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Autore: Luna_R    11/06/2013    1 recensioni
“Posso invitare la mia futura sposa per un ballo?!”
Quelle furono le prime parole che gli sentii pronunciare.
Acconsentii a farmi trascinare al centro della pista sotto i gridolini eccitati delle giovani presenti; eccoci quà, la fiaba vivente del vissero per sempre felici e contenti. O perlomeno questo era quello che gli altri vedevano in noi. Soprattutto mia madre che nel momento esatto in cui le nostre mani si sfiorarono si sciolse in un brodo di giuggiole.
DAL CAPITOLO 12:
“Io ti credo. Se fossimo di facile comprensione non esisterebbe la scienza. L’uomo non si porrebbe domande e ci costringeremo a vivere una vita piatta, blanda, senza trasporto. Siamo fatti di emozioni incalcolabili e imprevedibili. Credi nel destino, Deesire?!”
Annuii; non ero forse la miglior rappresentazione di foglio bianco sul quale si era sfogato?!
“Le cose accadono perché siamo noi che vogliamo succedano. Dio mi liberi da questa società retrograda e puritana, siamo donne e possiamo decidere della nostra vita! Perciò ti dico: il destino è una bufala amica mia, ascolta il tuo cuore e segui ciò che dice, senti la tua pancia, le vibrazioni del tuo corpo, ascolta la mente ma filtra i divieti.. e non sbaglierai. Decidi. Tu.”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 13.

 

Il venti aprile del millenovecentoquaranta, con un urlo a pieni polmoni e con qualche settimana d’anticipo, si affacciò al mondo Benjamin Hani Chedjou.

Quando lo vidi smisi di respirare quasi, baciandolo, confondendo il mio pianto al suo; era bellissimo, gli occhi mesti per la fatica e il faccino a cuore imbronciato, la pelle ambrata sotto le crosticine bianche di muco e un infinità di capelli castani chiaro. Molto chiaro.. quasi cenere.

Mi aspettavo commozione e partecipazione, ma non credevo a tal punto; papà aveva preso dimora sul divano da giorni, Ines e Clorine -pronte da mesi- avevano allestito una piccola nursery nella stanza degli ospiti accanto alla nostra degna di un principino, Martin andava e veniva perché qualcuno doveva pur pensare agli affari di bis-nonno Chedjou ed Aurelien era in visibilio, totalmente stregato dal nuovo arrivato.

“Stiamo bene vi dico. Tornate a riposare. O fatelo finalmente.” Guardai il gruppetto di familiari Bonnet-Chedjou stipati intorno al letto durante l’ora della pappa, “domani ci troverete sempre qui. Vero marmocchio?!” Benjamin approvò con un gorgoglio profondo dalla gola; tutti risero, più rilassati e sereni.

“E’ un vero despota.” Aurelien mi baciò i capelli, sparendo dietro la piccola processione.

“Mamma tu resta.” Ines si allarmò, credo vagamente infastidita dall’esclusione, la guardai sfoderando uno sguardo d’ammonimento da neo-mamma, “hai bisogno di riposare anche tu Ines. Non farti pregare..” alzò le spalle, si accigliò e andò via.

 

“I suoi capelli.”

“Buon Dio Deesire, ha solo pochi giorni.. anche tu eri bionda. O forse era Cedric?!”

“I suoi occhi.”

“Gli occhi dei neonati sono mutevoli.”

Mi poggiai una mano sulla fronte. “Occhi verde-azzurro.. mutevoli?!”

“Ok è un Moreau. Vuoi sentirti dire questo?! Tecnicamente è anche uno Chedjou, però. Guarda i suoi lineamenti, la sua pelle ambrata.. oddio il broncio è del pittore senza dubbio.” Annegai nella sua indecisione senza però escluderla da uno sguardo assassino. “Oh.. guarda cosa mi fai farneticare! E’ troppo presto per dirlo, questa è la mia sentenza.”

Tempo. Era tutta una questione di tempo, eppure nella vita –e questo lo imparai sulla mia pelle- c’erano sentenze che non lo avevano a capo come giudice supremo, bastava restare in ascolto del sesto senso o delle emozioni fate voi, per arrivare al punto. Fatto sta che dal primo momento in cui avevo accolto Benjamin fra le braccia, avevo respirato il suo odore forte di vita, lo avevo sentito urlare aggrappandomi forte alle lenzuola di lino crema, i presentimenti che avvertivo nella pancia come quando avevo scoperto d’aspettarlo si riproposero in pompa magna.

E non solo quelli.

 

A due settimane dal parto ero già in piedi; il piccolino non voleva saperne di essere trattato come l’esserino gracile che era e poppava forsennatamente tutto il latte di cui necessitava. Un leone, nel corpo di gazzella, già.. avevo sentito parlare di questo una volta. Mi districavo fra un impegno e l’altro, il libro, Gerald che temporeggiava sui britanni al momento ingrovigliati nel conflitto contro il terzo reich e l’operazione caritatevole che avevo mosso per i soldati al fronte, con il massimo delle forze; ero giovane e in salute, inquieta e incredibilmente appassionata. E a proposito di passioni.. sistemavo con molta premura la corrispondenza nel disordine organizzato di Aurelien, quando una busta scivolò dalla mia presa e finì in terra; Benjamin dalla carrozzina raso e merletti rispose con un mugolio simile ad un “Oh” quasi canzonatorio, attirato dalla mia imprecazione.

