ZENZERO E CANNELLA
Capitolo 13.
Il venti aprile del millenovecentoquaranta, con un urlo a pieni polmoni e con
qualche settimana d’anticipo, si affacciò al mondo Benjamin Hani
Chedjou.
Quando lo vidi smisi
di respirare quasi, baciandolo, confondendo il mio pianto al suo; era
bellissimo, gli occhi mesti per la fatica e il faccino a cuore imbronciato, la
pelle ambrata sotto le crosticine bianche di muco e un infinità di capelli
castani chiaro. Molto chiaro.. quasi cenere.
Mi aspettavo
commozione e partecipazione, ma non credevo a tal punto; papà aveva preso
dimora sul divano da giorni, Ines e Clorine -pronte
da mesi- avevano allestito una piccola nursery nella stanza degli ospiti
accanto alla nostra degna di un principino, Martin andava e veniva perché qualcuno
doveva pur pensare agli affari di bis-nonno Chedjou
ed Aurelien era in visibilio, totalmente stregato dal nuovo arrivato.
“Stiamo bene vi dico.
Tornate a riposare. O fatelo finalmente.” Guardai il gruppetto di familiari Bonnet-Chedjou stipati intorno al letto durante l’ora della
pappa, “domani ci troverete sempre qui. Vero marmocchio?!” Benjamin approvò con
un gorgoglio profondo dalla gola; tutti risero, più rilassati e sereni.
“E’ un vero despota.” Aurelien
mi baciò i capelli, sparendo dietro la piccola processione.
“Mamma tu resta.” Ines
si allarmò, credo vagamente infastidita dall’esclusione, la guardai sfoderando
uno sguardo d’ammonimento da neo-mamma, “hai bisogno di riposare anche tu Ines.
Non farti pregare..” alzò le spalle, si accigliò e andò via.
“I suoi capelli.”
“Buon Dio Deesire, ha solo pochi giorni.. anche tu eri bionda. O forse
era Cedric?!”
“I suoi occhi.”
“Gli occhi dei neonati
sono mutevoli.”
Mi poggiai una mano
sulla fronte. “Occhi verde-azzurro.. mutevoli?!”
“Ok è un Moreau. Vuoi
sentirti dire questo?! Tecnicamente è anche uno Chedjou,
però. Guarda i suoi lineamenti, la sua pelle ambrata.. oddio il broncio è del
pittore senza dubbio.” Annegai nella sua indecisione senza però escluderla da
uno sguardo assassino. “Oh.. guarda cosa mi fai farneticare! E’ troppo presto
per dirlo, questa è la mia sentenza.”
Tempo. Era tutta una
questione di tempo, eppure nella vita –e questo lo imparai sulla mia pelle-
c’erano sentenze che non lo avevano a capo come giudice supremo, bastava
restare in ascolto del sesto senso o delle emozioni fate voi, per arrivare al
punto. Fatto sta che dal primo momento in cui avevo accolto Benjamin fra le
braccia, avevo respirato il suo odore forte di vita, lo avevo sentito urlare aggrappandomi
forte alle lenzuola di lino crema, i presentimenti che avvertivo nella pancia
come quando avevo scoperto d’aspettarlo si riproposero in pompa magna.
E non solo quelli.
A due settimane dal
parto ero già in piedi; il piccolino non voleva saperne di essere trattato come
l’esserino gracile che era e poppava forsennatamente tutto il latte di cui
necessitava. Un leone, nel corpo di gazzella, già.. avevo sentito parlare di
questo una volta. Mi districavo fra un impegno e l’altro, il libro, Gerald che
temporeggiava sui britanni al momento ingrovigliati nel conflitto contro il
terzo reich e l’operazione caritatevole che avevo mosso per i soldati al
fronte, con il massimo delle forze; ero giovane e in salute, inquieta e
incredibilmente appassionata. E a proposito di passioni.. sistemavo con molta
premura la corrispondenza nel disordine organizzato di Aurelien, quando una
busta scivolò dalla mia presa e finì in terra; Benjamin dalla carrozzina raso e
merletti rispose con un mugolio simile ad un “Oh” quasi canzonatorio, attirato
dalla mia imprecazione.
Mi chinai a
raccoglierla, era una busta bianca anonima ed era indirizzata a me.
“La mamma è
distratta.” Sfilai il taglia carte lungo tutto il bordo estraendo il biglietto;
avrei riconosciuto la sua scrittura anche ad occhi chiusi. Piccola e
tondeggiante. Sussultai.
“Mia dolce Deesire, le
oscenità di questo mondo sono oscurate dalla bellezza delle tue parole.
Le mie notti allo Zenzero
e Cannella ringraziano, anche se il loro sapore adesso è diverso.
Ho saputo della lieta notizia. I sogni si avverano,
dunque.
Sono tre volte che cerco di scrivere qualcosa di
sensato ma..
Ti prego, non cercarmi più per il mondo; è già così
difficile sopportarti dentro il mio cuore.
