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«Sirius,
ma come ti è saltato in mente di portarla qui?»
domandò una voce
calda e irritata. «Se il Ministero se ne accorgesse finiremmo
tutti
nei guai, Arthur perderebbe il posto e Azkab-»
«È
ferita, Molly, che diamine potevo fare? Ti ricordo che sono ancora un
ricercato per il Ministero, non potevo certo presentarmi all'ingresso
di un ospedale babbano... ho bisogno del tuo aiuto, non hai la minima
idea di come l'ho trovata.»
Il gelo
e la rabbia nella voce dell'uomo, giunsero ovattati alle orecchie
della ragazza. Sapeva di non ricordare qualcosa di fondamentale, ma
al momento la sua mente era ferma al presente. Si era risvegliata tra
le braccia di un uomo, all'aria aperta a giudicare dalla lieve brezza
che le accarezzava il volto. Avvertiva odore di erba fresca e paglia,
doveva trovarsi in una campagna. Una fitta alle tempie le
riportò
alla memoria ciò che era accaduto la sera prima.
Ricordò ogni
istante e riuscì a riconoscere la voce dell'uomo che la
teneva in
braccio.
Molly
abbassò finalmente lo sguardo sulla ragazza che Sirius aveva
portato
con sé e vide con i suoi occhi ciò che l'uomo non
era stato in
grado di raccontare. Sangue e sporcizia gridavano parte della sua
storia e alla vista di quelle braccia ferite, la strega, non
potè
far altro che portarsi le mani al volto.
«Povera
ragazza...» Mormorò. Il timore di finire
nell'occhio del ciclone
ancora una volta l'avevano distratta in precedenza. Non era da lei
preoccuparsi prima di sé stessa che degli altri, ma era
conprensibile pensare, visti gli avvenimenti che avevano scosso il
mondo magico nei mesi precedenti, che la sua attenzione venisse
calamitata dalla presenza di una nata babbana nel suo cortile.
«Me ne
occuperò io, Sirius, torna pure al Quartier
Generale.» Concluse,
infine, facendo cenno all'uomo di lasciare a lei la ragazza.
Annabelle
avvertì le braccia delicate e ferme della donna prenderla e
un
istante più tardi venne colta da una terribile nausea,
ancora
provata dai fatti che aveva vissuto, e perse conoscenza.
⋇ ⋇ ⋇
I
giorni che seguirono furono un incubo per Annabelle.
Dovette
raccontare più e più volte ciò che
aveva vissuto quella notte. Sua
madre, suo padre, la polizia e persino lo staff dell'ospedale avevano
bisogno di conoscere ogni aspetto della vicenda. Cercavano di non
forzarla, di non costringerla a rivivere quei ricordi troppo a lungo,
ma per Annabelle fu un autentica tortura.
Si
vergognava, si sentiva in colpa e l'idea di dover continuare a
raccontare, a spiegare, a rivivere il tutto non contribuiva a farla
sentire meglio. C'era poi la questione del cane che si era
trasformato in un essere umano... Annabelle non era stata in grado di
spiegarlo. Era stata una donna a portarla in ospedale, le avevano
detto, aveva sognato il cane e l'uomo forse per proteggere la sua
psiche da ciò che aveva affrontato. In cuor suo,
però, sapeva di
non averlo sognato. Ricordava anche vagamente un veloce scambio di
battute tra lui e la donna che l'aveva portata in Ospedale, ma i
medici continuavano a ripeterle che doveva averlo immaginato,
dopotutto nel pieno centro di Londra non era possibile sentire gli
odori che aveva descritto, propri delle campagne a nord della
città.
