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Autore: Nike93    12/02/2008    3 recensioni
A volte capita che un amore sia vissuto nei silenzi, e per questo si pensa che sia troppo perfetto perchè finisca. Ma poi si finisce per sentirsi come passeggeri distratti di una vita in vetrina, e il nodo che ci si lascia alle spalle è terribilmente difficile da sciogliere. Forse l'unica soluzione è dimenticare... e allora dimentica!
Ti ritroverai ad andare avanti finchè non ti sentirai come una superstite...
Una storia scandita dai testi di Raf, una storia che non sa se chiamarsi "d'amore".
Una storia i cui protagonisti credono di vivere i giorni migliori mentre invece stanno solo per sprofondare.
Una storia che non può avere un lieto fine. Non per tutti.
Genere: Drammatico, Song-fic, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao! Questa è la mia seconda long, la prima sui Tokio Hotel (che, per inciso, non mi appartengono). E’ ancora in fase di scrittura, anche se so già più o meno come si svilupperà. Non so quanto sarà lunga, ma sarà divisa in quattro o cinque parti, ognuna composta di un paio di capitoli e incentrata su una canzone di Raf (tutti i testi che leggerete, dunque, sono suoi). Il personaggio di Haylie, la protagonista, è frutto della mia fantasia, così come gli avvenimenti qui descritti. Con questo mio scritto non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di nessuno dei personaggi realmente esistenti, e la storia non è scritta a scopo di lucro.
Spero che sarà di vostro gradimento!

Vittoria

Parte I – Nei silenzi


Capitolo uno

“Scorrono morbide curve di una strada da percorrere
vanno via ruvidi giorni di un novembre senza nuvole
la rugiada è un velo di pellicole che avvolge luci
e prospettive surreali”

Il grande portone appena verniciato si chiuse con un tonfo sordo nello stesso momento in cui un piccolo sbuffo di fiato caldo andò ad insinuarsi nell’aria fredda di dicembre.
Lo sguardo di Haylie vagò un paio di volte da destra a sinistra, lasciando trasparire il lieve disagio che si era impadronito di lei non molti minuti addietro. Scrutò velocemente la strada di fronte a lei, quasi sollevata nel rendersi conto che non vi era una sola anima viva.

Chiuse gli occhi e sospirò profondamente, forse nel tentativo di riscaldarsi o, più probabilmente, di riordinare le idee.
Si sforzò di sorridere, e questo le venne molto più facile quando le parole che aveva sentito prima di scendere in strada presero il posto del timore, dell’assurda preoccupazione che provocava in lei il non sapere cosa avrebbe detto lui.

Si strinse nel vecchio cappotto che mai avrebbe fatto intendere quale fosse la sua professione e si decise ad attraversare, ben felice di poter lasciare i propri occhiali da sole in borsa. Non che ce ne fosse realmente bisogno –in quella mezz’ora non si era neanche accorta delle nuvole grigie che si erano condensate nel cielo fino a poco prima azzurro-, ma conosceva fin troppo bene la faccia di lui quando gli bloccavano la porta d’uscita se prima non si era nascosto dietro un paio di grandi occhiali scuri –troppo per il suo viso minuto- e sotto un brutto cappello recuperato da qualche armadio che di sicuro non era suo.
Sbuffava, alzava gli occhi al cielo, imprecava sottovoce. Ma poi si calcava il berretto sulla testa e metteva gli occhiali a posto sul naso, che quasi scompariva sotto le due grosse lenti.
Era un vero peccato, perché quegli occhiali andavano a nascondere proprio la parte più bella del suo viso.
I suoi occhi…
Occhi leggermente a mandorla.
Occhi dalle lunghe ciglia scure.
Occhi color del legno. Di un legno giovane, fresco, pulito.

Haylie s’infilò velocemente in macchina e rubò solo qualche secondo per darsi una rapida occhiata nello specchietto retrovisore, poi accese il motore e partì, senza fretta, con la sua solita calma.
Calma che calma non era.

Era buffo pensare che tutto il tempo che toglieva alla cura del proprio aspetto lo dedicava a quello degli altri.
Già, ma loro non erano “altri” qualsiasi… Haylie era ben felice di dedicare loro il proprio tempo.
Se non altro, era sicura che non fosse perso, quel tempo.
Nonostante l’agitazione, non riuscì a non sorridere tra sé.
Come poteva essere perso, il tempo che passava con lui? Certo, non c’era solo lui… Ma, in certi momenti, era come se lo fosse.
Con il tempo aveva imparato a stare anche con gli altri, ma all’inizio non c’era stato che lui.
Lui che esigeva più tempo e cura degli altri, lui che sembrava vivere in una dimensione tutta sua, lui che invece era stato il primo ad accoglierla e con il tempo l’aveva inserita nel gruppo.


