Libri > I Miserabili
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Autore: _Noodle    05/07/2013    3 recensioni
Era una tiepida mattina di fine maggio. Apollo giaceva addormentato sul letto con addosso i vestiti della sera prima. Si svegliò verso mezzogiorno con un mal di testa allucinante. Gli pulsavano le tempie e gli bruciavano gli occhi; l’evidente vena che scorreva come un fiume sulla sua fronte era più spessa del solito. Si mise a sedere lentamente, cercando di non dar retta al corpo intorpidito e alle mani formicolanti e appena aprì coscientemente gli occhi sobbalzò. Il cuore incominciò a pulsargli compulsivamente e il respiro gli si fece più affannato, cercava di alzarsi da quel letto poco accogliente ma le gambe non sostenevano il suo peso, tremavano come in preda alle convulsioni. Ricadde prono sul pavimento.
Enjolras travolto da un nuovo sentimento e un amore nato tra fiori e inganni.
Coppie: EnjolrasxGrantaire; JeanxEponine.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gli inesperti sono vittime della città. Quando le piazze si ammutoliscono e la notte soffia sulla fiamma della candela, Parigi si sveglia ed inghiottisce i più miserabili, accogliendoli nelle sue fauci maleodoranti. Essere sprezzante del pericolo non significa saperlo affrontare in tutte le sue sfaccettature: chi è indifeso è condannato.
Il nostro uomo indifeso davanti agli attacchi dell’amore, quella sera, non si presentò al Musain. Rimase chiuso nella sua camera a leggere, cercando di dimenticare, o almeno di non pensare, ai terribili sentimenti che lo avevano martoriato per tutto il corso della giornata. Talvolta si toccava il collo sperando che il graffio fosse guarito, ma purtroppo, dovette accettare la sua presenza. Un primo passo verso l’accettazione dell’amore?
Immaginava le unghie di Grantaire solcare la sua pelle candida in chissà quale strano e corrotto attimo (di passione, potremmo aggiungere, ma Enjolras si vergognava a dirlo, o probabilmente non aveva nemmeno l’esperienza per pensarlo). 
Tentò di ricordare che cosa fosse accaduto e l’unica ipotesi che affiorò nella sua mente fu che Grantaire l’avesse fatto ubriacare a tal punto da svenire. Come aveva potuto cedere? Perchè era finito lì? Chi l’aveva condotto? C’era arrivato di propria volontà? Non lo sapeva e questo lo faceva arrabbiare e gridare. Sudava come in preda alla follia, camminava freneticamente  nella sua piccola stanza, si affacciava alla finestra per rinfrescare i pensieri, ma il caldo appena arrivato non era d’aiuto, prendeva a calci le sedie e il tavolo e, cosa che lo irritava maggiormente, non riusciva a sdraiarsi sul letto senza pensare a lui. C’era la luna quella notte e non lo trovava per nulla romantico. Uno sparo dritto in un cratere! Magari si sarebbe disperata con lui invece che stare a guardare stupita; “incomprensibile mondo!” pensava. Grantaire ed Enjolras respiravano sotto lo stesso cielo, ma la luna che osservavano era diversa.
R, sdraiato sul suo morbido giaciglio, l’ammirava, immensa, dalla piccola finestra che illuminava la sua stanza. Sembrava che lei gli volesse dire “E se non ti ama presto ti amerà, pur se non vuole”.  Sopra quel soffice letto, il desiderio.
Sorridente, poiché ripensava al volto casto e ribelle di Enjolras, abbracciava i cuscini, che il giorno prima il biondo aveva profanat0 con la sua purezza.
Come una dolce musica, le parole del suo Apollo gli riecheggiavano in mente: quel suo piglio così deciso e convincente era riuscito a convertirlo dallo scetticismo alla fede. La venerava, la bramava, la cercava in ogni attimo quella dolceamara invincibile belva. Sognava costantemente i suoi riccioli color del sole, color della vita, che gli illuminavano il cuore sbronzo ed offuscato dal dubbio; s’immaginava di averlo davanti e di poterlo fissare mentre gli stringeva le guance tra le mani venose, affinché l’azzurro dei loro occhi si potesse mescolare dando vita ad una nuova tonalità, che nella mente di Grantaire era rossa, come il sangue, come l’amore, come i tramonti che avrebbero presto incendiato. Voleva vedere il suo amabile portamento, ammirare i muscoli della sua schiena contrarsi ad ogni passo, le sue gambe distendersi per l’ardore, la sua voce irrompere come un tuono, come un tamburo, come una cannonata; si disperava per quelle braccia possenti e vigorose che si divertivano a stritolargli il cuore e le arterie.
Nella mentre di Grantaire, loro due erano a pochi respiri di distanza e tutto era un’insondabile miscela, di men che sillabe, di men che lettere, di men che fiati, silenzi puri.