Visto
il suo evidente stato emotivo fragile, i medici avevano ritenuto
opportuno trattenerla ancora per qualche giorno in ospedale. Non
l'avrebbero mai fatta tornare a casa se avesse continuato a parlare
di cani mutaforma e di campagne inglesi, così Annabelle,
imparò a
mentire. Confessò di aver inventato la storia per sentirsi
meno in
colpa, ricostruì gli eventi come era certa sarebbero andati
a genio
ai medici e tenne per sé quei particolari che sapeva essere
veri ma
così strani da risultare quasi assurdi agli occhi di chi non
li
aveva vissuti.
La
dimisero due settimane più tardi, sotto la tutela dei
genitori e una
volta a casa, Annabelle si chiuse nella sua stanza, chiedendo a sua
madre e suo padre di lasciarle un po' di spazio per elaborare
ciò
che era accaduto. Essendo ormai sera e certa di non riuscire a
prendere sonno, la ragazza radunò una manciata di fogli e
delle
matite e, sedutasi al centro della stanza, iniziò a
ricostruire gli
attimi di quella maledetta nottata. Pagina dopo pagina
raccontò a sé
stessa i particolari di ciò che era accaduto, soffermandosi
su
quegli attimi che agli occhi dei medici erano risultati così
assurdi:
Perché
aveva visto o immaginato un cane nero piuttosto grosso trasformarsi
in un essere umano?
Come
aveva potuto raggiungere da Londra le campagne del sud-est della Gran
Bretagna e tornare in città prima dell'alba?
Con
quelle domande fisse nella mente, Annabelle accese il computer,
lasciando i disegni abbandonati sul pavimento. Analizzò da
ogni
punto di vista gli spostamenti chi avrebbe dovuto fare quella notte
per andare e tornare dal luogo imprecisato nel quale si era
risvegliata, ma più cercava, meno riusciva a capacitarsi di
ciò che
la sua memoria dava per certo. Era impossibile, eppure era certa
fosse accaduto veramente.
Presa
dallo sconforto decise di concentrarsi sulla prima domanda e in breve
tempo si ritrovò a visitare una serie di siti poco noti,
recanti
miti e leggende della Gran Bretagna e del resto del mondo.
Lì trovò
una risposta a ciò che stava cercando: Esistevano nel mondo
persone
in grado di mutare a piacimento la forma del loro corpo, Mutaforma o
Animagi, venivano chiamate queste creature. Le leggende le
dipingevano come creature crudeli e aggressive, caratteristiche
lontanissime da quelle che avevano contraddistinto l'uomo che era
certa l'avesse soccorsa. Eppure, l'idea di aver trovato una seppur
minima e assurda spiegazione a ciò che sapeva essere certo,
le diede
nuova speranza. Non era molto, ma era pur sempre qualcosa da cui
partire per risalire all'identità di chi l'aveva aiutata, la
Polizia
in questo era stata chiara: senza una descrizione precisa dei due
uomini che l'avevano aggredita e senza la testimonianza dell'uomo o
della donna che l'avevano trovata, sarebbe stato difficile assicurare
alla giustizia i criminali che l'avevano aggredita.
A
pochi minuti dall'alba, Annabelle si mise a letto, ma non prima di
aver raccolto tutti i disegni e averli nascosti in una delle mille
cartelline che popolavano la sua stanza. Anche quella notte li
avrebbe sognati, ne era certa, ma quella speranza, seppur lieve, la
fece addormentare quasi subito.
⋇ ⋇ ⋇
Incrociò
ancora il suo sguardo, nascosto dietro la siepe posta di fronte alla
sua abitazione. Si era ripromesso di utilizzare più cautela,
non
appena la ragazza fosse uscita dall'ospedale, ma non riusciva proprio
a smettere di preoccuparsi. Quella notte Sirius aveva avvertito
qualcosa di strano nell'aria, era stata quella sensazione oltre alla
voce della ragazza ad attirarlo in quel vicolo e si era ripromesso di
tenerla d'occhio fin quando non fosse certo di saperla al sicuro.
Non era
certo che lei avesse visto la sua trasformazione, ma c'era qualcosa
nel profondo dello sguardo della ragazza che l'aveva portato a
pensare che l'avesse riconosciuto una delle prime volte nelle quali
aveva deciso di farle visita in ospedale sotto forma di Padfoot.
