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Autore: ardenteurophile    11/06/2013    7 recensioni
[...] Sei… hai detto alla tua famiglia che siamo un coppia?”
“No.” Borbottò Sherlock, seccato. “Ovviamente no.”
John sventolò un po’ le braccia, totalmente incredulo.
“Allora cosa–“
“Io… solamente mi sono limitato a non correggerli quando lo hanno dedotto.” Ammise Sherlock. “Non sembrava importante all’inizio, e poi…”
“E poi? E poi cosa, Sherlock?”
“Sembravano così orgogliosi di me per una volta...” La sua voce venne improvvisamente meno, mentre fissava la sua tovaglietta. “Non mi piaceva l’idea di rivelar loro la verità.”
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Mycroft Holmes , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CHAPTER 7

 

John trovò Sherlock spaparanzato sul loro letto – un brivido percorse la sua mente al pensiero del pronome possessivo mai usato prima d’ora – a prima vista decisamente dissoluto, per quanto lo potesse sembrare qualcuno ancora totalmente vestito. Pareva che si fosse liberato del maglione alla fine; davvero un peccato, pensò. Inoltre era totalmente assorto nella lettura di un manuale sulla cura delle api.
“John” lo apostrofò a mo’ di saluto non appena fece il suo ingresso nella stanza.
“Non sapevo ti interessassero le api” gli rispose, la voce più acuta e tesa di quanto avesse sperato tradiva lo stress della sua serata.
“Un hobby” replicò Sherlock con noncuranza, scoccando un’occhiata all’amico. La sua nonchalance si sgretolò immediatamente alla vista dell’espressione di John, e scattò a sedere impettito sul letto.
“Cos’è successo?” inquisì.
John esaminò velocemente ogni le possibile risposta alla domanda, pregando Dio che non apparissero tutte quante sulla sua faccia. Cosa avrebbe dovuto dire? Oh, ehi Sherlock, ho appena scoperto che nessuno in questo edificio crede davvero che noi stiamo insieme, tutta la tua famiglia – te incluso, a proposito – sta completamente dando i numeri, ciononostante sono venuto qui con l’espressa intenzione di condividere il letto con te stasera. No, meglio di no.
“Rispondimi John, cos’è successo?”
Scosse la testa, stimando che una parte della verità sarebbe stata meglio di niente quando si trattava di Sherlock.
“Niente, davvero, la tua famiglia è solo un po’… protettiva, tutto qui. Non l’avrei mai immaginato. Tua madre mi ha solo fermato per il solito vecchio:  ‘se gli farai del male, ti ucciderò’”.
Sherlock sembrava totalmente sconcertato.
“Se mi farai del male lei cosa?” ripeté incredulo.
“Mi ucciderà” completò John. “Non letteralmente. Beh, possibilmente letteralmente, non ne sono sicuro”.
Sherlock assunse un’espressione inizialmente stranamente toccata, che tutto d’un tratto si trasformò in una stranamente furiosa.
“Se ti ucciderà, io le farò del male” giurò veementemente. John scosse la testa, incredulo.
“Adorabile. Avete proprio quella che si dice una sana dinamica famigliare”.
Sherlock si rilasso sul cuscino e rivolse nuovamente la sua attenzione al libro, scoccando all’uomo occhiate occasionali tra una pagina e l’altra. John si lasciò cadere sulla sedia ad un angolo della stanza ed incominciò a tamburellare sul suo telefono con il pensiero che forse sarebbe riuscito a individuare con precisione sul suo blog l’esatto momento in cui la sua vita era diventata completamente ridicola e irriconoscibile. Ah certo, pensò, scorrendo tutti i suoi post. Naturalmente. Aveva incontrato uno svitato.
“Non vieni a letto?” Domandò improvvisamente Sherlock, in tono quasi piagnucoloso. John si schiarì la voce nervosamente.
“Ehm. Sì. In realtà sto lavorando ad un passo particolarmente impegnativo…”
Ci fu silenzio per un momento, prima che Sherlock evidentemente decretasse che John non potesse essere lasciato solo per più di una manciata di secondi.
