Le ricordava Minerva, con tutta la sua fierezza e la sua forza, ma questa donna era minuta, curvata sotto il peso degli anni, dei bianchi capelli raccolti in una crocchia, sporcati da un po’ d’argento le delineavano il volto coperto da rughe che segnavano il tempo passato, e sulle mani aveva vene così sporgenti che avrebbe potuto vedere lo scorrere del sangue.

«Cosa significa?» chiese Snape all’anziana donna. Conosceva il latino, ma il significato di quelle parole riferite a lui, gli era oscuro.

«Permettimi di piangere insieme a te.» gli rispose la donna con tutta la fierezza dei suoi anni, poteva sentire l’odore dei campi che aveva lavorato per tutta l’esistenza, della terra che gli aveva sporcato le mani, il profumo della farina.

Sorrise a quell’anziana signora, un sorriso caldo, sincero, e lei ricambiò con uno dei più bei sorrisi che avesse mai visto, sapeva di vita e di amore, aveva l’aroma della speranza e della gioia.

Gli invase il cuore.

«Nessuno può piangere insieme a me.» un soffio rassegnato di dolore fuoriuscì dalle sue labbra, ma la donna continuava a sorridergli.

«Era un suo amico? Qualcuno a cui voleva bene?» domandò la donna rivolgendo lo sguardo alla tomba.

Snape non capì subito a chi si riferisse, ma poi vide la mano indicare il suo sepolcro e sorrise di nuovo, era buffo, chiunque lo avesse trovato lì con gli occhi lucidi avrebbe pensato che stesse piangendo per l’anima sepolta sotto quel cumulo di terra, e questo lo trovava ironico.

«Era un amico col quale ho condiviso tutta la vita, ma non so se gli volevo bene, anzi, credo che non gliene abbia mai voluto e tuttora lo odio.»

«È strano venire a piangere sulla tomba di qualcuno che si odia.»

«Lo so.» stavolta nessun sorriso accompagnò le sue parole, si odiava, odiava tutto ciò che era stato e tutto ciò che aveva fatto, si odiava perché la sua vita era stata un completo disastro e si odiava perché tutti lo consideravano un eroe che non era.

«Perché ti odi?» quella domanda lo sconcertò. Chi era realmente quella donna?

Snape non rispose, si limitò a fissarla con gli occhi sbarrati per l’incredulità.

«Cuius ánimam geméntem, contristátam et doléntem pertransívit gládius.[2] Sento il tuo animo afflitto e vedo cosa ti tormenta, e questo mi trafigge, proprio qui,» e si portò una mano rugosa sul petto, «una lama nel cuore.» le dita le tremavano mentre parlava.

«Chi è lei, esattamente?» chiese turbato Severus che cominciava a vacillare sotto lo sguardo di quella donna così forte e sofferente al contempo.

«Sono il tuo demone, il tuo angelo e il tuo agnello. Sono quello che nascondi.» Snape continuava a guardarla senza capire, mentre uno stormo di corvi adombrò per qualche istante il sole prima di posarsi ognuno su una tomba diversa come se ciascuno di essi fosse il custode.

«Io non nascondo nulla, in me non c’è niente, soltanto ombra.»

«Dentro di te c’è un demone, ma c’è anche un angelo, solo che in realtà sei quel piccolo agnello che piange addolorato per le numerose perdite e per le colpe che non riesce a buttare fuori neppure con il suo canto straziato.»

«Io non sono un agnello innocente.»

«No, non lo sei, c’è molto in te, ed io riesco a vederlo, chiamala saggezza dell’età, chiamala che in questo stadio della mia esistenza posso scorgere parecchie cose che a molti sfuggirebbero, ma so quello che ho visto, so quali sfumature emana la tua anima.» Severus avrebbe voluto gridarle che nessuno poteva vedere quello che si sprigionava dall’ultimo brandello della sua anima, persa ogni volta che si macchiava di un’atroce colpa, nessuno avrebbe potuto scorgere il sangue di ogni innocente che aveva ucciso, colorargli il cuore.

«Io sono soltanto un demone.»

«Sei anche un angelo che ha pianto e si è redento con sacrificio ed espiazione.»

«Lei si sbaglia.»

«E sei anche un piccolo agnello indifeso e il tuo sorriso ne è la prova. Sai distruggere come un demone, sai essere giusto come un angelo e il tuo sorriso è quello di un piccolo agnello innocente che ancora deve avere qualcosa dalla vita.» poteva ancora vedere dei piccoli pezzi di quell’assurdo e dolente spettacolo cui aveva assistito in quella piccola chiesa. Che cosa, in realtà, aveva significato vedere tutto quello? Cosa avrebbe dovuto mostrargli quella rappresentazione?

Severus Snape aveva moltissime domande, ma ben presto dovette rassegnarsi al fatto di non avere nessuna risposta.

«Lei si sbaglia.» ripeté Snape più per cercare di convincere se stesso che l’anziana donna.

«Sai sorridere, Severus.»

«Come… come fa a conoscere il mio nome?»

«Ti ho già detto chi sono, e per questo conosco il tuo nome.»

«Cosa vuole da me?»

«Sorridi come un piccolo agnello, e prenditi finalmente ciò che la vita ha riservato per il tuo futuro.»

Un piccolo lume adagiato sulla tomba cadde facendo spegnere la tenue fiamma, Severus si abbassò per rimetterlo al suo posto, era caldo e il rosso della cera gli colorò le mani, per un attimo gli parve di nuovo di vedere del sangue scorrere tra le dita.

«Io non sono un…» alzò gli occhi dalla tomba, ma l’anziana signora era scomparsa, non c’era nessuna traccia di lei, delle sue rughe e dei suoi anni. Neppure del suo sorriso.

Quae moerébat et dolébat, et tremébat, cum vidébat nati poena ínclyti.[3]

Il flebile alito di quella nenia lo colpì dritto nell’anima con una fresca folata di vento, aveva capito che si trattava di una preghiera, un’invocazione che non c’entrava nulla con lui e si sentiva blasfemo anche solo per esservi stato accostato.  

La preghiera per qualcuno che non era, poteva vedere l’ombra del demone che aveva fatto scorrere sangue sulla terra e la luce dell’angelo che aveva sacrificato la sua vita.

Rimase in quel cimitero ancora a lungo, sorridendo amaramente alla sua vita, ai suoi dolori e ai suoi tormenti.

E a quei fiori che ancora erano lì.

 

Severus Snape sapeva sorridere.

Il suo però non era il sorriso di un agnello.



[1] Orsù, Madre, fonte d’amore, dammi la forza nel dolore perché possa piangere con te (Stabat Mater – Stava la Madre).

[2] E il suo animo afflitto, inconsolabile e dolente, era trafitto da una spada. (Stabat Mater – Stava la Madre)

[3] Era afflitta e addolorata, e tremava al vedere le pene del Figlio sofferente. (Stabat Mater – Stava la Madre)

   
 
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