F.M”
Aveva avuto una copia
del mio libro, dalla felicità all’appagamento passai in breve alla frustrazione
dei suoi celati sogni infranti, al volerlo sottolineare, al suo modo dolceamaro
di respingermi; non cercarmi più. Stava
scherzando? Diceva il vero? Vacillai, nell’incertezza, lo sguardo fisso
sull’ultima riga a straziarmi il cuore; è
già così difficile sopportarti dentro il mio cuore. Mi amava ancora, il tempo passato lontani non
aveva cancellato nulla. Come in me del resto.. che dall’orribile sensazione di
disgusto, al pensiero che Aurelien sarebbe potuto entrare in contatto con quel
breve e coinciso messaggio, passai alla più infame sensazione di sollievo se lo
avesse fatto, perché sarebbe stato come frantumare il macigno che avevo posato
sul cuore e farlo diventare così polvere di fata.
D’un tratto non mi
sentii più confusa, indecisa; sapevo bene cosa volevo e guardando Ben decisi
che era ora di muovere un passo in più, che forse non ci sarebbero state seconde
occasioni e che in qualche modo la pena valeva il rischio; mi armai di
coraggio, del mio abito migliore, cappellino, guanti ed aria compita e mi
diressi nel covo d’oro della città potente e influente: il quartier generale
della famiglia Fournier.
Jerome fermò la
macchina all’entrata di Parc Monceau
con l’aria del tipico Parigino ancora scosso dalla sua nomea; luogo di
disordine e perdizione erano le effigi di quello che a mio avviso era solo un
boschetto dall’aria molto romantica e accozzaglia di stili architettonici rubati
qua e là, perfetto nascondiglio di quella società di ricchi esaltati con manie
grandi come il loro ego, restrittiva al contatto con altri esseri non alla
portata dei loro standard.
“Madame faccia
attenzione.”
“Ci vuole molto più
che due sussurri e qualche albero a spaventarmi Jerome.” L’uomo guardò
angosciato al piccolino che nella carrozzina dormiva pacioso; gli posai la mano
sul braccio rassicurandolo. “Sarà proprio come un sogno.”
“Per che ora desidera
che la passi a prendere?!”
“Passeggerò fino a
Montmartre. Prima del tramonto, direi.”
Mi guardò perplesso,
ma il suo ruolo e i miei ammonimenti verbali prima di metterci in viaggio, lo
indussero ad un silenzio, tormentato, ma pur sempre silenzio. Mi addentrai nel
parco e venni avvolta subito dalla frescura delle piante, veri polmoni a cielo aperto.
Non capivo come si potesse temere un parco solo perché nella sua memoria figuravano
accadimenti poco ordinari e spiacevoli; dato alle fiamme e ricostruito non so
quante volte, ritrovo di artisti da strapazzo in tutto le epoche, una natura
libera e selvaggia che cresceva senza ordine preciso mescolandosi ai resti di
antiche colonne romane, arcate, statue e un lago come fosse la riproduzione
dell’eden. Era il caos delle forme a spaventare l’uomo? La non convenzionalità?
Probabilmente, ma Benjamin continuò il suo pisolino senza disturbi ed io mi sentii
rilassata dopo tanto tempo.
Bussai ad un
portone a ridosso del prato, dopo un ansa del fiumiciattolo artificiale che lo
attraversava. Non ero attesa, la cameriera in tenuta scura e il grembiule
inamidato mi sorrise scortandomi frettolosamente in un salone piccolo e
dall’aspetto intimo; mi sentii fuori luogo e agitata, salvo riprendermi quando
il piccolo uomo che era Fournier -l’uomo che mi aveva
tormentata di trovare un posto alla scuola di maitre
Gerald per la sua giovane amante- apparì trafelato e in odore di chi sa di guai
in vista.
“Madame Chedjou, che piacere rivederla.” S’inchinò in un perfetto
baciamano, con quel tanto di enfasi tipico da uomo di potere; sorrisi gelida,
ritirando la mano.
“Lei mi deve un
favore Fournier.” Girai il capo sulla parete di
tessuto broccato, allacciando lo sguardo alla pacchiana cornice dorata che custodiva l’attestato
della scuola, strategicamente al centro del muro; Anabelle
Fournier, più in basso, sorrideva in un istantanea
abbracciata a maitre Gerald.
“Oh Anabelle è stata così felice.”
“Immagino la sua
felicità se scoprisse che non era l’unica.”
Mi guardò come
se avessi proferito blasfemia, alzando gli occhi al cielo. Avrei scommesso di
vederlo farsi il segno della croce, ma restò immobile con le mani intrecciate
al petto. “Madame Chedjou nessuno le ha mai fatto
notare quanto sia petulante?!”
Addio buone
maniere, sorrisi compiaciuta; si iniziava a fare sul serio. “Un milione di
volte. Ma converrà con me che per gli affari serve un piglio deciso. E modestamente..
io ce l’ho.”
Si arrese. “Cosa
è che vuole?!”
“Il sergente Fabien Moreau.”