“Cosa stai facendo?”
“Non riesci a dedurlo?” domandò, una nota di divertimento nella sua voce.
“Stai controllando se ci sono nuovi commenti sul tuo blog. Perché?”
“In caso ci fossero?”
“Non usare del sarcasmo, John, sei decisamente troppo buono per farlo”.
Sorrise, picchiettando una risposta ad uno dei tipici commenti immaturi di Harry. Questo andava bene, pensò, questo era normale. Poteva semplicemente fingere che fossero a Baker Street, che lui stesse navigando in internet mentre Sherlock leggeva un libro e che tutto andasse per il meglio.
“Ma potresti scrivere nella tua nuova agenda, non ti va?” suggerì Sherlock, il tono volutamente noncurante. John si voltò verso di lui, abbandonando la sua pretesa di normalità.
“Ah, già, la mia agenda. Ho parlato con Mycroft a riguardo. Lui è dell’opinione che quell’agenda è un sinonimo del tuo sentirti… ehm, possessivo nei miei confronti”.
Sherlock sbuffò e tornò al suo libro.
“I poteri deduttivi di Mycroft sono decisamente scarsi in certe aree, specialmente quella che riguarda me” spiegò.
“Pensa che tu voglia tenere tutti i miei pensieri per te. In questo modo nessun’altro potrebbe leggerli” continuò John, cercando di nascondere un sorriso. “Dice che non ti piace condividere”.
Sherlock rimase in silenzio, i suo occhi che vagavano per la pagina di fronte a lui. John non credette nemmeno per un istante che la stesse veramente leggendo.
“Sherlock” mormorò piano. Il suo amico alzò la testa.
“Lo sapevi” iniziò “che ci sono quasi duemila specie conosciute di api, suddivise in nove famiglie, che sono: Andrenidae, Apidae, Colletidae, Dasypodaidae, Halictidae, Magachilidae, Maganomiidae, Melittidae, Stenotritidae. Penso che le api da miele siano le più interessanti, e sono ampiamente considerate quelle socialmente più complesse; malgrado le loro azioni non siano così specifiche come le motivazioni individuali che si incontrano giorno per giorno, sembrano in ogni caso averne di proprie, identificabili nella loro società, una società che in quanto a strutture non ha nulla da invidiare alla nostra. Le api da miele sono del genere Apis , con un totale di sette specie riconosciute e quarantaquattro sottospecie…”
Il monologo di Sherlock sulle api si interruppe a metà frase; la stanza sembrava ronzare leggermente in sua assenza.  Come spesso succedeva quando dialogava con il suo amico, John si ritrovò a domandarsi se avesse di fatto ingurgitato Wikipedia. Anche se, per essere onesti, l’argomento solitamente verteva sulle varietà di veleni o sui metodi di strangolamento, non su insetti alati.
“Beh” si espresse John alla fine. “Sembra che tu sappia tutto quello che c’è da sapere sulle api, in ogni caso. Ma –“
Sherlock chiuse violentemente il libro con un risatina di derisione, gettandolo poi accanto sul letto.
“È una frazione essenziale di quello che bisognerebbe conoscere riguardo alle api. E la frazione essenziale di quello che io conosco su di loro. Ma un giorno, sì, spero di comprenderle quasi completamente. Non vedo l’ora che arrivi quel giorno, ma meglio, non vedo l’ora di intraprendere il processo che mi porterà lì”.
John assunse un cipiglio interrogativo.
“Ma questo cosa ha a che fare con –“
“Non faccio niente a metà, John”.
Sherlock era seduto dritto sul letto, lo sguardo elettrico, i capelli che ricadevano disordinatamente sul volto. John deglutì, il suo respiro si faceva largo nel petto, indeciso su cosa proferire esattamente in risposta ad una tale dichiarazione, tuttavia incapace di distogliere lo sguardo.
“A proposito, grazie per aver portato avanti la recita stasera” aggiunse Sherlock, abbassando gli occhi quando vide che John non rispondeva immediatamente. “So che non deve essere stato facile”.