Mi chinai a raccoglierla, era una busta bianca anonima ed era indirizzata a me.

“La mamma è distratta.” Sfilai il taglia carte lungo tutto il bordo estraendo il biglietto; avrei riconosciuto la sua scrittura anche ad occhi chiusi. Piccola e tondeggiante. Sussultai.

 

“Mia dolce Deesire, le oscenità di questo mondo sono oscurate dalla bellezza delle tue parole.

Le mie notti allo Zenzero e Cannella ringraziano, anche se il loro sapore adesso è diverso.

Ho saputo della lieta notizia. I sogni si avverano, dunque.

Sono tre volte che cerco di scrivere qualcosa di sensato ma..

Ti prego, non cercarmi più per il mondo; è già così difficile sopportarti dentro il mio cuore.

F.M”

 

Aveva avuto una copia del mio libro, dalla felicità all’appagamento passai in breve alla frustrazione dei suoi celati sogni infranti, al volerlo sottolineare, al suo modo dolceamaro di respingermi; non cercarmi più. Stava scherzando? Diceva il vero? Vacillai, nell’incertezza, lo sguardo fisso sull’ultima riga a straziarmi il cuore; è già così difficile sopportarti dentro il mio cuore. Mi amava ancora, il tempo passato lontani non aveva cancellato nulla. Come in me del resto.. che dall’orribile sensazione di disgusto, al pensiero che Aurelien sarebbe potuto entrare in contatto con quel breve e coinciso messaggio, passai alla più infame sensazione di sollievo se lo avesse fatto, perché sarebbe stato come frantumare il macigno che avevo posato sul cuore e farlo diventare così polvere di fata.

D’un tratto non mi sentii più confusa, indecisa; sapevo bene cosa volevo e guardando Ben decisi che era ora di muovere un passo in più, che forse non ci sarebbero state seconde occasioni e che in qualche modo la pena valeva il rischio; mi armai di coraggio, del mio abito migliore, cappellino, guanti ed aria compita e mi diressi nel covo d’oro della città potente e influente: il quartier generale della famiglia Fournier.

Jerome fermò la macchina all’entrata di Parc Monceau con l’aria del tipico Parigino ancora scosso dalla sua nomea; luogo di disordine e perdizione erano le effigi di quello che a mio avviso era solo un boschetto dall’aria molto romantica e accozzaglia di stili architettonici rubati qua e là, perfetto nascondiglio di quella società di ricchi esaltati con manie grandi come il loro ego, restrittiva al contatto con altri esseri non alla portata dei loro standard.

“Madame faccia attenzione.”

“Ci vuole molto più che due sussurri e qualche albero a spaventarmi Jerome.” L’uomo guardò angosciato al piccolino che nella carrozzina dormiva pacioso; gli posai la mano sul braccio rassicurandolo. “Sarà proprio come un sogno.”

“Per che ora desidera che la passi a prendere?!”

“Passeggerò fino a Montmartre. Prima del tramonto, direi.”

Mi guardò perplesso, ma il suo ruolo e i miei ammonimenti verbali prima di metterci in viaggio, lo indussero ad un silenzio, tormentato, ma pur sempre silenzio. Mi addentrai nel parco e venni avvolta subito dalla frescura delle piante, veri polmoni a cielo aperto. Non capivo come si potesse temere un parco solo perché nella sua memoria figuravano accadimenti poco ordinari e spiacevoli; dato alle fiamme e ricostruito non so quante volte, ritrovo di artisti da strapazzo in tutto le epoche, una natura libera e selvaggia che cresceva senza ordine preciso mescolandosi ai resti di antiche colonne romane, arcate, statue e un lago come fosse la riproduzione dell’eden. Era il caos delle forme a spaventare l’uomo? La non convenzionalità? Probabilmente, ma Benjamin continuò il suo pisolino senza disturbi ed io mi sentii rilassata dopo tanto tempo.

Bussai ad un portone a ridosso del prato, dopo un ansa del fiumiciattolo artificiale che lo attraversava. Non ero attesa, la cameriera in tenuta scura e il grembiule inamidato mi sorrise scortandomi frettolosamente in un salone piccolo e dall’aspetto intimo; mi sentii fuori luogo e agitata, salvo riprendermi quando il piccolo uomo che era Fournier -l’uomo che mi aveva tormentata di trovare un posto alla scuola di maitre Gerald per la sua giovane amante- apparì trafelato e in odore di chi sa di guai in vista.

“Madame Chedjou, che piacere rivederla.” S’inchinò in un perfetto baciamano, con quel tanto di enfasi tipico da uomo di potere; sorrisi gelida, ritirando la mano.

