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Autore: Glory Of Selene    16/06/2013    2 recensioni
"Vai, vai, bellezza, il viaggio alla riscoperta del tuo passato comincia ora. E, chissà, magari imparerai anche qualcosa"
Cosa succederebbe se Tuomas e i Nightwish fossero trasportati in una favola, all'inseguimento di alcune delle loro vecchie canzoni?
Genere: Fantasy, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anette Olzon, Erno Vuorinen, Jukka Nevalainen , Marko Hietala , Tuomas Holopainen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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«Emppu… non andare.»
Lui non rispose. Si asciugò le lacrime invece, e continuò a guardare verso la strada.
«Ti potrà solamente causare altro dolore.»
Anette parlava con il cuore in mano.
«Non posso rimanere indifferente. È uno degli amici migliori che abbia mai avuto. Ho passato una vita con lui.»
«Ed è per questo che sarà una tortura!»
Emppu la guardò negli occhi, e per un istante lei ne fu spaventata. Era così profonda, la disperazione che vi si leggeva…
«Se ci fosse un modo per salvarlo?» mormorò lui, in un soffio. Aveva paura a dirlo.
Lei scosse la testa. «Erno, non sei un guerriero. Il tuo unico modo di combattere è suonare, ed è la cosa più bella che io abbia mai visto, un uomo che per farsi valere usa l’arte. È una cosa… pura. Non lasciarti distruggere in questo modo.»
«Ma tu che ne sai, eh, Anette?!»
Lei tacque. Sapeva benissimo dove sarebbero andate a parare le sue parole, e avevano già cominciato ad inciderle nel petto il segno dell’ennesima ferita impossibile da cancellare.
«Che ne sai di amicizia, e di arte, e di… di purezza? Tu l’hai tradito. E sono certo che l’Anette che cantava con noi non aveva il cuore freddo come il tuo.»
Silenzio, per molto tempo.
«Non ne so nulla, infatti.» ammise lei dopo aver abbassato lo sguardo e taciuto a lungo. «Ma è proprio perché conosco l’odio e l’orrore e la corruzione posso dirti senza sbagliare in che modo mali del genere s’insinuino negli animi della gente. E non vorrei che lo facessero anche con te.»
Per pochi, pochissimi attimi, Emppu ci credette, e fu persuaso.
Poi, quegli attimi passarono.
«Mi dispiace.»
E anche lui se ne andò. Quando la guerriera alzò lo sguardo, vide che la sua chitarra era rimasta lì, appoggiata ad un masso, come un relitto di chissà quali meravigliosi tempi passati.
 
La Capitale, Palazzo Imperiale. Prigioni.
 