Strabuzzò gli
occhi affondando nella poltrona. “Ma..”
“E’ impegnato
alla linea Maginot, certo. E’ qui che entra in ballo lei; deve trovarlo,
tirarlo fuori di là e combinare un appuntamento per me.”
“Ha idea di
quello che mi sta chiedendo? E’ una missione segreta, lei non dovrebbe nemmeno
disporre di queste informazioni madame Chedjou!”
“Per cosa crede
che mi sia scomodata fin nei giardini dell’eden?!” Sorrisi sarcastica, “e non è
un rifiuto ciò che aspetto di sentire, monsieur Fournier.”
Mi alzai per il carrello dei liquori, versai del costoso cointreau
in due bicchieri e porgendoglielo appoggiai la mano alla sua spalla, addolcii
la voce e proseguii. “Non credevo di trovare il più tenero degli angeli ad
aspettarmi.. ma un uomo coscienzioso, che tiene alla sua famiglia e ai suoi
interessi sì. Nessuno dei due vuole uno scandalo, questo no, sono la prima a rammaricarmi
della mia posizione.” Mi inumidii le labbra innocentemente, “Non si dica che il
grande Fournier non sia un uomo di parola e di
cervello.. e nemmeno la sottoscritta; mi risulta che Valerie oggi abbia un buon
impiego e che maitre Gerald sotto mio ordine abbia a
cura certi suoi.. privilegi, che imbarazzo se la poveretta dovesse perdere
tutto in un colpo solo.” Giocai con li ghiaccio sul fondo del bicchiere prima
di tornare seduta, occhi fissi nei suoi. “Dunque sì, so cosa le sto chiedendo ma
so che è un piccolo prezzo per affermare la vostra.. lealtà.” Mi girava la
testa; ero passata dalle minacce velate a quelle più dichiarate, farcendo la
torta con indubbi sensi di colpa che mi aiutarono a strappargli un borbottio di
approvazione.
“E dove intende
farlo arrivare?!”
“Lo decida lei.
Le lascio carta bianca.”
“Dispongo di una
proprietà.. nel sobborgo di Vésinet. Appena fuori
Parigi ma.. non Parigi.”
“Perfetta.
Quanto tempo passerà prima che.. il pacco arrivi a destinazione?!”
“Oh molto
dipende dalla situazione sulla linea e..”
“Fournier le chiacchiere viaggiano in maniera veloce.
Velocissima.” Ostentai un sorriso, “vede? Io so darle la risposta certa qualora
si domandasse quanto ci metterebbe la sua reputazione a crollare.”
“Magari posso
farlo.. spedire.. con la staffetta dal contingente.”
“Che sia Moreau
a fare la staffetta. Non voglio altri occhi in giro.”
“Questo fornirà
l’alibi, bene Madame Chedjou. C’è altro?!”
Spazientiva di buttarmi fuori a calci.
“Oh sì. Qualcosa
c’è.” Posai rumorosamente il bicchiere sul tavolo. “Moreau non deve
assolutamente sapere chi c’è dietro questo.. imprevisto.. chiamiamolo così. Ovviamente
mi aspetto lo stesso riserbo che ho avuto io per la sua.. pratica.” Mi guardò
annuendo, “se qualcosa dovesse andare storto..”
“Massimo riserbo
garantito.” Fui felice del modo in cui mi azzittì, impaziente e sgarbato,
denominava quanto avesse preso sul serio la missione.
“Bene, allora
non c’è altro.” Mi alzai nell’attimo in cui agitò la campanella per la servitù
in modo spazientito. “E’ un vero piacere fare affari con lei monsieur Fournier.” Gli porsi la mano, con indolenza la strinse.
“Non posso
affermare lo stesso.”
Lo incenerii con
gli occhi. “Pessimo umorismo francese madame Chedjou.”
Si alzò vivace, riacquistando colore, “mi faccio vivo io con una missiva.”
“I giardini sono
un incanto, ma dorma sogni tranquilli. Non ho nessuna intenzione di ripetere il
viaggio, grazie.” Lasciai che la cameriera mi adagiasse il soprabito sulle
spalle, “disordine e perdizione; ha scelto per lei il luogo ideale in cui
vivere.” Mi guardò di sbieco, sfoderai il miglior sorriso di trionfo. “Pessimo
umorismo francese monsieur.”
Ed uscii
spingendo la carrozzina fuori dalla stanza, lasciandolo con un imprecazione a
mezzaria.
La parte che
sembrava più difficile era volata via senza che me ne accorgessi, capii che era
arrivato il difficile quando dinnanzi alla grande vetrina, sulla Rue Lepic in Montmartre, dove si affacciavano grandi quadri e
statue, rimasi a fissare l’entrata della bottega ad una distanza ravvicinata
senza entrare. Lei si accorse di me quando dal bancone alzò lo sguardo sulla
strada; mi sorrise di un sorriso che non avrei mai più dimenticato,
consapevole, sicuro, come se aspettasse di vedermi arrivare da un momento
all’altro; lasciò la tela su cui era ricurva a giacere sul tavolo, venendomi
incontro.