“Lei mi deve un favore Fournier.” Girai il capo sulla parete di tessuto broccato, allacciando lo sguardo alla pacchiana cornice dorata che custodiva l’attestato della scuola, strategicamente al centro del muro; Anabelle Fournier, più in basso, sorrideva in un istantanea abbracciata a maitre Gerald.

“Oh Anabelle è stata così felice.”

“Immagino la sua felicità se scoprisse che non era l’unica.”

Mi guardò come se avessi proferito blasfemia, alzando gli occhi al cielo. Avrei scommesso di vederlo farsi il segno della croce, ma restò immobile con le mani intrecciate al petto. “Madame Chedjou nessuno le ha mai fatto notare quanto sia petulante?!”

Addio buone maniere, sorrisi compiaciuta; si iniziava a fare sul serio. “Un milione di volte. Ma converrà con me che per gli affari serve un piglio deciso. E modestamente.. io ce l’ho.”

Si arrese. “Cosa è che vuole?!”

“Il sergente Fabien Moreau.”

Strabuzzò gli occhi affondando nella poltrona. “Ma..”

“E’ impegnato alla linea Maginot, certo. E’ qui che entra in ballo lei; deve trovarlo, tirarlo fuori di là e combinare un appuntamento per me.”

“Ha idea di quello che mi sta chiedendo? E’ una missione segreta, lei non dovrebbe nemmeno disporre di queste informazioni madame Chedjou!”

“Per cosa crede che mi sia scomodata fin nei giardini dell’eden?!” Sorrisi sarcastica, “e non è un rifiuto ciò che aspetto di sentire, monsieur Fournier.” Mi alzai per il carrello dei liquori, versai del costoso cointreau in due bicchieri e porgendoglielo appoggiai la mano alla sua spalla, addolcii la voce e proseguii. “Non credevo di trovare il più tenero degli angeli ad aspettarmi.. ma un uomo coscienzioso, che tiene alla sua famiglia e ai suoi interessi sì. Nessuno dei due vuole uno scandalo, questo no, sono la prima a rammaricarmi della mia posizione.” Mi inumidii le labbra innocentemente, “Non si dica che il grande Fournier non sia un uomo di parola e di cervello.. e nemmeno la sottoscritta; mi risulta che Valerie oggi abbia un buon impiego e che maitre Gerald sotto mio ordine abbia a cura certi suoi.. privilegi, che imbarazzo se la poveretta dovesse perdere tutto in un colpo solo.” Giocai con li ghiaccio sul fondo del bicchiere prima di tornare seduta, occhi fissi nei suoi. “Dunque sì, so cosa le sto chiedendo ma so che è un piccolo prezzo per affermare la vostra.. lealtà.” Mi girava la testa; ero passata dalle minacce velate a quelle più dichiarate, farcendo la torta con indubbi sensi di colpa che mi aiutarono a strappargli un borbottio di approvazione.

“E dove intende farlo arrivare?!”

“Lo decida lei. Le lascio carta bianca.”

“Dispongo di una proprietà.. nel sobborgo di Vésinet. Appena fuori Parigi ma.. non Parigi.”

“Perfetta. Quanto tempo passerà prima che.. il pacco arrivi a destinazione?!”

“Oh molto dipende dalla situazione sulla linea e..”

Fournier le chiacchiere viaggiano in maniera veloce. Velocissima.” Ostentai un sorriso, “vede? Io so darle la risposta certa qualora si domandasse quanto ci metterebbe la sua reputazione a crollare.”

“Magari posso farlo.. spedire.. con la staffetta dal contingente.”

“Che sia Moreau a fare la staffetta. Non voglio altri occhi in giro.”

“Questo fornirà l’alibi, bene Madame Chedjou. C’è altro?!” Spazientiva di buttarmi fuori a calci.

“Oh sì. Qualcosa c’è.” Posai rumorosamente il bicchiere sul tavolo. “Moreau non deve assolutamente sapere chi c’è dietro questo.. imprevisto.. chiamiamolo così. Ovviamente mi aspetto lo stesso riserbo che ho avuto io per la sua.. pratica.” Mi guardò annuendo, “se qualcosa dovesse andare storto..”

“Massimo riserbo garantito.” Fui felice del modo in cui mi azzittì, impaziente e sgarbato, denominava quanto avesse preso sul serio la missione.

“Bene, allora non c’è altro.” Mi alzai nell’attimo in cui agitò la campanella per la servitù in modo spazientito. “E’ un vero piacere fare affari con lei monsieur Fournier.” Gli porsi la mano, con indolenza la strinse.

“Non posso affermare lo stesso.”

Lo incenerii con gli occhi. “Pessimo umorismo francese madame Chedjou.” Si alzò vivace, riacquistando colore, “mi faccio vivo io con una missiva.”