Fissava la luna e, mentre era assorto in questi pensieri, pensava che un lato di essa gli rimaneva oscuro, come il cuore di Enjolras. Desiderava vederlo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Voleva guardarlo ridere, una rarità a cui aveva assistito una sola volta e bramava in modo incontrollabile di accarezzargli i capelli, anche se sapeva che non gliel’avrebbe mai permesso. Il dubbio che solitamente strisciava in Grantaire, non era nulla in confronto alla fede, che in quel momento si librava in lui come un’aquila.
Si alzò di colpo. Raggiunse l’armadio ed afferrò la giacca rossa (quella giacca rossa) e l’annusò, cibandosi per un attimo del suo odore; rise di felicità, quella felicità che solo un innamorato può percepire, quella felicità che stringe lo stomaco e rilascia la presa lentamente, quella felicità incosciente, che ti fa ubriacare, anche se sei sobrio. Grantaire, dalla mattina, continuava ad esserlo.
Inebriatosi della sua fragranza mascolina e virginea, uscì dalla stanza, chiuse la porta, scese le scale, corse tra le vie solitarie della mezza notte e bussò alla sua porta. Tutto fu un attimo: l’appartamento di Apollo, che distava dal suo alcuni quartieri, non fu mai vicino come quella notte.
<< E’ permesso? >> Disse aprendo un poco la porta.
Furono queste le due parole che bastarono per far trasalire Enjolras, che lasciò cadere il libro per terra. Guardava Grantaire pietrificato, perdendosi nei suoi occhi glaciali e beffardi, non capacitandosi di come potesse essere al contempo così irritante e così intrigante.
“Che gli devo dire?” pensava in preda al panico. “Buonasera? Ciao Grantaire? Benvenuto nella mia stanza? No, quest’ultima è troppo ambigua”; e continuava a fissarlo.
<< E’ permesso? >> Ripeté Bacco sorridente.
Il battiti del cuore di Enjolras erano accelerati e la saliva della bocca gli si era asciugata. Temeva che sarebbe svenuto da un momento all’altro, ma “per Bacco! (aveva davvero pensato a questa esclamazione riferendosi al lui?) non posso dargliela vinta in questo modo!” urlò nella sua mente.  Inspirò profondamente per infondersi coraggio.
<< Che ci fai qui? >> Una domanda semplice, schietta, in sintonia con la sua solita serietà.
<< Sono venuto a restituirti la giacca >> disse mostrandola mentre camminava verso di lui. Enjolras aveva sempre pensato che Grantaire avesse una camminata musicale: teneva il tempo, anche se non sapeva di che cosa.
<< Grazie >> rispose con freddezza. La strappò dalle sue mani, come se avesse appena sottratto la preda all’avversario ed iniziò a controllare che fosse in buono stato: tra le grinfie di quell’ubriacone nulla era al sicuro. Infatti, come era ovvio, i suoi pregiudizi si  rivelarono fondati, perchè sul dietro della giacca, in fondo a destra, si estendeva una macchia rossastra e irregolare. Enjolras  non riusciva più a ragionare, si sentiva come invaso e oltraggiato dalla sua presenza in ogni circostanza. Prima il graffio, poi la giacca: che aveva fatto di tanto brutto per meritarsi tutto ciò?
<< La prossima volta che versi del vino sulla mia giacca potresti almeno degnarti di chiedermi scusa. >> Grantaire sbarrò gli occhi diventando improvvisamente serio e si avvicinò ad Enjolras per constatare il danno.
“Non avvicinarti, ti prego” supplicò Apollo in silenzio.
Grantaire guardò la giacca e ridacchiò dicendo: << Ehi, revolutionnaire, credevo che sapessi riconoscere una macchia di sangue! >>
<< Sangue? >> Sussurrò Enjolras impallidendo.
<< Lo chiedi a me? Non so come ci sia finito lì sopra >> disse assumendo una smorfia disgustata.
<< Non posso aver fatto nulla di male…>>
<< Ti credo. >>
Eccolo di nuovo prendersi gioco di lui. Uno scettico non può elevarsi a credere, tanto meno in un altro uomo; perchè si ostinava ad azzannargli il cuore?
<< Intanto che contempli la tua giacca >> continuò Grantaire << direi che io posso andare a bere un goccio al caffé. >>
Se ne stava andando, si stava allontanando da lui così bruscamente senza dargli alcuna risposta, senza dirgli nemmeno che cos’era accaduto la sera prima, senza nemmeno accennarlo. La tentazione di chiederglielo e di colmare questo indecente dubbio era troppa per Enjolras.
<< Grantaire aspetta… >>
Il moro si limitò a girarsi inumidendosi le labbra. Il battito dei loro cuori era assordante.
<< …se al Musain fosse finito il vino, ne puoi trovare da Corinto, l’osteria. >>
“Codardo, Enjolras, sei solo un codardo” pensò chiudendo gli occhi.
<< E’ gentile da parte tua avermelo detto. Bonne nuit Enjolras. >>
Se ne andò soddisfatto.
 