Non si accorse
subito del bambino, quando lo vide s’arrestò d’impeto. “Bon
Dieu!” S’avvicinò cautamente, cercando conferma nei miei
occhi; Benjamin muoveva gli occhietti curiosi su quella figura floreale che era
la donna, fasciata in maglia lunga e pantalone stampati con grandi camelie.
“Che bellezza di
bambino!” Agitò in aria il bracciale a campanelle che aveva al polso, Ben
s’irrigidì, per poi agitare le gambette e le mani smaniose. “I suoi occhi..”
fermò il braccio e tornò con il suo implacabile sguardo verde-azzurro nel mio.
“Benjamin Hani. Il resto.. te lo lascio immaginare.”
Annuì,
accarezzandomi la schiena, “entriamo. Anche le fogne hanno orecchi.”
Tornò dal retro
con due tazze di caffè fumante e una baguette divisa a metà. “Sei sciupata Deesire, ed ora hai urgente bisogno di forze.” Guardò il
bambino pregandomi con lo sguardo. “E’ nato con qualche settimana di anticipo..
ma puoi prenderlo in braccio Madeleine, non è così gracile come sembra.” Scosse
il capo divertita, facendo scivolare le braccia sulla carrozzina; Ben protestò
a pieni polmoni, Madeleine si succhiò il mignolo passandolo nello zucchero e lo
portò alla sua bocca; il bambino si rilassò. “Fabien
si calmava solo così. E’ sempre stato un bambino diffidente.” Cullò il piccolo
come i suoi ricordi, “Crescendo non è cambiato poi molto, ma tu mi hai dato
speranza Deesire.”
“Io?!”
“Per un po’, ti
accorgi subito delle stelle quando è sempre notte.”
“Non volevo che
rinunciasse alla sua vita a causa mia.”
“E’ indulgente e
testardo. Vuole cambiare il mondo, ha sempre desiderato essere la stella
piuttosto che il cielo nero; questa missione è la sua missione, non una
rinuncia.”
La guardai con
trepidante speranza. “Hai avuto sue notizie?!”
“Mi ha scritto
una lettera da sei pagine! Sei pagine ti rendi conto?! Giorni dopo ho saputo
della pubblicazione del tuo libro, ora tu sei qui e stringo fra le mani questo
fagottino così dolce. Qualcosa è successo..”
“Già.” Madeleine
ripose Ben nella carrozzina, sparendo nel retro per riapparire con una cornice
argentea fra le mani, porgendomela; un biondo neonato in braccio alla sua
mamma. Avevo gli occhi lucidi. “Occhi verde-azzurro mutevoli..” sussurrai, puntando
gli occhi sull’istantanea in bianco e nero ma di deducibile intuizione di che
trasparenza fossero gli occhi del bambino che guardava alla sua mamma pieno di
amore, ripensando ai discorsi fatti con Clorine, alle
mie preghiere vane, al destino-non-esiste di Juliette e mi ritrovai il viso
rigato da una lacrima. “Qualcosa è successo. Sto per incontrarlo Madeleine, un
incontro segreto, fuori città. Sono passata perché tu lo sapessi, nel caso
voglia fargli sapere qualcosa.”
Mi guardò
allarmata, “un incontro?!”
“Un favore da un
vecchio amico.” Sorrisi sarcastica, prendendole la mano. “Non posso rischiare
che non ci sia più un'altra occasione per rivederlo, dirgli quanto lo amo e
mettergli fra le braccia suo figlio.”
Quando il sole
calò Madeleine richiuse con cura dei fogli dentro una busta carta da zucchero,
destinati a Fabien, sfilò la foto dalla cornice
argentea e me la strinse fra le mani. “Voglio che la tieni tu. Buona fortuna Deesire.”
“A presto
Madeleine.”
“Lo spero
tanto.” Guardò a Benjamin con gli occhi imperlati di lacrime, prima di sparire
sul fondo della bottega e lasciarmi nel cuore di Montmartre al tramonto.
Giugno arrivò
cadenzando lentamente i suoi giorni e insieme a lui la missiva di Fournier, tempestiva come l’odore della paura che aveva
addosso nel salone buono della sua villa, ai giardini stregati; la lessi più
volte, con mani tremanti, prima di partire come un razzo per l’organizzazione
pratica della cosa. Usai senza mezzi termini mia madre come ombrello
parafulmini, giustificando la mia assenza a quel marito da giorni confuso dal
mio atteggiamento spesso assente o angosciato –avrei mandato le parcelle del
mio medico a Fournier, per la mole di ansiolitici
prescritti- e dalle sempre più pressanti minacce di un invasione da parte dei
tedeschi, ormai conquistatori del vicino Belgio; Aurelien e il suo staff erano
in pena per le sorti del paese e di conseguenza della città, perché se a
crollare fosse stata Parigi, tutta la Francia sarebbe crollata intorno a lei. A
me non interessava. Non interessava finire sul lastrico, non interessava che
dall’altra parte della Senna mio padre stava combattendo per i medesimi scopi e
non mi importava della guerra, dei tedeschi o di nessun altro che non fosse Fabien Moreau.