“I giardini sono un incanto, ma dorma sogni tranquilli. Non ho nessuna intenzione di ripetere il viaggio, grazie.” Lasciai che la cameriera mi adagiasse il soprabito sulle spalle, “disordine e perdizione; ha scelto per lei il luogo ideale in cui vivere.” Mi guardò di sbieco, sfoderai il miglior sorriso di trionfo. “Pessimo umorismo francese monsieur.”

Ed uscii spingendo la carrozzina fuori dalla stanza, lasciandolo con un imprecazione a mezzaria.

 

La parte che sembrava più difficile era volata via senza che me ne accorgessi, capii che era arrivato il difficile quando dinnanzi alla grande vetrina, sulla Rue Lepic in Montmartre, dove si affacciavano grandi quadri e statue, rimasi a fissare l’entrata della bottega ad una distanza ravvicinata senza entrare. Lei si accorse di me quando dal bancone alzò lo sguardo sulla strada; mi sorrise di un sorriso che non avrei mai più dimenticato, consapevole, sicuro, come se aspettasse di vedermi arrivare da un momento all’altro; lasciò la tela su cui era ricurva a giacere sul tavolo, venendomi incontro.

Non si accorse subito del bambino, quando lo vide s’arrestò d’impeto. “Bon Dieu!” S’avvicinò cautamente, cercando conferma nei miei occhi; Benjamin muoveva gli occhietti curiosi su quella figura floreale che era la donna, fasciata in maglia lunga e pantalone stampati con grandi camelie.

“Che bellezza di bambino!” Agitò in aria il bracciale a campanelle che aveva al polso, Ben s’irrigidì, per poi agitare le gambette e le mani smaniose. “I suoi occhi..” fermò il braccio e tornò con il suo implacabile sguardo verde-azzurro nel mio.

“Benjamin Hani. Il resto.. te lo lascio immaginare.”

Annuì, accarezzandomi la schiena, “entriamo. Anche le fogne hanno orecchi.”

 

Tornò dal retro con due tazze di caffè fumante e una baguette divisa a metà. “Sei sciupata Deesire, ed ora hai urgente bisogno di forze.” Guardò il bambino pregandomi con lo sguardo. “E’ nato con qualche settimana di anticipo.. ma puoi prenderlo in braccio Madeleine, non è così gracile come sembra.” Scosse il capo divertita, facendo scivolare le braccia sulla carrozzina; Ben protestò a pieni polmoni, Madeleine si succhiò il mignolo passandolo nello zucchero e lo portò alla sua bocca; il bambino si rilassò. “Fabien si calmava solo così. E’ sempre stato un bambino diffidente.” Cullò il piccolo come i suoi ricordi, “Crescendo non è cambiato poi molto, ma tu mi hai dato speranza Deesire.”

“Io?!”

“Per un po’, ti accorgi subito delle stelle quando è sempre notte.”

“Non volevo che rinunciasse alla sua vita a causa mia.”

“E’ indulgente e testardo. Vuole cambiare il mondo, ha sempre desiderato essere la stella piuttosto che il cielo nero; questa missione è la sua missione, non una rinuncia.”

La guardai con trepidante speranza. “Hai avuto sue notizie?!”

“Mi ha scritto una lettera da sei pagine! Sei pagine ti rendi conto?! Giorni dopo ho saputo della pubblicazione del tuo libro, ora tu sei qui e stringo fra le mani questo fagottino così dolce. Qualcosa è successo..”

“Già.” Madeleine ripose Ben nella carrozzina, sparendo nel retro per riapparire con una cornice argentea fra le mani, porgendomela; un biondo neonato in braccio alla sua mamma. Avevo gli occhi lucidi. “Occhi verde-azzurro mutevoli..” sussurrai, puntando gli occhi sull’istantanea in bianco e nero ma di deducibile intuizione di che trasparenza fossero gli occhi del bambino che guardava alla sua mamma pieno di amore, ripensando ai discorsi fatti con Clorine, alle mie preghiere vane, al destino-non-esiste di Juliette e mi ritrovai il viso rigato da una lacrima. “Qualcosa è successo. Sto per incontrarlo Madeleine, un incontro segreto, fuori città. Sono passata perché tu lo sapessi, nel caso voglia fargli sapere qualcosa.”

Mi guardò allarmata, “un incontro?!”

“Un favore da un vecchio amico.” Sorrisi sarcastica, prendendole la mano. “Non posso rischiare che non ci sia più un'altra occasione per rivederlo, dirgli quanto lo amo e mettergli fra le braccia suo figlio.”

 

Quando il sole calò Madeleine richiuse con cura dei fogli dentro una busta carta da zucchero, destinati a Fabien, sfilò la foto dalla cornice argentea e me la strinse fra le mani. “Voglio che la tieni tu. Buona fortuna Deesire.”

“A presto Madeleine.”

“Lo spero tanto.” Guardò a Benjamin con gli occhi imperlati di lacrime, prima di sparire sul fondo della bottega e lasciarmi nel cuore di Montmartre al tramonto.