John scrollò la mano in segno di rifiuto quasi irrequieto, scuotendo il capo nel frattempo.
“No, no, va bene, Sherlock, è tutto a posto –“
“Non sono esattamente la persona più facile da avere attorno, anche in circostanze normali. Avrei dovuto avvisarti con un discreto anticipo; sono arrivato alla conclusione che, dopotutto, tenerti informato delle mie azioni quasi inevitabilmente conduce ad un miglior risultato sul campo –“
“– si beh, me l’avresti potuto dire prima –“
“– ma onestamente non sapevo se avresti accettato a portare avanti questa sceneggiata a priori”.
John lo fissò, quindi scoppiò in una risata fragorosa.
“Non avevo capito che avrei potuto decidere se continuare o meno questa cosa a priori”.
Sherlock gli rivolse un sorriso quasi malinconico.
“Dovresti averlo. Avresti dovuto. Volevo vantarmi un po’, credo.”
“È comprensibile. Chi mai non vorrebbe vantarsi di questo avanzo di fusto ricoperto di cicatrici di guerra? Faccio un’ottima impressione con maglioni bitorzoluti e una patetica zoppia. Sono una scelta perfetta, chiunque sarebbe fortunato ad avermi. Sherlock, se mi avessi –“
“Lo sarebbe”.
“– una scelta, avrei fatto quello che faccio sempre, che vale a dire, avrei fatto quello che mi avresti chiesto. Qualsiasi cosa mi avresti chiesto, Sherlock.”
John si interruppe, leggermente ansimante, mentre entrambi processavano l’uno le parole dell’altro, scandagliandosi con gli occhi spalancati. Ci fu una lunga pausa.
“Quando hai detto che ti ho salvato la vita in più di un’occasione…” iniziò curioso Sherlock, il suo sguardo focalizzato su John.
“Lo intendevo sul serio. Quando hai detto che non fai le cose a metà…?”
“Lo intendevo sul serio. Quindi. Tu… faresti qualsiasi cosa ti chieda?”
John deglutì, sentendosi come se si trovasse sull’orlo di una specie di precipizio, mentre l’abisso gli lambiva già le caviglie e si attorcigliava tra loro, oscuro e seducente. Aveva solo due opzioni in quel momento, e sapeva quale avrebbe dovuto scegliere: allontanarsi dal precipizio, fare attenzione al crepaccio, liberare l’area. Prese un respiro profondo.
“Sì.”
“Qualsiasi cosa?”
“Sì, Dio Sherlock, sì”.
L’abisso lo reclamava.
Sherlock sorrise.
“Allora, John, vieni a letto” Mormorò con la sua voce grave e pericolosa.
John scattò in piedi immediatamente, ipnotizzato dal tono setoso di Sherlock.
Coprì i pochi passi che lo separavano da letto senza nemmeno realizzare di essersi mosso.
“Naturalmente”.
Gli saltò in mente, in un oscuro angolino del suo cervello, che era più che pronto a prendere ordini da quell’uomo. Gli saltò in mente, in un altro angolino, che probabilmente gli sarebbe piaciuto.
Sfilò malamente il ridicolo maglione di Aracelia e iniziò a far saltare i bottoni della camicia, mentre i suoi nervi parevano essere distesi sui carboni ardenti.  Arrischiò uno sguardo alle sue mani. Naturalmente erano salde. Quasi sorrise. Era stata una delle deduzioni più impressionanti di Mycroft.
“Non smetterò di scrivere sul mio blog” asserì fermamente. Gli occhi di Sherlock erano incatenati ai suoi.
“Se posso chiederti di non scrivere almeno di questo particolare caso…” replicò. John soffocò una risatina, poi si accigliò, le sue mani sospesero la loro attività. Gli occhi di Sherlock si fissarono sul suo petto, consapevoli dell’interruzione.
“Ti prego, continua a spogliarti” affermò, la sua voce educata e regolata, come se non stesse facendo nient’altro se non chiedere ad un cliente di raccontare i dettagli di un crimine.