La porta si aprì, e Tuomas fu costretto a chiudere gli occhi per non rimanere accecato. Pazzesco. Anche la tenue luce delle torce, dopo quel periodo passato nel buio più totale, riusciva a fargli del male.
«Ciao, illusionista». E poi, risate.
Quando riuscì a socchiudere gli occhi, il tastierista riconobbe le sagome nere di due uomini, che lo afferrarono per le braccia con le loro risate sguaiate. Mentre lo mettevano in piedi, e si accorgeva di aver dimenticato come si camminasse, si chiese se per caso l’Imperatore non gli avesse trasformato le gambe in gelatina con uno dei suoi diabolici incantesimi.
«Ma guardalo,» borbottava quello che lo stava sorreggendo mentre l’altro gli legava le mani dietro la schiena. «l’ultimo dei maghi. Non riesce nemmeno a rimanere in piedi da solo.»
«E qua?» aggiunse l’altro quando ebbe finito e lo ebbe scaricato completamente a quello che lo stava tenendo. Recuperò la torcia e si avvicinò al pavimento. Raccolse i fogli che Tuomas aveva lasciato per terra. «Che cosa scrivevi? Le ultime memorie? O una lettera alla mamma?». Rise, ma l’altro si fece pallido in volto.
«Zitto. Forse sono formule magiche.»
Quando il soldato comprese, digrignò i denti e prese Tuomas per il bavero. «Volevi trasformarci in topi, non è così?!»
«Lascialo stare.» lo fermò l’altro. «Avanti, leggici quello che c’è scritto.» ordinò poi, piazzandogli i fogli davanti al naso.
«Non posso», ansimò il tastierista, «vedi? Sono cancellati.»
Il soldato sorrise. «Fai il furbo. Ma l’Imperatore non può essere ingannato quando si tratta di incantesimi; questi li faremo vedere a lui, illusionista.»
Anche l’altro ghignò, di riflesso, e insieme lo trascinarono fuori dalla cella, fino al corridoio sotterraneo e claustrofobico, che aveva l’odore della muffa e dell’anima dei prigionieri che pian piano si sgretolava fino a diventare il più sottile rivolo d’acqua. Quel luogo, illuminato dalle rade torce appese alla parete, metteva più paura delle celle stesse.
«Dove mi portate?» domandò alla fine Tuomas.
«Ad incontrare il Creatore», gli venne risposto. E non ci fu più nessuna risata.
Lui abbassò la testa, chiuse gli occhi. Non aveva più senso opporre resistenza, ormai. I suoi piedi strisciavano sul terreno, le gambe incapaci di sorreggerlo per più di qualche attimo, mentre veniva trascinato via dalle guardie.
Non aveva mai pensato molto alla morte – strano questo, per uno come lui, che spendeva intere giornate a pensare, e basta. Non aveva mai pensato molto alla morte, perché era tra le cose che avevano il potere di terrorizzarlo.
Aveva paura di molte cose. Delle vespe, per esempio, così veloci a pungere e a far male. I ragni gli facevano schifo. Sapeva di aver temuto il buio, tante volte, da bambino. Ma per la morte era diverso. Silenziosa, inevitabile, era un nemico che sapeva attendere con il sorriso, perché consapevole di essere imbattibile.
Era sempre notte quando i suoi pensieri arrivavano a sfiorarla. E allora lui apriva gli occhi, li spalancava, sul nero attorno a lui, e vedeva come sarebbe stata. L’annientamento. La scomparsa. Un’intera identità, persa, svanita in un istante, e lui non se ne sarebbe neanche accorto, perché allora avrebbe già smesso di esistere.
Un profondo senso di claustrofobia si appropriava di lui, allora – la consapevolezza di non avere una via d’uscita –, e gli ci voleva sempre un po’ di tempo per riprendersi, darsi dello stupido, chiudere gli occhi, dormire.
Contava i respiri, per calmarsi.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Nove. Dieci. Undici. Dodici. Tredici. Quattordici. Quindici.
Li ripeteva a mezza voce, ad occhi chiusi, quei numeri, adesso, che la morte era vicina più che mai. Lo accompagnava lungo il corridoio, poteva sentirla, oltre il rumore dei passi pesanti delle due guardie, oltre il suono dei suoi piedi abbandonati inerti sul pavimento, oltre il suo respiro, oltre il battito stesso del suo cuore.
