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Autore: _Connie    27/06/2013    7 recensioni
There's a boy who fogs his world and now he's getting lazy
There's no motivation and frustration makes him crazy
He makes a plan to take a stand but always ends up sitting
Someone help him up or he's gonna end up quitting.

«Si sentivano un po’ come del vetro rotto, caduto per terra. Poi, un giorno, Rufy entra nelle loro vite senza preavviso, come un vero e proprio ciclone, e in qualche modo raccoglie da terra quei frammenti, li rimette insieme, li salva dall’oblio in cui erano caduti senza chiedere nulla in cambio. Lui è fatto così.»
[...]In quel momento, Zoro si rese improvvisamente conto di essere appena stato raccolto da terra.
Zoro/Sanji, AU,INCOMPLETA
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mugiwara, Roronoa Zoro, Sanji, Z | Coppie: Franky/Nico Robin, Rufy/Nami, Sanji/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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{ Capitolo 8: This House Is Not A Home }
 
 
Zoro era seduto in fondo all’autobus semivuoto che lo avrebbe riportato a casa, completamente immerso nei suoi pensieri. 
Stava pensando proprio all’ultima persona sulla faccia della terra a cui avrebbe voluto pensare: il cuoco. Negli ultimi tempi, infatti, quel damerino si stava comportando in maniera molto strana: era sempre nervoso e si incazzava con lui per ogni cosa, anche la più insignificante, alla pari di una donnicciola mestruata. In più sembrava volerlo evitare in tutti i modi: ad esempio, quando gli portava gli onogiri durante le pause tra un allenamento e l’altro, li poggiava sempre da qualche parte senza nemmeno guardarlo e se ne tornava di corsa dentro al club. Oppure, se lui andava a sedersi su una poltrona accanto alla sua, il torciglio si alzava subito e si allontanava con la scusa di dover andare a cucinare o di dover fare chissà che altro. A conti fatti, insomma, la causa di questo suo strano comportamento doveva essere proprio lui, ma non riusciva a capire cosa diavolo avesse fatto o detto per scatenare una reazione del genere. 
Zoro scosse improvvisamente il capo. Diavolo, ultimamente gli capitava sempre più spesso di pensare a quello stupido cuoco: sì, in parte era sicuramente a causa di quello strano comportamento, ma sapeva – sentiva che c’era qualcos’altro sotto. Provava sempre una sensazione strana quando litigavano o più semplicemente si trovavano vicini – una sorta di calore, in un certo senso. 
Zoro si rese improvvisamente conto della direzione che stavano prendendo i suoi pensieri. No, ma neanche per scherzo. Lui provava un odio quasi viscerale per tutti i viziatelli figli di papà con la puzza sotto il naso. E quel damerino del cazzo non faceva di certo eccezione.
Per distrarsi dai suoi stessi pensieri, si ficcò gli auricolari nelle orecchie ed entrò in un altro mondo, fatto di assoli di chitarra, giri di basso e ritmi di batteria.
 