“Sì, ma, aspetta. Sherlock, tu consideri questo – me –come un caso?”
D’un tratto John ebbe il brutto presentimento che tutto quello – l’intera notte che culminava in quel momento, francamente surreale, nella camera degli ospiti del maniero di Mycroft – fosse solo l’ennesimo degli esperimenti di Sherlock. Come i bulbi oculari nel microonde. O l’intera settimana senza bere nulla a parte Red Bull. O il repentino interesse nella pasticceria [1].
“Naturalmente no” rispose Sherlock, leggermente impaziente. “Lo considero Il Caso”.
Le lettere maiuscole erano quasi tangibili. I suoi occhi erano scuri, più scuri di quanto John li avesse mai visto, ma con una sfumatura di pazzia che conosceva molto bene – era la stessa folle intensità che scorgeva quando si trovavano nel bel mezzo di un caso. La stessa folle intensità che sapeva benissimo riflettersi nei suoi stessi occhi tutte le volte che si trovava da qualche parte vicino a quell’uomo.
“Sherlock –“ sospirò.
“Sembra che tu stia ancora indossando i tuoi vestiti. Credo che questo sia un problema a cui possa rimediare, ti prego, permettimi di aiutarti. Ho compiuto ampi studi in questo settore che credo abbiano qualche applicazione pratica”.
E all’improvviso lunghe dita affusolate percorrevano agilmente gli addominali di John,  completando rapidamente il lavoro con il resto della sua camicia. Il dottore si focalizzò su quelle pallide dita longilinee, quasi scheletriche, che aveva osservato accarezzare il violino centinaia di volte e accarezzare un cadavere con la medesima attenzione. Le stesse dita che in quel momento stavano sfiorando la sua pelle, esperte ma riverenti.
“Nessuno parla come te” masticò stupidamente, incapace di esprimere un pensiero più coerente. “Non nella realtà”.
“Nessuno lo fa? Noioso”  sussurrò strascicato Sherlock. “Nessun’altro ragiona come me, mi pare”.
John sollevò una mano, esitante, e fece scivolare le proprie dita sullo zigomo di Sherlock. Si aspettava che fosse freddo, in qualche modo, come il marmo, ma era morbido e caldo e incessantemente umano. Sherlock chiuse gli occhi e si abbandonò un poco al suo tocco, simile in tutto e per tutto ad un gatto troppo cresciuto.
“Non mi pare, no. Cosa stai pensando… in questo momento?” domandò.
Sherlock alzò un sopracciglio e fece scivolare la camicia dalle spalle di John, lasciando che svolazzasse a terra.
“Stavo pensando che mi piace scartare i regali a Natale” soffiò, la sua voce era seta e ciottoli splendenti e schegge di vetro. John sbatté le palpebre all’affermazione inaspettata,  per poi scoppiare in una risata fragorosa. Sherlock approfittò del momento di distrazione per afferrarlo per le cosce, spostare il suo peso all’indietro e trascinare improvvisamente John con sé nel letto, dove questi si ritrovò un istante dopo, ansimante e frastornato.
“Dove hai imparato –“
“Non mi crederesti se provassi a spiegartelo” lo stuzzicò Sherlock, gli occhi incatenati al volto di John, a pochi centimetri dal proprio.
“Mettimi alla prova.”
Un angolino della bocca di Sherlock si incurvò.
“Non ti dispiace se ci provo” mormorò, avvicinandosi all’altro e catturando le sua labbra con le proprie. John si lasciò sfuggire uno strilletto stupefatto, che fu subito smorzato da qualcosa di più apprezzabile nel momento in cui assaggiò la lingua di Sherlock nella sua bocca, che lappava, esplorava, reclamava la sua. Baciare quell’uomo era simile a qualsiasi altra attività svolta assieme lui, dalla conversazione alle precipitose maratone per l’intera Londra: ci si trovava sempre un passo indietro, tentando disperatamente di tenere il ritmo e comprendere non solo quello che era successo, ma anche quello che stava per accadere.
Sherlock si ritirò troppo presto, con fare pensoso.