All’alba di un
insulsa giornata come un’altra -non per me, ma il resto del mondo era occupato
alle proprie pene- una macchina di Fournier era sul
viale ad aspettarci; Ygritte ed io ci infilammo
dentro come sentinelle ben istruite, senza fiatare, assottigliandoci ai sedili
posteriori. L’auto sfilò dritta per gli Champs Elisées in direzione de la porte Maillot
confine ovest della città, al di là della quale -il nulla per i Parigini- la
statale A quattordici -per tutti gli altri-. Lontano dai palazzi borghesi e i
bistrot, mi sentii leggermente più rilassata; piegai il capo all’indietro
portando Ben al mio petto, fino a pochi minuti prima fasciato dalle braccia
della cameriera. Lo guardai con infinito amore; gli occhi chiusi e le mani
piccole strette a pugno, il viso rilassato e il profumo della pelle ambrata
alle rose, per nulla turbato, ignaro che da quel giorno, qualcosa nelle nostre
vite sarebbe irrimediabilmente cambiato.
Mi addormentai
serena. E non ricordai più quant’è che non riuscivo a sognare.
La grande
vetrata che dava sul giardino rifletteva un tiepido sole estivo; lo stile
architettonico di quella casa di periferia rifletteva a pieno il genio
visionario di Fournier, la sua spiccata predilezione
alla ricerca del nuovo e l’ostentazione ossessiva dei suoi franchi. Guardavo
ammaliata Ygritte che cullava dolcemente Ben fra le
braccia e il piccolo rispondeva aprendo e chiudendo le manine sul suo viso.
Lo vidi
spuntare come un apparizione, un angelo terrestre.. ma ferito; mi colpì subito
la chioma rasata, campo arso dove prima crescevano rigogliosi i suoi ricci, gli
occhi infossati e grandi, più grandi del solito, verde-azzurro terrore. Guardò
interdetto la donna che gli sorrise calando il capo, proseguì sul ciottolato
verso la casa e fu allora che mi vide, attraverso il vetro; restò immobile,
parole vuote sulle labbra gonfie e rosse. Alzai la mano in vago saluto, tentò
un sorriso ma il suo volto era rigido.
Camminò
fino a quando non sentii la porta aprirsi.. e le nostre figure perfettamente
allineate.
Senza
tante cerimonie lo avvicinai, chiudendomi al suo petto - l’unica parte del
corpo recettiva, perlomeno percorsa da un fremito- prima di essere circondata
dalle sue braccia; odorava di divisa, di tessuto grezzo e pesante, di sudore e
infondo a tutto, la sua pelle, evocatrice di ricordi infernali.
Sospirò
fra i miei capelli, cullandoci, in silenzio, rotto solo dai suoi singulti e dai
miei.
“Immagino tu
voglia dirmi qualcosa.” Lasciò che le braccia gli scivolassero ai fianchi,
scostandosi per guardarmi bene in viso; era cambiato dall’ultima volta che lo
avevo visto, non mancavano solo i capelli, ma anche la luce brillante infondo
ai suoi occhi, il giocoso Fabien adesso spettro di
questo che avevo davanti, più teso, invecchiato, rude nei lineamenti. Aveva
perso la fanciullezza e chissà che non fosse per gli orrori che aveva visto,
per le notti al fronte, solo e infreddolito. Tremai d’orrore e lui desolato -quasi
mi avesse letto nel pensiero- mi passò le mani lungo le braccia, sfregandomi la
pelle vibrante sotto al suo tocco.
“Non so da
dove cominciare.”
“Tu parla.
Parlami Deesire. Ho voglia di sentire la tua voce.”
Si infilò nuovamente fra i miei capelli, inspirando e stringendomi forte.
“Devo
presentarti una persona.” Tornò al mio viso aggrottando le sopracciglia,
vagamente spaventato. “Là.” Indicai con l’indice Ygritte
e il fagottino brontolone fra le mani.
“Ci sono
una donna e un bambino.” Poi spalancò la bocca a cuore, “il bambino è tuo
figlio!” Disse in una quasi nota di delusione, una sorta di stupore e
repulsione.
“Mio
figlio, sì. E il tuo, Fabien.”
“Mio
figlio.” Asserì ironico, passandosi la mano sulla testa.
“Tuo
figlio.” Insistei senza alcuna inflessione ironica nella voce. “Benjamin Hani Chedjou. Biologicamente..
Moreau.”