Quarantacinque. Quarantasei. Quarantasette.
Strano, perché la sua morte, per quanto terribile, non se l’era immaginata così. Nelle sue fantasticherie, aveva scelto per sé qualcosa di molto più ordinario. Si era rivisto vecchio, aveva trovato nel suo volto un reticolato di rughe – come se qualcuno avesse deciso di dipingergli sulle guance cadenti o intorno agli occhi incavati la storia stessa della sua vita passata –, i capelli ingrigiti dagli anni, gli occhi appena offuscati da quella patina liquida che si nota di solito sulle pupille delle persone molto anziane. Si era immaginato steso su un letto di ospedale, un ospedale bianco e sterilizzato, tubi e medicinali intorno a lui – una donna, forse, seduta su una sedia, a tenergli la mano. In questo modo avrebbe accettato di abbandonare la vita. Sarebbe stato dolce, alla fine. Giusto, in qualche modo. Una resa silenziosa del suo cuore, semplicemente troppo stanco per continuare a battere.
Centocinquantadue, centocinquantatré, centocinquantaquattro.
Quanto sembrava grottesca la sua situazione invece, se confrontata con quel sogno bianco e malinconico!
Un’esecuzione, un imperatore pazzo, un mondo assurdo. Non c’era traccia, lì, della delicatezza di un paio di lenzuola immacolate, del tocco lieve della mano di una donna che avrebbe lasciato vedova, di un ultimo sguardo lattiginoso al mondo per poi decretare, con serenità, che in fondo andava bene così.
Duecentoquattordici. Duecentoquindici.
Stava cominciando a calmarsi. Si era rassegnato, dopotutto. La presenza della morte a seguirlo, in attesa che arrivasse il suo momento, non gli metteva più angoscia, ma uno strano vuoto, una serenità propria soltanto delle cose davvero inevitabili.
Forse era impazzito sul serio, in quella cella.
Fu quello l’ultimo pensiero concreto che gli attraversò la mente, tutto il resto furono sensazioni, da quando decise di abbandonarsi ai suoi aguzzini, e non pensare più.
Il freddo dei corridoi e delle scale accarezzargli il corpo fino a fargli venire la pelle d’oca, ad esempio. Cercava le sue ossa, quel freddo, strisciando sulla sua pelle e infilandosi in ogni poro, aggredendo vorace i suoi abiti nel tentativo di sorpassare anche quell’ultima difesa, penetrando pian piano sempre più in profondità.
Oppure le goccioline di umidità stagnante che gli si posavano sul collo e sui capelli, che gli si condensavano sulla fronte e sulla punta del naso, sulle ciglia delle palpebre abbassate.
Il loro cammino s’interruppe bruscamente.
«Sei pronto?»
Si sentì dire, e solo allora si accorse di quanto i suoni gli giungessero distanti.
Prese un respiro profondo. Pronto – sì, pronto lo era davvero.
Mettiti in piedi. Alza la testa. Apri gli occhi. È così che si affrontano gli ultimi istanti della propria vita.
Non seppe dire chi gli avesse instillato questi pensieri in testa, era stato forse ciò che rimaneva del suo orgoglio, un ultimo fantasma creato dall’Imperatore perché avesse un imputato degno della sua attenzione, o la morte stessa, che s’era stancata di assistere in silenzio a quella vicenda che aveva il sapore della sconfitta e della rassegnazione.
Obbedì, non importava a chi, dopotutto.
Schiuse piano le palpebre, le sbatté, mentre sollevava il capo, guardava le macchie di umidità sulle pareti di roccia e il legno scuro della porta che si trovava davanti a lui. Si appoggiò alle guardie per poter usare le gambe, che lo ressero più per forza di volontà che per reale capacità.
«Questo sarà l’ultimo spettacolo della tua vita, illusionista.» 
Tuomas non fece nemmeno in tempo a pensare tra sé quanto quelle parole fossero vere, e amare, che le porte vennero aperte, e la luce del sole inondò il cunicolo.
 