Zoro tirò fuori le chiavi di casa dalla tasca e aprì la porta, canticchiando il motivetto reggae di Jamming. Per prima cosa si diresse verso la sua camera, dove posò il borsone in cui metteva le sue katane; si cambiò – avrebbe fatto la doccia un altro giorno –, buttò MP3 e cuffiette sul letto e poi si diresse verso la cucina. Aveva una sete tremenda.
Avvicinandosi ad essa, però, sentì delle voci che prima non aveva notato. Una era sicuramente di sua madre – che stava ridendo per chissà quale battuta o fatto spiritoso –, ma Zoro non riuscì a riconoscere l’altra. Affrettò il passo: aveva un pessimo presentimento.
Le voci che prima aveva sentito ridere e scherzare, appena varcò la soglia della cucina, si zittirono immediatamente, quasi fosse apparso un fantasma.
Zoro sentì un forte odore di caffè appena fatto. Sul tavolo c’era una caffettiera molto vecchia e usata, accanto a un paio di tazzine sporche. Sua madre non faceva quasi mai il caffè – diceva che faceva invecchiare più velocemente –, dunque la cosa lo soprese non poco. Gli bastò però spostare lo sguardo alla sua destra per capire il motivo di tutte quelle cerimonie.
Un uomo. Seduto su una sedia e intento a guardarlo come si guarda un insetto, c’era un uomo sulla cinquantina, dai lineamenti latino-americani e una faccia da vero e proprio spaccone. 
Sua madre rimase esattamente dov’era, in piedi e appoggiata con la schiena al muro, sgranando gli occhi. «Non ti aspettavo così presto…» fu tutto ciò che riuscì a dire.
Adesso capiva. Solo ora, Zoro capiva la causa di tutti i recenti comportamenti strani di sua madre. Quella volta si era ripresa molto più velocemente del solito dalla rottura col suo ex, e in più si era accorto che spesso usciva di casa in piena notte, di nascosto. Quindi il prossimo che l’avrebbe sfruttata era lo stronzo che gli stava davanti, eh?
«Senti, Zoro, lui è Andrés, il mio, ehm… ragazzo» balbettò lei. Si vedeva proprio che avrebbe voluto lasciarlo all’oscuro di tutto. E lui era il suo unico figlio, cazzo! «Ci eravamo lasciati, ma abbiamo, ecco, deciso di… di tornare insieme
Per Zoro quelle ultime parole furono come una scarica elettrica. Rimase immobile, sgranando leggermente gli occhi, mentre quell’Andrés sembrava farsi beffe di lui con quel falso sorriso che gli era spuntato sulle labbra.
No, forse la colpa non era dei suoi fidanzati – tutti stronzi, dal primo all’ultimo. Forse la colpa era di sua madre.
Era lei che li andava a scegliere.
Era lei che, nonostante tutto, tornava strisciando da loro.
Era lei che lasciava che la sfruttassero, inerme.
Ed era sempre lei che non riusciva mai a dare una svolta alla sua vita, accontentandosi di tutto passivamente.
Zoro si sentì ribollire la rabbia nelle vene. 
«Vaffanculo.»
Senza neanche dare a sua madre il tempo di replicare, corse verso la sua stanza, prese un borsone e lo poggiò sul letto. Poi prese tutto ciò di cui era in possesso – qualche vestito e le sue katane, senza dimenticare l’MP3 – e lo riempì il più velocemente possibile.
Si era rotto le palle di lei, della sua vita e di quella casa – che non sentiva poi così tanto come sua. Non ne poteva più. Gli faceva schifo vedere sua madre commettere sempre gli stessi errori e poi tornare da lui piangendo, nonostante le volesse bene e tutto. Era ora di farla finita con quella storia.
Afferrò il borsone e si avviò verso la porta, più che deciso ad andarsene. A sbarrargli la strada, però, c’erano Andrés e sua madre, sul punto di piangere. «Dove credi di andare, Zoro?»
«Me ne vado di qui, che ti piaccia o no.»
«Tu non vai proprio da nessuna parte!»
 Sua madre gli si avvicinò, alzò un braccio e gli mollò uno schiaffo. 
Quella era stata davvero l’ultima goccia. Zoro si voltò verso di lei, massaggiandosi la guancia dolorante, e la guardò con rabbia. Adesso era davvero incazzato nero.
Senza dire una parola la scansò, facendola cadere per terra, e si diresse verso la porta. Davanti ad essa c’era Andrés, che sembrava avere tutta l’intenzione di non farlo passare – probabilmente per fare bella figura davanti a sua madre. Ma per Zoro non fu un grosso ostacolo da superare.
Gli mollò un pugno in piena faccia, con tutta la forza e la rabbia che aveva, tanto da farlo cadere a terra dal dolore. Probabilmente era riuscito a rompergli il naso. Tanto meglio.
Aprì la porta. Tutto ciò che disse prima di andarsene, senza neanche girarsi indietro a vedere il viso di sua madre solcato dalle lacrime – quelle stesse lacrime che Zoro le aveva visto uscire dagli occhi tante, troppe volte – fu: «Addio».
Non si fermò nemmeno quando sentì le urla che chiamavano il suo nome.
 