 

Giugno arrivò cadenzando lentamente i suoi giorni e insieme a lui la missiva di Fournier, tempestiva come l’odore della paura che aveva addosso nel salone buono della sua villa, ai giardini stregati; la lessi più volte, con mani tremanti, prima di partire come un razzo per l’organizzazione pratica della cosa. Usai senza mezzi termini mia madre come ombrello parafulmini, giustificando la mia assenza a quel marito da giorni confuso dal mio atteggiamento spesso assente o angosciato –avrei mandato le parcelle del mio medico a Fournier, per la mole di ansiolitici prescritti- e dalle sempre più pressanti minacce di un invasione da parte dei tedeschi, ormai conquistatori del vicino Belgio; Aurelien e il suo staff erano in pena per le sorti del paese e di conseguenza della città, perché se a crollare fosse stata Parigi, tutta la Francia sarebbe crollata intorno a lei. A me non interessava. Non interessava finire sul lastrico, non interessava che dall’altra parte della Senna mio padre stava combattendo per i medesimi scopi e non mi importava della guerra, dei tedeschi o di nessun altro che non fosse Fabien Moreau.

All’alba di un insulsa giornata come un’altra -non per me, ma il resto del mondo era occupato alle proprie pene- una macchina di Fournier era sul viale ad aspettarci; Ygritte ed io ci infilammo dentro come sentinelle ben istruite, senza fiatare, assottigliandoci ai sedili posteriori. L’auto sfilò dritta per gli Champs Elisées in direzione de la porte Maillot confine ovest della città, al di là della quale -il nulla per i Parigini- la statale A quattordici -per tutti gli altri-. Lontano dai palazzi borghesi e i bistrot, mi sentii leggermente più rilassata; piegai il capo all’indietro portando Ben al mio petto, fino a pochi minuti prima fasciato dalle braccia della cameriera. Lo guardai con infinito amore; gli occhi chiusi e le mani piccole strette a pugno, il viso rilassato e il profumo della pelle ambrata alle rose, per nulla turbato, ignaro che da quel giorno, qualcosa nelle nostre vite sarebbe irrimediabilmente cambiato.

Mi addormentai serena. E non ricordai più quant’è che non riuscivo a sognare.

 

La grande vetrata che dava sul giardino rifletteva un tiepido sole estivo; lo stile architettonico di quella casa di periferia rifletteva a pieno il genio visionario di Fournier, la sua spiccata predilezione alla ricerca del nuovo e l’ostentazione ossessiva dei suoi franchi. Guardavo ammaliata Ygritte che cullava dolcemente Ben fra le braccia e il piccolo rispondeva aprendo e chiudendo le manine sul suo viso.

Lo vidi spuntare come un apparizione, un angelo terrestre.. ma ferito; mi colpì subito la chioma rasata, campo arso dove prima crescevano rigogliosi i suoi ricci, gli occhi infossati e grandi, più grandi del solito, verde-azzurro terrore. Guardò interdetto la donna che gli sorrise calando il capo, proseguì sul ciottolato verso la casa e fu allora che mi vide, attraverso il vetro; restò immobile, parole vuote sulle labbra gonfie e rosse. Alzai la mano in vago saluto, tentò un sorriso ma il suo volto era rigido.

Camminò fino a quando non sentii la porta aprirsi.. e le nostre figure perfettamente allineate.

Senza tante cerimonie lo avvicinai, chiudendomi al suo petto - l’unica parte del corpo recettiva, perlomeno percorsa da un fremito- prima di essere circondata dalle sue braccia; odorava di divisa, di tessuto grezzo e pesante, di sudore e infondo a tutto, la sua pelle, evocatrice di ricordi infernali.

Sospirò fra i miei capelli, cullandoci, in silenzio, rotto solo dai suoi singulti e dai miei.

 

“Immagino tu voglia dirmi qualcosa.” Lasciò che le braccia gli scivolassero ai fianchi, scostandosi per guardarmi bene in viso; era cambiato dall’ultima volta che lo avevo visto, non mancavano solo i capelli, ma anche la luce brillante infondo ai suoi occhi, il giocoso Fabien adesso spettro di questo che avevo davanti, più teso, invecchiato, rude nei lineamenti. Aveva perso la fanciullezza e chissà che non fosse per gli orrori che aveva visto, per le notti al fronte, solo e infreddolito. Tremai d’orrore e lui desolato -quasi mi avesse letto nel pensiero- mi passò le mani lungo le braccia, sfregandomi la pelle vibrante sotto al suo tocco.

“Non so da dove cominciare.”

“Tu parla. Parlami Deesire. Ho voglia di sentire la tua voce.” Si infilò nuovamente fra i miei capelli, inspirando e stringendomi forte.

“Devo presentarti una persona.” Tornò al mio viso aggrottando le sopracciglia, vagamente spaventato. “Là.” Indicai con l’indice Ygritte e il fagottino brontolone fra le mani.

“Ci sono una donna e un bambino.” Poi spalancò la bocca a cuore, “il bambino è tuo figlio!” Disse in una quasi nota di delusione, una sorta di stupore e repulsione.

“Mio figlio, sì. E il tuo, Fabien.”