Da qualche parte, intorno alla Capitale.
 
Correre.
Cuore che pulsava nel petto, muscoli che protestavano ad ogni metro guadagnato, fiato che non era mai abbastanza, bocca spalancata ad inghiottire quanto più ossigeno possibile, gambe che si facevano sempre più pesanti man mano che passavano i minuti.
Emppu non doveva smettere di correre.
Si lanciò fuori dal bosco a tutta velocità, franò a terra a pochi metri dalla fine dei rami e delle sterpaglie, gli ansiti che sembravano veri e propri singulti d’asma, lo stomaco che gli si contraeva e le gambe che tremavano per la fatica accumulata. Alzò lo sguardo, ma vide soltanto una strada davanti a sé. Non ce l’avrebbe fatta.
Strinse i denti. Doveva farcela.
Prese un respiro profondo, raccolse tutte le proprie forze, prima di rialzarsi. E tornare a correre.
Non doveva pensare al dolore e alla fatica, altrimenti sarebbe crollato, e se fosse caduto un’altra volta sapeva che non sarebbe più riuscito a rimettersi in piedi. Doveva focalizzare tutte le proprie attenzioni nel gesto meccanico che la corsa richiedeva, estraniandosi da tutto il resto, solo così sarebbe riuscito a sopportare lo sforzo che stava compiendo.
Flettere il ginocchio, poggiare la punta del piede al terreno, spingersi via con quello che era rimasto indietro, e ripetere poi la cosa all’infinito. Centinaia e centinaia di volte.
Certo, l’aria stava diventando un problema crescente,  il suo corpo ne chiedeva sempre di più, mentre per contro i suoi respiri a lungo andare si facevano corti e strozzati. Credette di soffocare, a un certo punto, ma continuò imperterrito a correre.
Non aveva mai provato a portare il suo corpo allo sfinimento; d’ora in avanti, invece, avrebbe potuto dire senza sbagliare di aver conosciuto la fatica, e la disperazione di chi vorrebbe ma non può, incatenato dentro un corpo limitato.
Si sarebbe ucciso. Sicuramente.
Se non avesse incontrato un sasso sulla sua strada.
Bastò quello, un sasso più grande degli altri, ad intralciare la sua folle corsa, a prendersi gioco delle sue gambe distrutte, a farlo cadere a terra come lui stesso non aveva avuto il coraggio di fare per tutto quel tempo.
Si bloccò ogni cosa.
I suoi ansiti erano così forti che a volte diventavano dei colpi di tosse, le sue gambe tremavano, incontrollate, sulle mani e sulle braccia il sangue delle ferite che si era riportato nella caduta,  il suono del suo cuore impazzito a pulsargli assordante nelle orecchie, lacrime calde e salate a solcargli le guance.
Si sarebbe ripreso. Era salvo.
Ma quali sarebbero state le conseguenze di quella sua salvezza? La morte del suo migliore amico?
No. Non l’avrebbe permesso.
Strinse i denti, puntò le mani al terreno, riempiendolo di sangue.
«Rialzati.» fu l’ordine strozzato che gli giunse da se stesso.
«Ehi, ehi, ehi. Fermati un po’, ragazzo.»
Alzò di scatto la testa, e vide sopra di sé la faccia rugosa di un vecchio contadino. Non si era neanche accorto di non essere solo.
«Non… posso» fu la sua unica risposta.
Il vecchio rimase a guardarlo con un’aria pensosa.
«Dì un po’, quanto ti danno?»
L’espressione del chitarrista si fece confusa. «Prego?»
«…Mai visto un messaggero darsi così tanto da fare per recapitare un dannatissimo biglietto. Devono proprio pagarti tanto.»
Emppu si tirò a sedere. «Il fatto è che io n…»
«Stai andando alla Capitale?»
Speranza, quando vide che dietro il vecchio c’era un carretto.
«Sì!»
«Oh, che caso, credo proprio che sia anche la mia destinazione.» squittì quello in risposta, con un largo sorriso sdentato, che il cantastorie ricambiò all’istante.
 