“Hm. Molto meglio di quanto ricordassi” concluse dopo qualche secondo. John si accigliò.
“Molto meglio di – cosa?”
“Non fare il pappagallo, John. Baciarsi, l’atto del baciarsi è molto meglio di quanto ricordassi. Baciarsi, è passato un po’ di tempo dall’ultima volta”.
“Oh” concordò John, tentando di riportare il viso di Sherlock verso il suo, ma senza molta fortuna: il suo sguardo era assorto in quel distante scintillio, come se stesse guardando qualcosa dentro la propria testa. Assunse un’espressione leggermente accigliata, curiosa, come se avesse appena scoperto qualcosa.
“Sembrerebbe che l’atto fisico sia notevolmente migliorato dall’attaccamento emotivo. Interessante. Credi che –“
“Credo che dovresti baciarmi di nuovo” affermò John. Sherlock batté le palpebre, come se avesse realizzato in quell’istante la presenza del dottore.
“La prova di un esperimento è nella sua ripetibilità?” tentò John speranzoso, valutando che probabilmente la scienza sarebbe stata il metodo migliore per costringere Sherlock a fare qualsiasi cosa. Il detective ghignò semplicemente.
“Conosci i miei metodi, John. Applicali”.
Per un istante, John gli scoccò un’occhiata, quindi capovolse rapidamente la situazione in modo che Sherlock fosse intrappolato sotto di lui, il suo corpo sorprendentemente fragile tra le sue braccia. Si concesse qualche istante per sentirsi decisamente compiaciuto riguardo alle circostanze, finché non si accorse degli occhi trionfanti di Sherlock.
“Ottimo” si congratulò “Eccellente, sei in splendida forma stasera”.
John mugolò, impiegando un paio di secondi per accorgersi che ogni vittoria con quell’uomo era probabilmente una sconfitta camuffata, prima di attirare Sherlock a sé e baciarlo ferocemente. Questi rispose con lo stesso fervore, deciso come lo era in tutte le sue altre attività. Improvvisamente le sue mani sembravano essere ovunque, guizzando dall’anca al collo all’addome con leggerezza, con tocchi maliziosi che quasi facevano ringhiare John, frustrato.  Sherlock era tutto piatto e spigoloso, quasi etereo nella sua presenza, come se si potesse dissolvere in un battito di ciglia. John si appuntò quindi di non batterle, di non batterle mai, e in un momento di follia vide sé stesso, sveglio da giorni, solo per esserne sicuro.
“Non me ne vado da nessuna parte” mormorò Sherlock, la sua sconcertante mania di rispondere ai suoi pensieri invece che alle parole (che ammontavano a zero,  fino a quel momento, se si escludevano incomprensibili rantoli occasionali). Rilasciò un respiro che non  si era neanche accorto di aver trattenuto, solamente per prenderne immediatamente un altro nell’istante in cui Sherlock iniziò a succhiare e mordicchiare il collo di John, fino alla fine della gola, fermandosi a lappare sulle clavicole. John all'improvviso si rese conto di quello che Sherlock stava per scoprire e si irrigidì; nello stesso istante il detective interruppe le sue attenzioni.
“Oh” esalò piano, il suo dito che scorreva sul tessuto cicatriziale raggrinzito, i suoi occhi decisi e scintillanti per la curiosità. John ridacchiò amaramente.
“Sì, beh non sono così perfetto” borbottò. Sherlock lo scandagliò con uno sguardo laconico ed esasperato prima di ritornare ad un attento esame della cicatrice. Non era enorme, davvero, sebbene fosse sicuramente orrenda, si estendeva dalla parte interna della clavicola sinistra per tutta la lunghezza della spalla vera e propria.
“No, sei imperfetto, cosa che è decisamente più affascinante” asserì, tracciando il percorso della cicatrice con il pollice e quindi – con un gesto talmente intimo da far stringere e attorcigliare lo stomaco di John –con la lingua. Non è che facesse male, sebbene l’area fosse più sensibile, era più l’idea che quell’orribile pezzo di carne e pelle fosse degno di tempo, sforzo o passione di qualsiasi tipo. Ritrovò le proprie mani nei capelli di Sherlock, tirando e ravviando la sua zazzera di riccioli scuri, mentre le labbra del detective si muovevano ancora lungo la sua spalla.