Era
andato a trovarla più volte, cercando per quanto possibile
di non
farsi vedere troppo. Nessuno all'ospedale avrebbe potuto ricondurlo
al famoso ricercato a cui la polizia inglese stava dando la caccia,
ma non voleva che la ragazza, qualora avesse notato la
trasformazione, potesse pensare di essere perseguitata da una strana
creatura, o ancor peggio di essere impazzita.
Era
stato cauto, Sirius, ma non abbastanza.
Così, anche quel
pomeriggio, lo sguardo di Annabelle si soffermò per un
istante di
troppo nei suoi occhi da Padfoot. Si allontanò fingendo di
cercare
un odore, con il naso a qualche millimetro dall'erba, ma lo sguardo
della giovane ragazza, lo seguì lungo il cortile, fin quando
non
svanì dietro le siepi della proprietà dei vicini.
⋇ ⋇ ⋇
Non
l'aveva immaginato, di questo era ormai certa.
Più tempo passava,
più Annabelle si convinceva di quei piccoli particolari
assurdi che
aveva inciso a fuoco nella sua memoria. Ricordava il particolare
colore del pelo di quel gigantesco cane. Era alto rispetto alla media
e robusto, aveva il pelo sciupato, quasi opaco, eppure di un nero
profondo come la notte. Ricordava i due piccoli occhi grigi ridotti a
fessure per la rabbia e l'angoscia, ed era certa di averli rivisti
almeno un paio di volte dopo il suo ricovero.
La
prima volta aveva
creduto di immaginare quello sguardo leggero nel mezzo della folla.
In seguito aveva iniziato a riconoscere quella familiare palla di
pelo, osservarla da lontano. In un primo momento aveva pensato di
star impazzendo, ma più tempo era passato, più
gli occhi di quello
strano animale erano apparsi nei luoghi che lei frequentava.
Quel
pomeriggio, poi, erano comparsi di fronte a casa sua, accompagnati
dal corpo robusto e scattante dell'animale. L'aveva riconosciuto
subito dalla lieve curva che prendeva il profilo del muso sul lato
sinistro, dallo sguardo attento con il quale la stava osservando,
dalla nonchalance con la quale aveva finto di seguire una traccia con
l'olfatto giusto un secondo dopo aver incrociato il suo sguardo.
Lo
seguì lungo il vialetto, fin oltre la lieve curva che
descriveva il
giardino del vicino. E fu solamente quando vide la sua coda agitarsi
appena e scomparire dietro una siepe che decise finalmente di
scoprire ciò che aveva cercato di capire per l'intera
settimana
passata. Infilò gli scarponcini in similpelle al volo,
agguantò una
camicia a quadri verde e azzurra, prese le chiavi di casa uscendo e
sbatté la porta alle sue spalle. Fortunatamente i suoi
genitori non
erano in casa, altrimenti sarebbe stato difficile spiegar loro per
quale motivo un semplice cane dal pelo arruffato l'avesse agitata
così tanto.
Una
volta fuori, Annabelle iniziò a correre. Bastarono i tre
metri di
vialetto per sciogliere il nodo alla gola che si portava dietro da
sei giorni. Le era mancato poter correre, le era mancata la
sensazione di fresco causata dall'aria contro la pelle, le era
mancato il rumore ritmico della suola delle scarpe contro il terreno,
l'adrenalina che invadeva le sinapsi e liberava angoli della mente
che nemmeno era consapevole di avere. Aveva dimenticato quanto fosse
semplice per i suoi polmoni espandersi senza paura delle conseguenze,
quanto fosse bello poter inspirare senza sentire le lacrime o la
consapevolezza bloccare a metà il suo respiro e mutarlo in
fatica e
singhiozzi. Il piacere di avvertire gli occhi bruciare per lo sforzo,
piuttosto che per le lacrime, era passato in secondo piano da quando
aveva intrapreso la via del ritorno il venerdì precedente.