La Capitale
 
La luce era talmente forte da fargli lacrimare gli occhi, fu costretto a tenerli chiusi mentre si sentiva strattonare e portare su qualcosa che aveva tutta l’aria d’essere un carro. Gli sciolsero le corde ai polsi, solo per potergli assicurare le braccia al palo contro il quale era stato spinto. Poi cominciarono a muoversi.
All’inizio tutte le attenzioni e le energie di Tuomas erano dedicate nel controllare le proprie gambe, che continuavano ad essere poco stabili, e a fronteggiare gli scossoni ricevuti senza sentirsele cedere. Quando provava a socchiudere gli occhi il sole tornava ad aggredirlo con più forza, e allora si rassegnò a tenerli serrati.
Le cose cambiarono quando arrivarono le voci.
Cominciò con il tocco di un paio di artigli rapaci, piccoli e ricurvi, tra i suoi capelli, a ghermirgli la testa; non aveva bisogno di vedere, Tuomas, per capire che era lui.
«Osservate, gente di queste terre, osservate l’Ultimo tra i Maghi!»
Certo, non si era aspettato che fosse l’uccello stesso, sopra di lui, a deriderlo.
Fece in fretta, l’umiliazione, a nascere infuocata dai più bassi meandri delle sue viscere, e ruggire tutta la propria vergogna, gli rodeva lo stomaco e gli accendeva il viso di un calore rabbioso. Si costrinse allora ad aprire gli occhi, e nonostante gli bruciassero e lacrimassero volle tenerli ben fissi, volle vedere, il legno del carro sul quale era trasportato, le nuche dei due soldati che l’avevano prelevato dalla cella, il boia camminare poco più indietro, cappuccio nero in testa e sciabola assicurata ai pantaloni.
La gente si scostava al loro macabro passaggio, ma era lui che fissavano, lui, l’Ultimo dei Maghi, l’ultimo sconfitto, l’ultimo a morire.
«Ciao, Tuomas». Sentì sussurrare a pochi centimetri dal suo orecchio. «Hai paura?»
Respira, si disse. Continuò a guardare davanti a sé, ma non rispose.
«Certo che hai paura. La vedo. La sento. A me non puoi mentire, Tuomas.»
Ormai il becco dell’animale gli sfiorava l’orecchio.
Si ricordava, con quel sapore un po’ strano proprio delle immagini e dei frammenti di vita molto remoti, che una volta parole del genere l’avevano atterrito, annichilito, annientato. Ma adesso, adesso che era così vicino alla fine, ne poteva scorgere la chiara menzogna. Perché lui non aveva paura, ed era certo di questo.
«Nemmeno tu a me.» mormorò infatti, a mezza voce.
La risposta mandò su tutte le furie il rapace, che conficcò con forza gli artigli sulla sua testa e lanciò un verso acuto.
Sentiva il sangue colargli caldo tra i capelli, sulla fronte, sulla nuca, ma sorrideva. Di un sorriso lievissimo, appena accennato, ma sereno; il sorriso dei vinti. Fu con quel sorriso in volto che entrò nella piazza che avrebbe visto la sua morte.
Il rapace si levò in volo a quel punto, e il tastierista lo guardò una volta sola – era un avvoltoio. Poi venne slegato e fatto scendere dal carro per essere portato alla forca che lì trionfava su tutto, sotto il sole, come una solida e inevitabile sentenza.
La maggior parte delle persone che si erano riunite lì si scostavano al suo passaggio con sguardi gravi o spaventati, ma c’era anche chi ne godeva e lo insultava, gli sputava addosso, gli lanciava dei sassolini.
Tuomas giunse alla forca che aveva imparato la cattiveria degli uomini.
«Il mondo gioirà oggi! Sì, mentre i corvi fanno banchetto sul poeta putrescente.» urlò l’avvoltoio,  tra le risa, mentre volava in cerchio su di lui.
Tuomas chiuse gli occhi con dolore. Riconosceva quei versi.
 
The world will rejoice today
As the crows feast on the rotting poet
 
I passi del boia sul legno della forca erano rumorosi; impossibile confondersi.
Teneva gli occhi chiusi, il tastierista, ferito da quella canzone, scelta dal suo più grande – e ultimo – nemico come colonna sonora della sua disfatta, mentre le mani gli venivano legate dietro la schiena una volta per tutte, e gli veniva calato intorno al collo il cappio che avrebbe messo fine alla sua vita.
Era ruvido, al tatto.
Tuomas deglutì, e si accorse del proprio cuore vigliacco che batteva all’impazzata. Avrebbe fatto male?
«Qui muore Tuomas Holopainen.»
Fu questa l’ultima cosa che udì, prima che il boia afferrasse quell’orribile leva, la tirasse, e a lui mancasse il terreno sotto i piedi.
Andò a sua madre, la dolce Kirsti, il suo ultimo pensiero.
 
«NO!»
L’urlo che squarciò il mortale silenzio che aveva seguito l’orribile schiocco del suo collo.
 
L’uccello rise e si levò in volo, ma non era più un avvoltoio, si era mutato piuttosto in una fenice, dalle piume nere come la notte.
«Ora lui è a casa all’inferno, ben gli sta! Ucciso dalla campana, che adesso suona per il suo addio.»
 