“Deesire,” Posò le mani sulle mie spalle, premendo forte. “c’è
in corso una guerra, i tedeschi ci sono addosso e sono lontano anni luce dai
miei compagni; pensi che ho voglia di mettermi a scherzare?” Sorrise incerto,
prima di valutare la pericolosità del mio imperioso silenzio. “Sono qui.. e sono
felice di vederti, ma se mi hai fatto chiamare per umiliarmi ancora..” gettò
indietro la testa, alla mia non reazione alle sue parole. “Perché tu non stai
scherzando, questo vuoi dirmi?!” Adesso
era disperato, lo percepivo dalle venature incrinate della sua voce.
“Guardalo.”
Gli ordinai, “guarda i suoi capelli. Guarda la sua bocca. Guarda. I. Suoi. Occhi.
E se non ti basta pensa ad Auvers. Alle volte che mi
hai amata anche con il corpo, a
quando ci svegliavamo stretti e tu mi eri ancora dentro. Pensa a tutto questo.
Ai biscotti. Al tavolo della mia cucina, al tuo letto.. non posso provartelo,
ma non serve una scienza per capirlo.”
“Mio
figlio.” Due parole di pura angoscia. “P-posso vederlo?!” Lo scortai fuori, un cenno del capo avvertì Ygritte di passarmi il bambino e sparire in casa.
“Prendilo.” Fabien allargò le braccia e nel momento
in cui l’infante esalò un vagito, scoppiò a piangere anche lui. Non un pianto disperato,
ma un pianto d’amore; i cromosomi che si riconoscono e scatenano una guerra
interiore.
Se ne era
innamorato nell’istante in cui lo aveva sentito piangere. Proprio come avevo
fatto io.
Accarezzai
la sua mano posata sulla testolina di Ben e lui mi guardò; ricambiai lo sguardo
annuendo, colpevole della più assurda verità. “Tutto di lui grida Chedjou. Ma dalla parte sbagliata.”
“E’
perfetto.” Sfiorò il suo profilo con un dito, leggermente, “Ha le fossette..”
“Come tua
madre, lo so.”
Lo
infastidii, lo capii, perché irrigidì le braccia guardandomi spaesato; il
bambino aveva ripreso a piangere, lo presi fra le mie braccia e lo cullai.
“Sono suo padre, dici.. ma la realtà è che non lo sono. Aurelien è il suo papà.
Io..”
“Io. Io.
Io. Tu cosa?!” Ondeggiavo fra una ninna nanna e la voce furiosa, “credi che non
ci abbia pensato un milione di volte prima di venirti a cercare?! E quel
biglietto poi.. i sogni si avverano! Sì, si avverano Fabien,
l’ho capito stringendolo a me per la prima volta; ma era un sogno incompleto,
perché tu non c’eri. Sono disperata perché ti
amo, ma amo anche mio marito. Ed ora c’è Benjamin..” il piccolo sorrise
come sorridono i neonati e mi addolcii, “questo bambino meraviglioso che amo
con tutto il cuore, più della mia stessa vita.” Lo guardai infondo a quegli
occhi adesso così carichi di stupore, ansia, felicità. “Non ho mai smesso di
pensarti e di sperare un finale diverso. Ma le favole sono concluse, il mondo
va a pezzi ed io non voglio più sognare.”
Le parole
uscirono dalla sua bocca come un ansimo. “C’è. Solo. Un. Modo.”
“Sono
pronta a rischiare.. se lo vuoi.”
“Lo
voglio?! Ho pensato a te giorno e notte! Tu sai cosa sei per me e questo
bambino è la dimostrazione di quello che provo io per te.” Mi infilò una mano
fra i capelli, attirandomi verso il suo viso. “Ti prego dimmi ancora che mi
ami.”
“Ti amo.”
“Ancora.”
“Ti amo.”
Probabilmente
se Benjamin non fosse stato un’adorabile presenza nella mia vita, quel giorno,
in casa di Fournier io e Fabien
avremmo fatto l’amore, arrendendoci a mesi di privazioni, dolore, sofferenza;
ma tutto ciò non accadde, godemmo della nostra presenza solo respirandoci
addosso, sdraiati a terra con le spalle contro l’angolo di una parete spoglia a
giocare con i nostri occhi incatenati, consci e affamati.
“Devi
tornare in città. Sarà buio presto.” Si alzò porgendomi aiuto con una mano,
dall’altra parte Ben appollaiato sul suo braccio libero. “Prima però ascoltami
attentamente; da qui ai prossimi giorni non avrai mie notizie. Voglio che ti
trovi un posto Deesire, allarma Aurelien..” deglutì socchiudendo
gli occhi, “chiudetevi in casa, sbarrate porte e finestre. Il nemico è vicino
ed io non so veramente come andrà finire questa storia.”
“L’esercito
francese è forte.. così dicono.”
“Balle.
Non abbiamo armi di resistenza sufficienti per difenderci. Difendervi. Ma tu mi
devi promettere che ti terrai al sicuro da ogni pericolo. Ti. Prego. Prometti.”