“Mio figlio.” Asserì ironico, passandosi la mano sulla testa.

“Tuo figlio.” Insistei senza alcuna inflessione ironica nella voce. “Benjamin Hani Chedjou. Biologicamente.. Moreau.”

Deesire,” Posò le mani sulle mie spalle, premendo forte. “c’è in corso una guerra, i tedeschi ci sono addosso e sono lontano anni luce dai miei compagni; pensi che ho voglia di mettermi a scherzare?” Sorrise incerto, prima di valutare la pericolosità del mio imperioso silenzio. “Sono qui.. e sono felice di vederti, ma se mi hai fatto chiamare per umiliarmi ancora..” gettò indietro la testa, alla mia non reazione alle sue parole. “Perché tu non stai scherzando, questo vuoi dirmi?!” Adesso era disperato, lo percepivo dalle venature incrinate della sua voce.

“Guardalo.” Gli ordinai, “guarda i suoi capelli. Guarda la sua bocca. Guarda. I. Suoi. Occhi. E se non ti basta pensa ad Auvers. Alle volte che mi hai amata anche con il corpo, a quando ci svegliavamo stretti e tu mi eri ancora dentro. Pensa a tutto questo. Ai biscotti. Al tavolo della mia cucina, al tuo letto.. non posso provartelo, ma non serve una scienza per capirlo.”

“Mio figlio.” Due parole di pura angoscia. “P-posso vederlo?!” Lo scortai fuori, un cenno del capo avvertì Ygritte di passarmi il bambino e sparire in casa. “Prendilo.” Fabien allargò le braccia e nel momento in cui l’infante esalò un vagito, scoppiò a piangere anche lui. Non un pianto disperato, ma un pianto d’amore; i cromosomi che si riconoscono e scatenano una guerra interiore.

Se ne era innamorato nell’istante in cui lo aveva sentito piangere. Proprio come avevo fatto io.

 

Accarezzai la sua mano posata sulla testolina di Ben e lui mi guardò; ricambiai lo sguardo annuendo, colpevole della più assurda verità. “Tutto di lui grida Chedjou. Ma dalla parte sbagliata.”

“E’ perfetto.” Sfiorò il suo profilo con un dito, leggermente, “Ha le fossette..”

“Come tua madre, lo so.”

Lo infastidii, lo capii, perché irrigidì le braccia guardandomi spaesato; il bambino aveva ripreso a piangere, lo presi fra le mie braccia e lo cullai. “Sono suo padre, dici.. ma la realtà è che non lo sono. Aurelien è il suo papà. Io..”

“Io. Io. Io. Tu cosa?!” Ondeggiavo fra una ninna nanna e la voce furiosa, “credi che non ci abbia pensato un milione di volte prima di venirti a cercare?! E quel biglietto poi.. i sogni si avverano! Sì, si avverano Fabien, l’ho capito stringendolo a me per la prima volta; ma era un sogno incompleto, perché tu non c’eri. Sono disperata perché ti amo, ma amo anche mio marito. Ed ora c’è Benjamin..” il piccolo sorrise come sorridono i neonati e mi addolcii, “questo bambino meraviglioso che amo con tutto il cuore, più della mia stessa vita.” Lo guardai infondo a quegli occhi adesso così carichi di stupore, ansia, felicità. “Non ho mai smesso di pensarti e di sperare un finale diverso. Ma le favole sono concluse, il mondo va a pezzi ed io non voglio più sognare.”

Le parole uscirono dalla sua bocca come un ansimo. “C’è. Solo. Un. Modo.”

“Sono pronta a rischiare.. se lo vuoi.”

“Lo voglio?! Ho pensato a te giorno e notte! Tu sai cosa sei per me e questo bambino è la dimostrazione di quello che provo io per te.” Mi infilò una mano fra i capelli, attirandomi verso il suo viso. “Ti prego dimmi ancora che mi ami.”

“Ti amo.”

“Ancora.”

“Ti amo.”

 

Probabilmente se Benjamin non fosse stato un’adorabile presenza nella mia vita, quel giorno, in casa di Fournier io e Fabien avremmo fatto l’amore, arrendendoci a mesi di privazioni, dolore, sofferenza; ma tutto ciò non accadde, godemmo della nostra presenza solo respirandoci addosso, sdraiati a terra con le spalle contro l’angolo di una parete spoglia a giocare con i nostri occhi incatenati, consci e affamati.

“Devi tornare in città. Sarà buio presto.” Si alzò porgendomi aiuto con una mano, dall’altra parte Ben appollaiato sul suo braccio libero. “Prima però ascoltami attentamente; da qui ai prossimi giorni non avrai mie notizie. Voglio che ti trovi un posto Deesire, allarma Aurelien..” deglutì socchiudendo gli occhi, “chiudetevi in casa, sbarrate porte e finestre. Il nemico è vicino ed io non so veramente come andrà finire questa storia.”

“L’esercito francese è forte.. così dicono.”