Per Haylie era un po’ triste non poter vedere fino in fondo il frutto del proprio lavoro, ma la sua natura mite, come al solito, aveva prevalso sulla parte di lei che avrebbe voluto protestare.
Però era ingiusto che, dopo aver passato ore a scegliere, provare e scartare vestiti non potesse assistere al servizio fotografico.
Era anche vero che lui le aveva detto di non amare particolarmente quei servizi… Meno gente c’era, meglio era. Non che non amasse stare al centro dell’attenzione –d’altra parte vi si era dovuto abituare-, ma gli ricordavano troppo quelle tranquille passeggiate sacrificate per una seduta di due ore a base di foto e autografi con decine di ragazze.
Quel giorno, però, sembrava davvero soddisfatto.
- Non mi sembra che sia stato così snervante! – osservò lei, vedendolo sorridere.
Quando sorrideva, sembrava che tutto il suo volto s’illuminasse…
- No, per fortuna è stato breve. E poi oggi sono di buon umore! –
Già, lui era lunatico. Incredibilmente, irrimediabilmente lunatico. Non gli si poteva rivolgere la parola se aveva la luna storta, ma, quando lo si vedeva sorridere a quel modo, era impossibile non lasciarsi trascinare. Questo Haylie aveva avuto occasione di impararlo in meno di un mese che lavorava con il gruppo.
- E poi i vestiti che ci hai scelto sono fantastici! –
Se Haylie fosse stata un filino più sfacciata, gli avrebbe detto ciò che pensava di lui quando se ne usciva con affermazioni del genere: che, nonostante le malelingue, con una donna non aveva da condividere altro che la vanità. Ma anche quella, prima o poi, sarebbe passata in secondo piano.
- Non ho mica fatto tutto da sola. Non posso certo prendere quattro stracci e metterveli addosso così! –
- Però sembra che tu conosca i miei gusti come se fossimo amici da una vita, sai? –
Non erano da lui tali manifestazioni di confidenza.
Infatti Haylie ci aveva messo un po’ per apprezzarle.
In quel momento, non aveva saputo fare altro che arrossire.
- Oh, beh… -
- Credo che anche gli altri la pensino così. Mio fratello, per lo meno, è abbastanza esplicito da farlo intendere. –
Rise. Era una risata diversa da tutte quelle che Haylie aveva sentito.
Limpida, cristallina, come il tintinnio di un bicchiere urtato gentilmente contro un altro in un delicato brindisi.
I suoi occhi, né scuri né chiari, si socchiudevano, e le pupille quasi scomparivano sotto l’alone di denso trucco nero.
Quel trucco gli si addiceva. Stranamente.
La sua risata scopriva dei denti non perfettamente diritti, ma bianchi, senza alcun bisogno dei soliti ritocchi fotografici che spesso si applicavano a persone del suo stesso “rango”.
Lui era diverso.
Lui era lui.
Lui era semplicemente Bill. Bill Kaulitz.


Haylie quasi si stupì nel ricordare le prime volte che aveva lavorato con lui e gli altri.
Quasi non le sembrava possibile di essersi sentita fuori posto in un contesto così… normale. E adesso? Adesso quell’espressione non bastava a rendere il suo stato d’animo.
Cercò di non distrarsi per non uscire di strada. Era già abbastanza confusa per conto proprio, meglio non peggiorare la situazione.
Certo, tante volte si era sentita confusa, e non raramente si era sbagliata.
Come quella volta… quel primo bacio…