Al suono dei gemiti di John, Sherlock si allontanò con uno sguardo determinato.
“Sei sicuro?” borbottò, malgrado il suo tono fosse forzato, come se la domanda fosse stata cavata dalla sua gola contro il suo volere. John rabbrividì leggermente mentre i suoi respiri si facevano sempre più veloci e pesanti.
“È solamente una cicatrice, Sherlock, non significa nulla, davvero. Non è ciò che sono.”
“No, intendevo dire - ” scosse vagamente la mano. “Questo. Tutto questo. Sei sicuro? Mi sembra di dover controllare”.
John ridacchiò.
“È un po’ tardi per chiedere, no?” ribatté, ma qualcosa negli occhi di Sherlock lo convinse a rispondere seriamente alla domanda. “Sì, sono sicuro. Sì”.
Sherlock gli regalò un ampio sorriso, innocente e sbilenco, che impedì a John di respirare. Si sfilò da sotto il corpo dell’altro per poi alzare le braccia e levarsi la camicia con un movimento fluido, senza nemmeno considerare i bottoni, e quindi gettar via ciecamente il tutto dal letto. John si ritrovò a fissare sfacciatamente a quella strana creatura aliena dagli arti longilinei, tutta gomiti e alabastro, che stava gattonando agilmente lungo il letto e salendo a cavalcioni del suo corpo disteso. Per un istante non riuscì a riconoscere la figura del suo migliore amico in quell’essere – la luce soffusa della camera da letto lo avvolgeva in maniera innaturale – finché questi si sistemò sopra di lui e scandagliò il suo corpo con quello sguardo inquisitorio ormai famigliare, sebbene normalmente non diretto a lui. Sherlock non si mosse.
“Cosa stai facendo?” domandò John, già sospettando la risposta prima di riceverla.
“Ti sto studiando”.
“Giusto. Dobbiamo aspettarci un saggio sull’argomento?”
Sherlock proseguì col suo esame, ma gli angoli della sua bocca si piegarono leggermente.
“Forse. Spero che sia uno studio trasversale, in qualche modo. Ci sarà bisogno di un mucchio di dati.”
Si abbassò improvvisamente e prese in bocca un capezzolo di John, ghignando quando l’altro gli rispose con dei gemiti entusiasti, affondando le unghie nelle spalle di Sherlock.
“Per esempio, persino questo fatto è molto interessante, e sicuramente merita una ricerca più approfondita” continuò con la voce baritonale che vibrava lungo il petto di John, il tono disinvolto che serviva solamente ad aumentare la sua eccitazione. “È necessario che sia catalogato, come sono sicuro che tu già sai”.
“È davvero un peccato non aver iniziato prima, sul serio” esalò John, improvvisamente conscio dei momenti sprecati seduti l’uno accanto all’altro a Baker Street, in taxi, sul treno: vicini quanto due persone potessero permettersi di esserlo, ma non abbastanza, non fino a quel momento. Sherlock gli scoccò una lieve occhiata rimprovero.
“È quello che ho provato a dirti da mesi” borbottò, rivolgendo nuovamente  la sua attenzione all’addome di John mentre le sue dita cercavano di averla vinta sulla fibbia della cintura. “Non capisco come avrei potuto essere più ovvio”.
“Verbalizzarlo sarebbe potuto essere d’aiuto” gli fece notare John.
“Sarebbe stato d’aiuto se tu non fossi stato così ottuso” ribatté Sherlock, lasciandosi sfuggire un breve suono di vittoria nel momento in cui riuscì ad aprire con successo la fibbia.
“Allora evidentemente l’intervento di tua madre è stato una benedizione, altrimenti non ci saremo mai arrivati da soli”.