Era già passata una mezz’oretta da quando Zoro aveva lasciato casa sua. All’inizio si era messo a correre a perdifiato per i viottoli della città nel tentativo di far sbollire la sua rabbia, ma anche inebriandosi di quella nuova sensazione di libertà che si era impadronito di lui; ora, però, si trovava seduto su una delle tante panchine mezze rotte e piene di scritte del parco. Passato l’entusiasmo iniziale, infatti, si era reso improvvisamente conto di essere stato troppo avventato nello scappare così improvvisamente di casa.
Certo, in fondo era da sempre che voleva farlo, ma forse avrebbe dovuto organizzarsi quel minimo indispensabile prima di buttarsi per le vie della città senza neanche sapere dove andare. Ma lui era fatto così: agiva d’istinto. E l’istinto l’aveva sempre portato a fare le scelte migliori – almeno fino a quel giorno. Non aveva la più pallida idea di dove passare la notte, di dove sistemarsi, di cosa fare per il resto della sua vita.
Scosse la testa, quasi sperando che, così facendo, i problemi che stavano cominciando a farsi largo nella sua mente avessero potuto scomparire all’improvviso. 
Quello non era il momento per pensare al resto della sua vita: era il momento per pensare a dove diavolo avrebbe passato la notte, dato che il freddo iniziava a farsi sentire e il sole era ormai già calato da un pezzo. Si stava facendo tardi, e non aveva la minima intenzione di dormire su una panchina, rischiando di congelarsi.
Ma che fare, allora? Nella fretta era riuscito a mettere in borsa anche un po’ di soldi, ma sicuramente non sarebbero bastati per prendere una stanza in qualche albergo o in qualche pensione; e comunque avrebbe potuto adottare una soluzione del genere per uno, massimo due giorni: ma dopo? Come se la sarebbe cavata?
Si grattò dietro la nuca in un moto di stizza. Cazzo, non ne aveva la minima idea. Se solo avesse avuto qualcuno su cui contare…
Zoro sgranò gli occhi di colpo, iniziando a ridacchiare e a darsi al contempo dello stupido. Lui aveva qualcuno su cui contare: e quel qualcuno erano proprio i membri del Mugiwara Club. Quel posto, senza neanche accorgersene, era diventato per lui come una seconda casa – anzi, l’unico posto che avrebbe potuto chiamare veramente casa: un posto dove poter fare quel che si vuole e quando si vuole, senza la noiosa presenza di un qualche adulto che monitora ogni tua mossa – Brook era un’eccezione, ovviamente – e dove poter scappare in qualche modo dai problemi di tutti i giorni, circondato da persone che ti accettano e ti sostengono esattamente per quel che sei. Sì, era quella la sua vera casa.
Zoro si alzò di scatto dalla panchina, afferrò il borsone che aveva poggiato per terra e si mise a correre verso la fermata del bus più vicina, con l’intento di prendere l’ultimo autobus della giornata e andare al club. Fortunatamente un paio di giorni prima Rufy aveva dato ad ognuno di loro una copia della sua chiave, così avrebbero potuto andarci ogni qual volta lo desideravano. 
A quell’ora non avrebbe sicuramente trovato nessuno, ma si sarebbe comunque sistemato lì per la notte e il giorno dopo avrebbe poi spiegato la situazione agli altri. Era sicuro che Rufy sarebbe stato felicissimo di lasciargli usare il Mugiwara Club come dimora momentanea.
 
 
[Angolo dell’autrice]
Prima di parlare di questo capitolo, vorrei spendere due paroline su quello precedente. Non ho risposto a nessuno di coloro che lo hanno commentato perché preferivo fare una risposta collettiva.
Partiamo dal presupposto che, sì, ho fatto una stronzata. Mi rendo perfettamente conto che l’innamoramento di Sanji è stato troppo veloce e brusco – per non parlare della velocità con cui l’ha accettato. Me ne ero accorta pure io, ma quello che mi ha fottuta è stata la fretta. Ho intenzione di far finire questa fic in una/due loro settimane, quindi mi sono fatta per l’appunto un po’ prendere dalla fretta ed, ecco qua!, ho fatto la frittata. Sorry. U_U Davvero, cercherò di non fare più un errore così grossolano d’ora in poi. 
Passando al capitolo di oggi, spero vi sia piaciuto! È uno dei capitoli cruciali della fic, come avrete notato. Ma ora basta parlare, vi avrò fatto già addormentare per non parlare del fatto che non so più che scrivere lol. Ah, una cosa c'è: il titolo è preso da Home, una canzone che ho trovato molto appropriata :3
Fatemi sapere che ne pensate e alla prossima! :3
 
P.S. Auguri, My Pride! :D Considera questo capitolo un mio regalo di compleanno ♥
  
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