Soffiò le ultime parole sulle mie labbra protestanti; mugolai spaventata e
l’arrivo dei tedeschi non era il motivo. Me importava meno di niente. Provavo l’angosciante sensazione di
non rivederlo mai più. “Shh.. stai tremando.” Mi
baciò agli angoli della bocca, poi si posò sulle labbra e vi restò qualche
secondo. “Non voglio spaventarti ma devo essere sincero Deesire,
non abbiamo idea di come vogliono muoversi i maledetti crucchi. Ti prometto che
farò il possibile per ritornare da voi. Non voglio perdervi proprio adesso che vi ho ritrovato. Mi aspetterai?” Baciò Benjamin
sulla fronte, prima di metterlo al sicuro fra le mie braccia.
“J’attendrai.”
“Saremo
insieme. Noi tre. Come una famiglia.”
Mi baciò
ancora e ancora, al ricordo della nostra canzone, nella casetta d’Auvers, di nuovo un momento tragico, ma adesso ero certa
che sarei stata sua e che lui sarebbe stato mio, anche se l’ombra nera della
guerra era su di noi, nel mio cuore sapevo di voler appartenere per sempre a Fabien.
“Dove sei
stata?!” Aurelien, lo sguardo mesto e stanco, mi stava fissando dal buio del
salone senza luci.
“Da mia
madre. Sono stanca, vado a dormire.” Sentii i suoi passi veloci alle spalle,
poi le sue mani a bloccarmi il polso. “Che ti prende?!”
“Che mi prende?! Deesire
sei sfuggente. Assente. Cosa prende a te.”
“Sono
stanca.”
“Sì, mi
sembra d’avertelo sentito dire.”
“Stiamo
litigando Aurelien? Perché sì, sono stanca, Benjamin deve mangiare ed Ygritte è appena andata via. Se le tue lagne da marito
ansioso sono terminate, salirei le scale, adempierei ai miei doveri da madre e
poi mi farei una bella dormita. Dovresti farla anche tu, sei scosso.”
Mi guardò
dispiaciuto, per un attimo vacillai. “Ero preoccupato, tutti lo siamo. Tu no,
tu ti porti in giro per Parigi o chissà dove come se nulla fosse, ho creduto
perché sei sempre stata più forte di tutti noi.. fino a quando non ho trovato
questa.” Sventagliò sotto ai miei occhi la lettera di Fournier,
con data e appuntamento per l’arrivo del mio.. pacco. “Cosa state tramando tu e
quel verme viscido?!” Tremavo come una foglia, agghiacciata dalle mie stesse
menzogne. “A-affari.”
“Affari
che implicano la menzogna a quanto pare.” Scosse il capo incredulo e quando si
fissò su di me vidi i suoi occhi verde bottiglia persi per sempre. “Ovviamente
non eri da tua madre. E per quanto questo mi faccia male in un modo che neanche
immagini, lascerò a te il libero arbitrio; vuoi continuare a mentire? O vuoi
dirmi cosa sta succedendo? E posso assicurarti che la verità in questo caso farà
meno male. Qualsiasi. Essa. Sia.”
Mi
affannai in cerca di una risposta, in preda ai conati di rabbia e frustrazione;
“Fabien..” non dissi altro, il suo nome uscì come un
rantolo. Stavo piangendo ma non volevo, non volevo che mi vedesse fragile,
inerme, arresa; meritava la verità e con essa la dignità della mia persona, ma
non riuscivo a muovermi. A respirare. Tutto si era fatto più grande, mi sentivo
il niente a confronto.
La pedina
di un gioco che si era fatto improvvisamente mortale.
Lo vidi
portarsi le mani al viso, il capo chino sconfitto, come fosse già a conoscenza
di quel verdetto; mi lasciai andare a terra, le gambe flaccide, incapace di
sorreggere la mole di dolore che stavo provando in quel momento. Ma
d’improvviso qualcuno bussò al portone in modo agitato. Una. Due. Tre volte.
Sentimmo la chiave ruotare nel chiavistello e la porta spalancarsi; Martin
spiazzato dalla visuale guardò me in stato di panico, più livido in volto di
quanto non lo fosse prima d’entrare.
“I
tedeschi! I tedeschi hanno sfondato la linea!” Si portò le mani nei capelli; io
e Aurelien ci guardammo incapaci di dire nulla. “Dobbiamo andare Aurelien!
Presto! Alle aziende!” Vidi padre e figlio smontare i cassetti e prelevare
chiavi, documenti, borse, in un vortice impazzito e senza senso; afferravo
parole e discorsi ma non riuscivo a sentire nulla, se non il freddo marmo del
pavimento e le lacrime copiose sulle mie guance; quando aprii gli occhi,
Aurelien era riverso su di me a schiaffeggiarmi il viso dolcemente.
“Aurel..”
intorno a noi solo il baluginio di una candela fioca e un forte odore d’umido;
eravamo nello scantinato della nostra abitazione.
“Devo
andare. Sta arrivando tua madre.” Mi abbracciò, sfuggendo ai miei occhi, ”nella
dispensa c’è cibo a sufficienza per due persone e un bambino.” Spostò il suo
corpo adagiandomi Benjamin fra le braccia, avvolto in un manto spesso di
coperte. “Non dovete assolutamente muovervi di qui, capito? Non prima che la situazione
sia chiara, ci metteremo in contatto appena possibile.”