John sentì, più che vedere, di aver detto la cosa sbagliata: Sherlock si irrigidì sopra il suo corpo, improvvisamente talmente duro e freddo da sembrare realmente di marmo.
“Mia madre?” ringhiò pericolosamente, la sua voce così calma che John riuscì mala pena ad udirla. Si scostò e lo fissò dritto negli occhi, indubbiamente leggendo ogni singola micro espressione sul suo volto. “Cos’ha fatto mia madre questa volta?”
John rimase in silenzio, sbattendo stupidamente le palpebre in quell’atmosfera di panico ed eccitazione non ancora svanita. Sembrò che Sherlock lesse tutto quello che c’era da sapere nella sua mancanza di risposte.
“Capisco” statuì freddamente, sollevandosi bruscamente da John per poi appollaiarsi sulla sponda del letto, a disagio. John si sedette, maledicendo la sua linguaccia a denti stretti per avergli consentito di parlare senza pensare, e appoggiò una mano sulla spalla di Sherlock nel tentativo di riguadagnare la sua attenzione. Questi lo ignorò, improvvisamente distante e intoccabile come l’uomo che aveva incontrato per la prima volta in un asettico laboratorio del Bart’s.
“Sherlock?”
“E ancora una volta sono una pedina nel gioco di Mamma” sputò amaramente Sherlock mentre le sue dita si contorcevano leggermente sulle ginocchia. John fissò il profilo dell’amico, arrischiandosi quasi a chiedere quali altri ‘giochetti’ Mamma avesse condotto in passato. Aveva il presentimento che nella famiglia Holmes i passatempi fossero qualcosa di più di Nascondino o Monopoli. Specialmente quando aggiungeva al resto il modo in cui Sherlock si riferisse costantemente all’incubo con Moriarty come ad un ‘gioco’, indipendentemente da quanto fossero diventate inappropriate le circostanze.
“Cercava solamente di aiutare” spiegò disperatamente, sicuro – nonostante conoscesse Aracelia veramente poco – che fosse la verità.
“Quindi non ha mai creduto –“ proseguì Sherlock, fermando il suo sguardo sul viso di John per scorgervi una conferma prima ancora che questi potesse formulare una frase. “No, certo che no, è stato stupido da parte mia”. Si voltò nuovamente, fissando meticolosamente la parete, i suoi pensieri ovviamente in qualche luogo molto lontano da quella minuscola ed insignificante camera da letto.
“Sconfitto. Di nuovo” borbottò furiosamente e d’un tratto John realizzò l’odio di Sherlock nell’essere superato, sebbene non accadesse frequentemente fuori nel mondo reale, e l’impotenza che doveva provare nell’essere costantemente raggirato dai membri della propria famiglia, manovrato da coloro che gli erano più vicini. Ed era davvero stato raggirato in quel caso, alla fine anche dallo stesso John, che normalmente non poteva nascondergli nulla di nulla. Si chiese se avesse dovuto parlargli delle macchinazioni di Aracelia nel preciso istante in cui aveva varcato la soglia della camera da letto, si chiese perché non l’avesse fatto – in fondo, la sua lealtà verso Sherlock normalmente surclassava ogni altra preoccupazione. Sospettava che la risposta fosse che avrebbe preferito vedere come la faccenda si sarebbe conclusa all’interno di quella finzione, piuttosto che distruggerla e vedere se invece avesse potuto resistere al di fuori di quelle quattro mura.
“Sherlock, l’ha fatto solamente perché era riuscita a capire i miei sentimenti nei tuoi confronti, e i tuoi nei miei, e pensava avessimo bisogno di una piccola spinta in più.”
Sherlock lo scrutò, gelido.
“il problema con Aracelia Holmes” spiegò, la voce tesa e tagliente per contenere l’emozione. “È che pensa che tutti coloro che la circondino necessitino di una piccola spinta in più. E nella maggior parte dei casi quella minuscola spintarella in più è la causa di un improvvisa ed imprevista caduta da un burrone. E lei continua comunque a credere che sia la cosa migliore per lei e per tutti gli altri, malgrado la scia di corpi malridotti ai suoi piedi”.