“Balle. Non abbiamo armi di resistenza sufficienti per difenderci. Difendervi. Ma tu mi devi promettere che ti terrai al sicuro da ogni pericolo. Ti. Prego. Prometti.” Soffiò le ultime parole sulle mie labbra protestanti; mugolai spaventata e l’arrivo dei tedeschi non era il motivo. Me importava meno di niente. Provavo l’angosciante sensazione di non rivederlo mai più. “Shh.. stai tremando.” Mi baciò agli angoli della bocca, poi si posò sulle labbra e vi restò qualche secondo. “Non voglio spaventarti ma devo essere sincero Deesire, non abbiamo idea di come vogliono muoversi i maledetti crucchi. Ti prometto che farò il possibile per ritornare da voi. Non voglio perdervi proprio adesso che vi ho ritrovato. Mi aspetterai?” Baciò Benjamin sulla fronte, prima di metterlo al sicuro fra le mie braccia.

J’attendrai.”

“Saremo insieme. Noi tre. Come una famiglia.”

Mi baciò ancora e ancora, al ricordo della nostra canzone, nella casetta d’Auvers, di nuovo un momento tragico, ma adesso ero certa che sarei stata sua e che lui sarebbe stato mio, anche se l’ombra nera della guerra era su di noi, nel mio cuore sapevo di voler appartenere per sempre a Fabien.

 

“Dove sei stata?!” Aurelien, lo sguardo mesto e stanco, mi stava fissando dal buio del salone senza luci.

“Da mia madre. Sono stanca, vado a dormire.” Sentii i suoi passi veloci alle spalle, poi le sue mani a bloccarmi il polso. “Che ti prende?!”

“Che mi prende?! Deesire sei sfuggente. Assente. Cosa prende a te.”

“Sono stanca.”

“Sì, mi sembra d’avertelo sentito dire.”

“Stiamo litigando Aurelien? Perché sì, sono stanca, Benjamin deve mangiare ed Ygritte è appena andata via. Se le tue lagne da marito ansioso sono terminate, salirei le scale, adempierei ai miei doveri da madre e poi mi farei una bella dormita. Dovresti farla anche tu, sei scosso.”

Mi guardò dispiaciuto, per un attimo vacillai. “Ero preoccupato, tutti lo siamo. Tu no, tu ti porti in giro per Parigi o chissà dove come se nulla fosse, ho creduto perché sei sempre stata più forte di tutti noi.. fino a quando non ho trovato questa.” Sventagliò sotto ai miei occhi la lettera di Fournier, con data e appuntamento per l’arrivo del mio.. pacco. “Cosa state tramando tu e quel verme viscido?!” Tremavo come una foglia, agghiacciata dalle mie stesse menzogne. “A-affari.”

“Affari che implicano la menzogna a quanto pare.” Scosse il capo incredulo e quando si fissò su di me vidi i suoi occhi verde bottiglia persi per sempre. “Ovviamente non eri da tua madre. E per quanto questo mi faccia male in un modo che neanche immagini, lascerò a te il libero arbitrio; vuoi continuare a mentire? O vuoi dirmi cosa sta succedendo? E posso assicurarti che la verità in questo caso farà meno male. Qualsiasi. Essa. Sia.”

Mi affannai in cerca di una risposta, in preda ai conati di rabbia e frustrazione; “Fabien..” non dissi altro, il suo nome uscì come un rantolo. Stavo piangendo ma non volevo, non volevo che mi vedesse fragile, inerme, arresa; meritava la verità e con essa la dignità della mia persona, ma non riuscivo a muovermi. A respirare. Tutto si era fatto più grande, mi sentivo il niente a confronto.

La pedina di un gioco che si era fatto improvvisamente mortale.

Lo vidi portarsi le mani al viso, il capo chino sconfitto, come fosse già a conoscenza di quel verdetto; mi lasciai andare a terra, le gambe flaccide, incapace di sorreggere la mole di dolore che stavo provando in quel momento. Ma d’improvviso qualcuno bussò al portone in modo agitato. Una. Due. Tre volte. Sentimmo la chiave ruotare nel chiavistello e la porta spalancarsi; Martin spiazzato dalla visuale guardò me in stato di panico, più livido in volto di quanto non lo fosse prima d’entrare.

“I tedeschi! I tedeschi hanno sfondato la linea!” Si portò le mani nei capelli; io e Aurelien ci guardammo incapaci di dire nulla. “Dobbiamo andare Aurelien! Presto! Alle aziende!” Vidi padre e figlio smontare i cassetti e prelevare chiavi, documenti, borse, in un vortice impazzito e senza senso; afferravo parole e discorsi ma non riuscivo a sentire nulla, se non il freddo marmo del pavimento e le lacrime copiose sulle mie guance; quando aprii gli occhi, Aurelien era riverso su di me a schiaffeggiarmi il viso dolcemente.

“Aurel..” intorno a noi solo il baluginio di una candela fioca e un forte odore d’umido; eravamo nello scantinato della nostra abitazione.