“Che sta
succedendo Aurelien?!”
“L’esercito
tedesco sta marciando verso Parigi.”
Era la
notte a cavallo fra il tredici e il quattordici giugno del millenovecentoquaranta;
alle cinque e trenta del mattino a bordo delle loro camionette, nei giubbotti
di pelle e le collane di proiettili al collo, i tedeschi ci occuparono. La
città era stranamente silenziosa, chi aveva avuto tempestiva notizia era
scappato da tempo, i pochi restanti e incerti, sfilavano nel loro silenzioso
cordoglio verso le arterie che portavano fuori dal centro; Parigi venne dichiarata
da subito “città aperta”, questo per evitare che la stessa venisse barbaramente
martoriata da bombardamenti aerei o d’artiglieria pesante. Da quel momento difatti,
appartenevamo al nemico, subivamo le loro regole e i loro ordini, i loro
sguardi accusatori e vessatori e per ultimo -non meno importante- l’umiliazione
per essere stati piegati e sconfitti; ma nessuno di noi venne toccato, donne,
bambini, anziani.. d’alta società o no, quello che cercavano gli uomini in
giubbe grigie con l’aquila sul braccio era ben chiaro.
E sapevano
esattamente dove andare a cercarlo.
La notte
era il momento peggiore. Si stabilì un coprifuoco che partiva dalle ore undici
e gli orologi tirati avanti di un ora per uniformarci all’orario di Berlino;
non si dormiva, le urla strazianti di chi veniva deportato fracassavano il
cervello, i pianti di tutte quelle madri, zie, nonne, nipoti.. gli
indesiderati.
La loro
sorte aimè restò oscura a noi tutti, come la più triste delle storie ha già
raccontato.
Tre giorni
dopo l’occupazione, quando la città era ormai roccaforte tedesca e le loro
bandiere sventolavano alte persino sulla Tour Eiffel, il generale di Francia Pétain firmò la resa, spaccando definitivamente il paese in
due; la parte nord –Parigi in testa- appartenente alla Germania e la parte sud
ricollocata ad uno nuovo governo comandato dallo stesso Pétain.
Fu allora che ebbi notizie di Fabien; un veloce messaggio
vergato con mano malferma, pari ad uno spiraglio di sole nel cielo plumbeo. Stava
bene e non era ferito grazie a Dio, citava il generale De Gaulle e il suo
accorato discorso via radio dalla capitale inglese in cui spronava i francesi a
non mollare, che era sua intenzione formare un esercito di resistenza chiamato
“Francia libera” e che Fabien quindi sarebbe partito
presto alla volta di Londra per prendervi parte.
“Prima di questo ho il disperato bisogno di
sentirti, toccarti, amarti Deesire.
Solo così troverò la forza e il coraggio per ritrovare la strada
di casa.
Capiscimi amore mio, voglio un mondo in cui
mio figlio cresca libero e felice.
Sempre Tuo ,
F.M.”
In
un'altra missiva mi aveva fatto avere l’indirizzo di una vecchia locanda nel quartier
Peupliers, nel profondo sud della città. Bruciai
tutto, cercando di mettere insieme le idee, d’ infondermi coraggio, nel mare di
confusione in cui navigavo da giorni; Aurelien presidiava le aziende notte e
giorno da tre giorni ormai, non avevo sue notizie dal disastro e le nostre
conversazioni erano frammentarie, via posta e volte solo alla situazione
politica del paese. Dall’altra parte c’era Fabien e
il più sublime dei suoi messaggi, la frustrazione di gettarmi nelle sue braccia
e amarlo nuovamente, chiedendomi con amarezza quando sarebbe venuto il momento
di appartenerci veramente.
Non servì
a molto pensare, avevo già deciso.
“Cosa?! E
te ne vai?!”
Clorine con il terrore negli occhi si
trascinava dietro al mio braccio. “Devo andare mamma.” Allentai la presa,
strattonandola. “Quando questa assurda guerra finirà –se finirà- io sarò con
lui. E non importa se questo non avverrà mai.. io sarò sempre con lui.”
*
NDA:
Capitolo
“caos” di avvenimenti mie cari lettori/ci; spero che non siate fuggite/i a
gambe levate!!!
Il piccolo
Benjamin Hani è venuto al mondo e a quanto pare le
sensazioni di mamma Deesire erano giuste; per la
prima volta mette in discussione la sua perfetta vita pronta a voler rischiare
tutto per stare finalmente insieme al suo Fabien. Sullo
sfondo però.. la Seconda Guerra Mondiale appena piombata a Parigi.
Cosa
succederà adesso?! Se ne avete
voglia continuate a seguirmi! J
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, la conclusione della storia è alle porte.
(credo di
riuscire a terminarla in non più di altri due capitoli. Credo!)
Vi
abbraccio forte,
Lunadreamy.