Realizzò
tutto questo in meno di una ventina di metri, fece appena in tempo a
voltare l'angolo dell'isolato (la sua era la penultima casa) quando
lo vide lì, fermo in mezzo al marciapiede, il muso voltato
con
insistenza verso di lei e un punto di domanda inespresso nei suoi
occhi azzurri.
Aveva arrestato la sua corsa all'istante vendendolo voltare il muso con quello strano sguardo. Lo stesso punto interrogativo si dipinse nel profondo dei suoi occhi. Aveva visto giusto. In quel momento Annabelle si convinse della sua teoria: non aveva mai visto quel cane nel vicinato ed era certa che la politica dello stato riguardo i randagi fosse piuttosto severa. Come sarebbe stato possibile per un cane randagio seguirla ovunque per sei giorni senza essere notato? Una voce nel profondo della sua mente iniziò ad elencare le ragioni per le quali tutto ciò che stava pensando non aveva senso, né applicazioni nel mondo reale, ma lei scelse volontariamente di ignorarla.
«So
chi sei.» Esordì senza nemmeno dover perdere tempo
a recuperare il
fiato. Lo esalò come un respiro, quasi avesse faticato a
tenere
dentro di sé quelle parole per troppo tempo. Lo disse
guardando il
cane negli occhi, in piedi, senza abbassarsi come faceva di solito la
gente per parlare con gli animali.
«E
non mi interessa se sembro una pazza o se effettivamente lo sono. So
che sei lui. So che sei l'uomo che mi ha salvata. Non so come, non so
chi, ma so che lo sei.» Sentenziò, cercando di
tenere la voce ad un
livello tale da non essere sentita dal vicino impiccione che abitava
dietro la siepe.
«Non
so come tu abbia fatto, né la ragione per la quale tu sia
così, ma
non ha importanza. Volevo solo dirti che ti ringrazio e che sono in
debito con te. Non so se sarei mai riuscita a tornare a casa se...
insomma, hai capito.» Si ritrovò ad abbassare lo
sguardo per un
istante, rivedendo un flash di quei momenti.
Come
se volesse scacciarlo dalla mente, si abbassò poggiando un
ginocchio
a terra. Cercò il capo del cane con la mano e lo
accarezzò
guardandolo negli occhi.
«Grazie, chiunque tu sia.»
Dette quelle parole si alzò e se ne andò, con un principio di sorriso sulle labbra. Mentre tornava correndo verso casa, Annabelle si sentì più leggera, tanto che quando vide il portone di casa ricomparire dietro il muro in cemento azzurro, passò oltre evitando il vialetto e decise di fare il giro dell'isolato. Tornò a concentrarsi sul suo respiro, sui battiti del suo cuore e sul ritmico rumore che producevano le suole delle scarpe sull'asfalto appena bagnato dalla pioggia del mattino. Le chiavi, attaccate al passante dei jeans accompagnavano i suoi passi producendo un suono che di norma l'avrebbe irritata, ma che in quel momento contribuirono a farla sentire a posto. Normale.
Chiudendosi
nuovamente la porta alle spalle si ripromise di farlo ogni mattina, o
comunque una volta al giorno. Non sarebbe servito a cancellare quello
che era successo, ma sapeva che trovare uno scopo, un modo per
sfogarsi avrebbe contribuito a darle una ragione per andare avanti e
superare quello che i medici avevano definito come “terribile
trauma”.