John chiuse velocemente gli occhi, lasciando saggiamente cadere l’argomento. Allungò la mano e la intrecciò con quella di Sherlock, sperando di poterlo persuadere con la sua presenza, se non altro. Sherlock la fissò, quindi la riappoggiò tranquillamente sul ginocchio dell’altro.
“Non permetterò a noi di diventare una delle sue vittime” statuì spassionato , prima di alzarsi e sorridere a John in maniera educata e leggermente forzata. “Si sta facendo tardi. Dovremmo andare a dormire”.
“In realtà, speravo in qualcosa di un tantino diverso dal dormire” replicò John, incapace di nascondere il desiderio dalla sua voce. Sherlock lo ignorò mentre si spogliava sbrigativamente fino ai boxer e si adagiava sotto le coperte con la schiena rivolta verso l’amico. Il dottore si lasciò sfuggire una serie di epiteti coloriti dentro la sua testa, prendendosi metaforicamente a schiaffi per avere rovinato le cose fra loro ancor prima che cominciassero.
“Sherlock –“ tentò ancora una volta, accarezzando leggermente la spalla del suo amico. Nessuna risposta.  Sospirò e si voltò per spegnere la lampada accanto al letto. Celato dall’oscurità, non vi era alcun rumore nella stanza escluso il debole respiro del detective. John fissò il punto in cui avrebbe dovuto trovarsi il soffitto se avesse potuto vederlo, meravigliandosi di quanto velocemente si fosse alterato il percorso della serata. Con Sherlock sembrava spesso di camminare sulle sabbie mobili, riuscendo a malapena a fare leva sul terreno.
“Sarò sempre qui domani mattina, Sherlock” sussurrò debolmente, non curandosi del fatto che le sue parole venissero sentite e registrate o meno. “E il giorno dopo, quello dopo e l’altro ancora. E se tua madre, o chiunque altro, ci spingerà giù da un burrone, beh, siamo sopravvissuti a molto peggio”.
Nessuna risposta, non se ne aspettava una. Si voltò dall’altra parte con la schiena verso Sherlock, in modo da essere in grado appena di percepire il calore del suo corpo, cosa che non risolse né il senso di frustrazione né l’eccitazione assillante.
Per lungo tempo rimase lì sdraiato, nell’oscurità della stanza, ad ascoltare il sistema di respirazione di Sherlock, che indicava almeno che anche lui era ancora sveglio. Un paio di volte tentò di voltarsi con l’intenzione di provare a parlargli nuovamente, o perlomeno fare qualche battuta idiota in modo da alleggerire la situazione. Non fece nulla di tutto ciò, e alla fine riuscì ad addormentarsi, troppo estenuato dai pensieri che gli frullavano in testa per star sveglio.
Trascorse molto tempo prima che il respiro di Sherlock si regolarizzasse e lui seguisse finalmente il dottore nel mondo dell’incoscienza, con le braccia attorno alle ginocchia ed una sfumatura grigiastra dell’alba che incominciava a sanguinare nel cielo notturno.

 
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Questo capitolo è stato veramente un PARTO plurigemellare. Tra la quantità spropositata di studio e le lezioni sempre più impegnative, sono riuscita a terminare il tutto solamente ieri sera alle tre di notte. Tra parentesi, non sono molto soddisfatta del risultato, è stato veramente un lavoraccio e mi sarebbe piaciuto soffermarmi meglio su determinate costruzioni. Tuttavia, temo che se lo avessi fatto avreste avuto tutto l’ambaradan pronto per il prossimo Natale, e tanti saluti alla puntualità.
Mi piacerebbe comunque che mi faceste sapere cosa ne pensate, consigli e suggerimenti vari sono graditi!
A proposito, la nota [1] si riferisce ad un altro lavoro dell’autrice, che è stato tradotto da Madame Butterfly ed è disponibile sul sito. Leggetelo, se non l’avete ancora fatto, da non perdere.
Questo bla bla bla è finito (finalmente). Vi lascio, alla prossima.
OceanMind
 
  
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