“Devo andare. Sta arrivando tua madre.” Mi abbracciò, sfuggendo ai miei occhi, ”nella dispensa c’è cibo a sufficienza per due persone e un bambino.” Spostò il suo corpo adagiandomi Benjamin fra le braccia, avvolto in un manto spesso di coperte. “Non dovete assolutamente muovervi di qui, capito? Non prima che la situazione sia chiara, ci metteremo in contatto appena possibile.”

“Che sta succedendo Aurelien?!”

“L’esercito tedesco sta marciando verso Parigi.”

 

Era la notte a cavallo fra il tredici e il quattordici giugno del millenovecentoquaranta; alle cinque e trenta del mattino a bordo delle loro camionette, nei giubbotti di pelle e le collane di proiettili al collo, i tedeschi ci occuparono. La città era stranamente silenziosa, chi aveva avuto tempestiva notizia era scappato da tempo, i pochi restanti e incerti, sfilavano nel loro silenzioso cordoglio verso le arterie che portavano fuori dal centro; Parigi venne dichiarata da subito “città aperta”, questo per evitare che la stessa venisse barbaramente martoriata da bombardamenti aerei o d’artiglieria pesante. Da quel momento difatti, appartenevamo al nemico, subivamo le loro regole e i loro ordini, i loro sguardi accusatori e vessatori e per ultimo -non meno importante- l’umiliazione per essere stati piegati e sconfitti; ma nessuno di noi venne toccato, donne, bambini, anziani.. d’alta società o no, quello che cercavano gli uomini in giubbe grigie con l’aquila sul braccio era ben chiaro.

E sapevano esattamente dove andare a cercarlo.

La notte era il momento peggiore. Si stabilì un coprifuoco che partiva dalle ore undici e gli orologi tirati avanti di un ora per uniformarci all’orario di Berlino; non si dormiva, le urla strazianti di chi veniva deportato fracassavano il cervello, i pianti di tutte quelle madri, zie, nonne, nipoti.. gli indesiderati.

La loro sorte aimè restò oscura a noi tutti, come la più triste delle storie ha già raccontato.

 

Tre giorni dopo l’occupazione, quando la città era ormai roccaforte tedesca e le loro bandiere sventolavano alte persino sulla Tour Eiffel, il generale di Francia Pétain firmò la resa, spaccando definitivamente il paese in due; la parte nord –Parigi in testa- appartenente alla Germania e la parte sud ricollocata ad uno nuovo governo comandato dallo stesso Pétain. Fu allora che ebbi notizie di Fabien; un veloce messaggio vergato con mano malferma, pari ad uno spiraglio di sole nel cielo plumbeo. Stava bene e non era ferito grazie a Dio, citava il generale De Gaulle e il suo accorato discorso via radio dalla capitale inglese in cui spronava i francesi a non mollare, che era sua intenzione formare un esercito di resistenza chiamato “Francia libera” e che Fabien quindi sarebbe partito presto alla volta di Londra per prendervi parte.

 

“Prima di questo ho il disperato bisogno di sentirti, toccarti, amarti Deesire.

Solo così troverò la forza e il coraggio per ritrovare la strada di casa.

Capiscimi amore mio, voglio un mondo in cui mio figlio cresca libero e felice.

Sempre Tuo ,

F.M.”

 

In un'altra missiva mi aveva fatto avere l’indirizzo di una vecchia locanda nel quartier Peupliers, nel profondo sud della città. Bruciai tutto, cercando di mettere insieme le idee, d’ infondermi coraggio, nel mare di confusione in cui navigavo da giorni; Aurelien presidiava le aziende notte e giorno da tre giorni ormai, non avevo sue notizie dal disastro e le nostre conversazioni erano frammentarie, via posta e volte solo alla situazione politica del paese. Dall’altra parte c’era Fabien e il più sublime dei suoi messaggi, la frustrazione di gettarmi nelle sue braccia e amarlo nuovamente, chiedendomi con amarezza quando sarebbe venuto il momento di appartenerci veramente.

Non servì a molto pensare, avevo già deciso.

 

“Cosa?! E te ne vai?!”

Clorine con il terrore negli occhi si trascinava dietro al mio braccio. “Devo andare mamma.” Allentai la presa, strattonandola. “Quando questa assurda guerra finirà –se finirà- io sarò con lui. E non importa se questo non avverrà mai.. io sarò sempre con lui.”

 

*

NDA:

Capitolo “caos” di avvenimenti mie cari lettori/ci; spero che non siate fuggite/i a gambe levate!!!

Il piccolo Benjamin Hani è venuto al mondo e a quanto pare le sensazioni di mamma Deesire erano giuste; per la prima volta mette in discussione la sua perfetta vita pronta a voler rischiare tutto per stare finalmente insieme al suo Fabien. Sullo sfondo però.. la Seconda Guerra Mondiale appena piombata a Parigi.

Cosa succederà adesso?! Se ne avete voglia continuate a seguirmi! J

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, la conclusione della storia è alle porte.

(credo di riuscire a terminarla in non più di altri due capitoli. Credo!)

Vi abbraccio forte,

Lunadreamy.

  
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