Il
fatto che Annabelle non riuscisse ancora a processare e digerire
ciò
che le era accaduto, non significava che non riuscisse a comprendere
le implicazioni di quelle due parole. Lo realizzò quello
stesso
pomeriggio quando, dopo essere entrata in bagno e aver chiuso la
porta dietro di sé, vide la sua immagine riflessa nello
specchio
incastrato nel telaio della porta. Non aveva avuto occasioni di
guardarsi allo specchio dopo quel Venerdì pomeriggio, gli
specchi in
ospedale raggiungevano a mala pena le dimensioni di un volume
dell'enciclopedia universale e lei, in un modo o nell'altro, aveva
sviluppato una sorta di timore nei confronti delle superfici
riflettenti. Quel giorno, tuttavia, il suo specchio preferito le
mostrò ogni, o quasi, conseguenza del “terribile
trauma”.
Annabelle seguì con lo sguardo ogni cicatrice, ogni livido
giallo/verde tracciate sul suo corpo. Si soffermò un istante
di più
sulle braccia e le gambe che in apparenza avevano pagato di
più,
poteva quasi contare ogni frammento di istante in quei disegni
violenti. Per un intero minuto continuò a ripetere nella
mente che
forse il fatto che i lividi e le cicatrici si vedessero così
bene
non fosse un male. Sembrava sciocco un pensiero di quel genere alla
luce di ciò che era accaduto, ma annabelle aveva sentito
più volte
alla televisione e in giro frasi come “che sarà
mai” o “in
fondo è una cosa naturale, è normale”
riferite a casi di stupro e
violenza, e in quei casi sapeva che era facile gudicare un qualcosa
che non poteva essere visto definendolo come inesistente. Cosa poteva
saperne la gente di ciò che si celava nella mente delle
persone che
l'avevano vissuto? Cosa poteva saperne la gente di come ci si sentiva
a essere privati dell'innocenza e della possibilità di
decidere del
proprio corpo? Come potevano pretendere di aprir bocca in modo
così
ignobile su un argomento così delicato? Annabelle sapeva che
era
facile passar sopra tutto ciò che non era visibile,
perciò tutti
quei toni di giallo, nero e verde sul suo corpo, in quel particolare
senso le donavano sollievo. Non potranno mai dire che non è
successo o che è stata una cosa che ho voluto...
pensò,
osservando il suo corpo allo specchio. Chi mai potrebbe volere
tutto questo?
Trascorse
un tempo interminabile sotto la doccia. Lavò via ogni
pensiero
lasciando la mente libera di vagare, sfruttando ogni sinapsi le fosse
concesso usare. Pianse scivolando lungo le pianelle del bagno fino a
immergersi completamente nell'acqua della vasca. Avrebbe voluto usare
i sali da bagno, ma l'urgenza di lavare via ogni cosa, ogni idea o
pensiero, l'avevano convinta che del semplice bagnoschiuma sarebbe
bastato e avanzato.
I
suoi genitori tornarono appena in tempo per sentire il Phon spegnersi
e la porta del bagno aprirsi.
«Siamo
tornati!» la voce del padre arrivò come musica
alle orecchie di
Annabelle, mentre si preparava ad affrontare le scale che l'avrebbero
portata in salotto.
Non
aveva la minima idea di come avrebbe superato quella vicenda, ma era
certa al cento per cento che le due facce sorridenti che l'accolsero
non l'avrebbero lasciata sola.
NDA:
Mi sono resa conto di aver commesso degli errori imperdonabili nella prima stesura della storia. La sto riscrivendo pezzo per pezzo e so che mi odierete a morte perché sono l'eterna ritardataria, ma non potevo portare a termine una storia che conteneva errori imperdonabili riguardo il Canon. Detto ciò, spero che questo primo capitolo vi vada a genio. Fatemi sapere le vostre impressioni tramite le recensioni, solamente così posso migliorare e rendere questa storia migliore.
E se avete consigli o suggerimenti, non esitate a contattarmi. La storia è quasi completa nella mia mente, ma non è detto che non sia disposta a modificare qualcosa o a migliorare quello che già c'è.
Nel frattempo ci tengo a ringraziare chi ha commentato la versione passata e chi commenterà o apprezzerà la versione attuale. GRAZIE mille a tutti <3