Sangue. Una macchia di sangue scura e misteriosa. Sulla sua giacca. La fissava, senza formulare un pensiero compiuto. Era il suo sangue? Non era possibile. Era il sangue di Grantaire? Non lo poteva sapere.
Si sedette sul letto e, stremato dall’angoscia e dalle preoccupazioni, si addormentò dopo pochi minuti.
Il credente assalito dal dubbio e lo scettico rapito dalla fede. In quale strano modo si erano allineate le stelle quella notte?
 
Grantaire correva verso il Musain ridendo. Era felice, più felice di quanto non lo fosse già e questo solo perchè Enjolras aveva esitato. Gli aveva chiesto di aspettare? Che follia! Una dolce follia di un attimo irripetibile! Chissà che cosa pensava quell’angelo dannato e sobrio, chissà se finalmente si era accorto di lui, chissà se un giorno l’avrebbe chiamato R! Chissà se si sarebbe lasciato avvolgere dall’amore e dal suo abbraccio. Quanto lo desiderava, quanto lo adorava!
Entrato nel Musain, salì le scale in silenzio e proprio nel momento in cui, per la gioia, aveva intenzione di mettersi a cantare (dobbiamo ammettere che Grantaire era piuttosto intonato), sentì delle voci provenire dalla stanza retrostante al caffé, dove lui e gli amici erano soliti ritrovarsi ogni sera. Una di queste voci non gli parve nuova, era certamente quella delicata, ma virile, di Jean Prouvaire, mentre l’altra così stridula e roca non l’aveva mai sentita in vita sua. Era sicuramente quella di una ragazza, una miserabile senza dubbio, che se la stava spassando con il poeta. Grantaire non era uno di quei giovani che amava origliare le conversazioni altrui, ma quella sera, travolto dalla passione, non desiderava altro che stare ad ascoltare le dolci parole che due anime solitarie potevano scambiarsi. Prima però, raccattò una bottiglia mezza vuota che trovò abbandonata su un tavolo e, messosi a sedere sulle scale con la schiena appoggiata alla parete, incominciò a bere.
 