Now he`s home in hell, serves him well
Slain by the bell, tolling for his farewell
 
Emppu si faceva largo tra la folla, che già cominciava a disperdersi nella gravità dello spettacolo al quale aveva assistito, ma non c’era più nulla da fare ormai.
«No! Tuomas!»
Continuava a offrire in pasto alla fenice le sue grida strazianti, il volto una maschera di dolore, perché non era stato sufficiente uccidersi su quella strada, era arrivato tardi, appena in tempo per vedere quella corda tendersi, e la luce abbandonare lo sguardo del tastierista ora aperto sul nulla.
Sparivano tutti, uno a uno, davanti a lui, disgustosi spettatori di quello spettacolo ripugnante, provavano ribrezzo per se stessi, per la loro indifferenza nel guardare morire un uomo, ucciso da un pazzo che presto si sarebbe preso anche le loro vite, pian piano, giorno dopo giorno. Tutti se ne andavano alla vista di Emppu, perché il suo dolore era vero, era profondo, era di quelli che lasciano segni indelebili del proprio passaggio.
Riuscì ad arrivare a qualche metro dalla forca, ma fu abbastanza. Abbastanza per convincersi della realizzazione di tutte le sue peggiori paure. Lui, da solo, disperso in quella terra da incubo. E gli occhi vacui di Tuomas che lo guardavano senza vederlo.
Non avrebbe mai dimenticato quegli occhi.
«TUOMAS!» il suo grido definitivo, mentre il dolore lo vinceva, gli annebbiava il cervello, rendeva tutto il mondo un luogo annacquato e ondeggiante – o forse era colpa delle lacrime che avevano preso a solcargli il volto?
Si lanciò verso la piattaforma di legno, ma fu bloccato da due guardie che lo afferrarono prontamente per le braccia e lo trascinarono via, mentre lui si dimenava con tutte le proprie forze, ruggendo tutto il suo dolore.
Non era più Emppu Vuorinen, non era più un chitarrista nato a Kitee nel ’78, era una bestia, un animale selvatico in preda alla più cieca sofferenza.
«Toglietelo di lì! Toglietelo! Mettetelo giù!» era quello che ripeteva, tra i singulti del pianto, mentre lottava contro i soldati che lo tenevano. Risparmiategli questa umiliazione, era il pensiero che aveva la priorità su tutti gli altri.
Furono costretti a tirargli un pugno in pieno stomaco per farlo tacere e smettere di ribellarsi. Spalancò gli occhi a quel punto, si piegò in due, nel tentativo di respirare.
La prima cosa che gli uscì dalla bocca fu un singhiozzo, e ben presto si ritrovò inginocchiato per terra, di fronte al cadavere impiccato di uno dei suoi più grandi amici, a piangere tutte le lacrime che gli erano rimaste.
Solo il suono di un paio di ali che sbattevano davanti a lui lo indusse ad alzare gli occhi, e a piantarli sull’uomo incappucciato che gli era apparso davanti. L’unica cosa davvero visibile di lui era il luccichio malvagio in fondo al buio gettato dalla stoffa, ed Emppu non dubitò neanche per un secondo della sua identità. Rimase inchiodato al suolo mentre quello si abbassava per avvicinarsi a lui, troppo disperato, terrorizzato, sfinito per reagire.
«Il mattino s’annunciava sul suo altare, vestigio dell’Oscura Rappresentazione della Passione.» sussurrò, a pochi centimetri dal suo orecchio, con fare quasi confidenziale. S’interruppe, si leccò le labbra, come se stesse dicendo qualcosa di davvero delizioso, di imperdibile, che s’era pregustato in ogni sua più piccola sfumatura. «Compiuta dai suoi amici che, senza vergogna, sputavano sulla sua tomba mentre passavano.»
 