<< Che volevano quegli uomini da voi? >>
<< Informazioni. >>
<< Di chi genere? Se posso sapere… >>
<< Non lo potete sapere. >>
<< Come volete voi, Eponine. >>
<< Dammi del tu, per favore. >>
<< Va bene. >>
Jean arrossì. Mentre lui le fasciava la mano sinistra, che si era tagliata allontanando suo padre e Claquesous da davanti al Musain,  Eponine fissava le lentiggini di Jean, la sua pelle bianchissima, i suoi occhi color delle nuvole. Si stava prendendo cura di lei come poche ore prima si era preso cura della margherita e questo la faceva stare bene, bene come non mai.
Lo sguardo, poi, ricadde sulle sue mani, grandi, ferme e sul dito medio, su sorgeva il tipico callo dello scrittore.
<< Perchè scrivi Jean? >>
<< Perchè respiri Eponine? >> Lei sorrise timidamente.
<< Per vivere credo. >>
<< Hai centrato la questione. Sai, per me la scrittura è sogno e il sogno è vita; la scrittura quindi è vita. Sillogismo perfetto. >>
<< Che cos’è un sillogismo? >> Domandò lei assetata di sapere.
<< Lascia perdere, mademoiselle >> ridacchiò dolcemente. Jean cominciava ad apprezzare la curiosità di Eponine.
<< Qualunque cosa sia, in ogni caso non è perfetto. >>
<< Perchè? >> Domandò appoggiando il mento sulla mano destra, guardandola ansioso di scoprire che cosa avrebbe risposto.
<< Perchè  il sogno non è vita. >>
<< Hai mai creduto in qualcosa d’impossibile, Eponine? >>
<< Sì. >>
<< Allora hai sognato e se continui a credere in questo qualcosa d’impossibile, significa che per te è vita. >>
Eponine aggrottò le sopracciglia, non ci aveva mai pensato.
<< Qual è il tuo sogno Eponine? >>
<< Di essere amata, credo, ma sogno anche un vestito nuovo. Sì ecco, è questo il mio sogno. >>
<< E sono sogni impossibili? >>
<< Certo. >>
<< Da chi vuoi essere amata? >> La sua voce si era affievolita.
<< Non credo di saperlo più >> sussurrò lei, pensando a quell’essere bizzarro di nome Marius Pontmercy.
<< Come mai? >>
<< Sono  confusa. >>
Si osservarono, cercando di non annegare nelle iridi dei loro occhi così profondi e complicati. L’azzurro di quelli di Jean illuminava il nero di quelli di Eponine.
<< Sai Jean, forse uno dei miei sogni si sta trasformando in realtà e io non sto più sognando >> sussurrò.
<< Intendi dire… >> chiese Jean, teneramente speranzoso.
<< Il vestito nuovo. Che domande sciocche che fai, poeta >> sospirò lei, abbassando lo sguardo.
Jean non sapeva esattamente che cosa stesse succedendo al suo cuore, ma ciò che riuscì a capire, fu che Eponine, nel corso di una sola giornata, l’aveva attratto più di tutti i libri che aveva letto nel corso di una vita; ecco che cos’era quella ragazza: un libro aperto che probabilmente nessuno aveva ancora osato sfogliare e capire. Lui sarebbe stato il primo, perchè quella giovane donna, che si nascondeva dietro ad un vestito troppo lacero per la sua anima ricca, aveva un “non so che”, che lo aveva scombussolato tutto.
Improvvisamente il volto sognante di Jean assunse un’aria preoccupata. Stava ripensando a ciò che era successo poche ore prima: le urla di Eponine e di due uomini dall’aria minacciosa davanti al Musain avevano fatto sì che tutti gli studenti si affacciassero alla finestra per capire che cosa stava accadendo. Quando Jean l’aveva riconosciuta, aveva provato un sentimento misto ad emozione e preoccupazione: era sceso per le scale di fretta per portarla in salvo dai due uomini, che nel frattempo, se n’erano già andati. Lei restava immobile davanti al caffé, con una faccia terribile. Non era spaventata, ma rabbiosa. Pensando che non fosse sicuro restare lì quella sera, tutti se n’andarono; tutti tranne loro due, che per combattere il nemico avevano un’arma potentissima: l’intesa.
<< Eponine, dimmi la verità: chi erano quegli uomini? >>
Lei si guardò attorno. Ripensò in una frazione di secondo a ciò che era successo quella notte, alla sua mano sanguinante e alla perfidia di suo padre, poi si avvicinò all’orecchio di Jean. Profumava di carta.
<< Mai sentito parlare del Patron Minette? >>
Jean scosse la testa.
<< No… >>
<< Meglio così. >> Girò di nuovo lo sguardo intorno a sé, per controllare che nessuno la stesse sentendo, poi continuò: << Devo farti una raccomandazione: di’ al Signor Marius che stia alla larga da qui. >>
<< Perchè? Come fai a conoscere Marius? Eponine parla chiaro. >>
<< E’ per il suo bene. >>
<< Eponine spiegami per favore… >>
<< Non posso parlare di più. Dico solo che non voglio che sia coinvolto in questa storia. >>
Si allontanò da Jean con i brividi a fior di pelle. Tremava, ma non perchè era preoccupata per Marius, non perchè suo padre avrebbe potuto farle del male, non perchè camminava a piedi scalzi, ma perchè le lentiggini di quello stralunato sognatore le avevano morso l’anima. Si diresse verso le scale, dalle quali Grantaire, mezzo ubriaco, si era alzato per andare a cercare altro vino, ma ad un tratto si sentì afferrare il braccio.
<< Prima che tu vada via… tieni questa. Qualcosa per me e qualcosa per te. >>
Jean consegnò ad Eponine un piccolo foglio sgualcito. Lei guardò il foglio, guardò Jean, lo aprì lentamente e lesse.
 
D’assenzio i suoi occhi, che sono enormi e sfrontati.
Di sabbia la sua pelle, che è fragile e febbricitante.
Di sangue le sue labbra, che sono sincere e immacolate.
Polvere da sparo nei suoi capelli, come candida cipria.
Un quartetto d’archi nella sua voce, come nient’altro al mondo.
 
E poi sorride, terribilmente, ma sorride.
 
<< Cosa ne pensi? >>
<< Penso che sto bene. >>
Jean arrossì, poi si grattò la testa guardandola allontanarsi.
 
 
 
 
Eccomi tornata! (: Spero che anche questo secondo capitolo vi sia piaciuto. Ho inserito alcune citazioni, in particolare di Saffo, aggiungendo anche molti riferimenti alle descrizioni dei personaggi che Hugo ci presenta nel libro; il titolo del capitolo è ovviamente ispirato al celebre disco dei Pink Floyd “The dark side of the moon”.
La poesia alla fine l’ho scritta io, impresa ardua, in quanto non sono esperta nello scrivere poesie, ma almeno ci ho provato; Jean Prouvaire si sarebbe sicuramente meritato di più T.T Con la speranza di pubblicare presto anche il terzo capitolo, vi ringrazio per avere letto. Alla prossima! (:
  
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