The morning dawned, upon his altar
Remains of the dark passion play
Performed by his friends without shame
Spitting on his grave as they came
 
Emppu rimase paralizzato, gli occhi sbarrati davanti a sé, le lacrime congelate sulle guance.
«D… Dark Passion… Play…»
L’Imperatore sorrise nel rialzarsi. Gli rivolse un ultimo sguardo, trionfante, prima di sorpassarlo e andarsene, lasciandolo in piazza insieme al suo compagno morto.
Non appena il mantello del suo nemico vittorioso svolazzò a pochi centimetri da lui, e vide il cadavere di Tuomas già più livido di prima, il chitarrista non riuscì più a dominarsi e sentì il suo stomaco contrarsi dolorosamente.
Si piegò e vomitò tutto quello che gli rimaneva in corpo, mentre l’Imperatore tornava al castello ridendo e cantando.
 
Nell’esatto momento in cui Tuomas cessò di respirare, il Pendolo interruppe il suo costante ticchettio.
La zingara bevve un sorso di tè e andò a controllare il mazzo di carte.
Da qualche parte, negli appartamenti dell’Imperatore, su mille pagine che contenevano nient’altro che testo cancellato si allargò una macchia d’inchiostro, nero, che all’oblio le condannò per sempre.
 
Era sera, quando un Emppu tremante si accorse di esistere.
Alzò il viso dalla culla che le sue mani erano diventate, avvertì il terribile sapore del vomito in bocca, e si rese conto che lui esisteva ancora. Cominciò a prendere coscienza di ogni suo respiro, e per prima cosa si impose di calmarsi. Ricapitolò dove si trovasse, cosa fosse successo – era un modo per riprendere il controllo su se stesso.
Si asciugò le lacrime che ancora gli scorrevano incontrollate lungo le guance e si alzò, evitando di guardare verso il corpo di Tuomas. Sapeva che avrebbe dovuto toglierlo da lì, dargli una sepoltura degna di lui, ma in quel momento non si fidava per nulla del suo stomaco.
Sentì i muscoli e le articolazioni delle gambe protestare animatamente quando diede segni di voler muovere qualche passo, e con un sospiro zoppicò come riuscì verso la parete più vicina.
Anette aveva avuto ragione. Era una tortura.
Si appoggiò al muro con una mano, nel tentativo di contenere sia il dolore fisico che quello per la morte di Tuomas. Era liscio, al tatto, e gli ci volle qualche attimo per capire che era la pergamena di un manifesto quella che stava toccando.
Osservò stupito il sigillo imperiale, poi si allontanò di qualche passo per poter leggere ciò che l’Imperatore aveva voluto affiggere in tutta la Capitale.
 
 

“Oggi, nell’anno 2005 di Nostro Signore,

Today, in the year of our Lord 2005

Tuomas ha lasciato questo mondo.

Tuomas was called from the cares of the world

Ha smesso di piangere alla fine di ogni splendido giorno.

He stopped crying at the end of each beautiful day

La musica che ha scritto non conosce silenzio da troppo tempo.

The music he wrote had too long been without silence



Ciò che dice l'Autore

Non so davvero da dove cominciare con queste note. Appena penso al ventesimo capitolo appena concluso mi vengono in mente un sacco di cose, troppe cose, e alla fine non riesco a esprimerne nessuna.
Dell'enorme blocco che ho avuto che mi ha tenuta lontana per mesi da questa storia è meglio che non parli.... la mia ispirazione è la cosa più volubile del mondo e questa volta aveva deciso di abbandonarmi a tal punto che io ho pensato che non sarei mai più riuscita a recuperarla. Ho pensato veramente di lasciare questa storia nel dimenticatoio, anche se ne sarei stata davvero dispiaciuta, perchè le Cronache sono un viaggio vero e proprio, dei miei personaggi ma mio soprattutto, e lasciarlo incompiuto sarebbe stato un peccato...
Mi rendo conto che per i lettori è difficile sopportare i miei sbalzi d'ispirazione e non, più che porgere in ginocchio le mie scuse non posso fare T_T
Spero che il capitolo sia piaciuto, anche se forse mi è venuto un attimino cupo <.<'' Però credo che sia proprio il caso di dire che il peggio sia passato :D (Forse.... U.U)
Un bacio e un'enorme scusa a tutti voi!
Glory.

 


 

  
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