Il concerto era stato un successo. Anzi no, meglio. Ma, d’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da quattro ragazzi così pieni d’entusiasmo? Sapevano trasmetterlo al pubblico meglio di chiunque altro… Erano proprio quel che si dice “animali da palcoscenico”.
Essendo parte dello staff, Haylie non aveva potuto allontanarsi né mescolarsi tra il pubblico. La sua presenza non era necessaria dietro le quinte, ma contro le regole era inutile combattere.
Non era la prima volta che Haylie assisteva ad un loro concerto, o meglio, che avrebbe potuto assistervi. Si era sempre tenuta in disparte, si era limitata ad ascoltare la loro musica da lontano.
Ma ormai erano quattro mesi che lavorava con loro, che si preoccupava di curare la loro immagine prima di una qualsiasi uscita pubblica. Era anche il momento di vedere parte del frutto del proprio lavoro.
Così si era appostata dietro le quinte e l’aveva seguito tutto, dal primo all’ultimo minuto, canzone per canzone.
Non era la prima volta che le sentiva. Ma fu come se.
Era ancora lì a chiedersi come quelle note non avessero solleticato prima le sue orecchie e la sua anima, quando Bill le si avvicinò di corsa.
- Hai visto? – Sprizzava entusiasmo da tutti i pori. – Cavoli, non avrei mai pensato che sarebbe stato così… così! –
Era sudato, aveva ancora il fiatone, gli era anche colato un po’ di trucco, ma era felice.
Come al solito, Haylie non poté fare a meno di lasciarsi contagiare.
- E cosa ti aspettavi? – gli chiese trattenendo a stento una risata.
La risposta non era giunta da lui, ma da un’altra voce alle sue spalle.
- Figurati, ogni volta entra in paranoia. Che gli lancino i pomodori addosso, ecco cosa si aspetta! –
Al sorriso di Bill se n’era aggiunto un altro.
Quello di Tom, il suo gemello.
Un sorriso che poteva sembrare uguale al suo, ma che non lo era affatto.
Era un sorriso ugualmente ampio, ma disegnato da labbra più carnose e piene e messo in risalto dal discreto luccichio di un piccolo piercing di metallo. Stampato su un viso ugualmente sudato, ugualmente minuto, solo leggermente più paffuto e abbronzato. Un viso incorniciato da lunghi dread biondi che spuntavano da dietro un cappellino a rombi bianchi e azzurri e che andavano ad adagiarsi dolcemente su due spalle non troppo larghe, ma possenti.
Un viso di una bellezza diversa da quella di Bill, ma che avrebbe potuto colpire, affascinare e rapire allo stesso modo chiunque lo osservasse.
Ma in quel momento Haylie non gli aveva badato più di tanto. Forse perché si era bene o male abituata a vederlo ogni giorno, forse perché la sua naturale riservatezza le imponeva di non fissarlo troppo a lungo, forse perché era catturata dall’entusiasmo di Bill.
Entusiasmo talmente puro e sincero da togliergli il desiderio di rispondere a suo fratello con una battuta ancor più pungente, come faceva di solito.
- Sono felice che sia andata come speravi. –
Bill si morse il labbro inferiore senza smettere di sorridere e, in uno scatto istintivo, le prese le mani tra le proprie.
Haylie non avrebbe mai creduto che mani così fredde e bagnate potessero provocare una sensazione così piacevole.
- Comincio a credere che sia tu a portarmi fortuna. –
Il dopo fu piuttosto confuso.
Bill sorrise di nuovo. Sembrava quasi che cercasse di trattenersi. Poi rafforzò la presa sulle mani di Haylie, inclinò la testa di lato, la guardò per meno di un secondo prima di sporgersi in avanti e posare un leggero e furtivo bacio sulle sue labbra.
Meno di un secondo.
Un secondo che Haylie non avrebbe saputo riempire in un’intera giornata.
Realizzò quanto fosse appena successo solo quando si rese conto di aver esaurito completamente le riserve di ossigeno.
Riprese a respirare con una certa irregolarità, e il lieve annebbiamento della vista che quell’attimo le aveva provocato non le impedì di constatare che il sorriso era ancora al suo posto sulle labbra di Bill.
Ma era cambiato.
Era un sorriso misurato. Tenero. Trattenuto a stento, appena accennato, rivelato solo dalla luce che ora gli ravvivava gli occhi.
Ma, come al solito, il commento arrivò da dietro le sue spalle.
- Era un modo implicito di ringraziarti per averlo sopportato meglio di noi tre messi insieme! –

Haylie si meravigliò nel ritrovare lo stesso sorriso ancora stampato sulle proprie labbra.
Beh, in fondo era anche un po’ “colpa” di Bill se si trovava così spesso a sorridere, apparentemente senza motivo.
Avevano tante cose in comune, tra cui la poca espansività. Certo, era un aspetto che si manifestava diversamente in entrambi, ma non per questo passava inosservato.
Era fantastico stare a guardare i due gemelli, in qualsiasi momento della giornata.
Battute a volte divertenti e a volte quasi da bambini, finti calci e finte gomitate, sguardi enigmatici. Talvolta amichevoli. Talvolta taglienti.
Ma fraterni, sempre.
Era all’uscita del tourbus che Haylie poteva constatare quanto Bill e Tom fossero diversi.
Era una diversità sottile, ben lontana dalla semplice distinzione “l’ambiguo-e-il-piacione” che, puntualmente, ogni fan o osservatore esterno assumeva.

Non avrebbe saputo spiegarlo.

Ma, in quei casi, non si sentiva poi tanto uguale a Bill.
Era davanti al pubblico che lui tirava fuori il suo scudo, la sua – per molti dubbia- timidezza, quasi la sua “maschera”, l’elemento che lo differenziava dal fratello.
Haylie si era sempre protetta dietro quello scudo, e non lo avrebbe certo messo da parte a ventun anni.

Ventun anni che non dimostrava.
Per un verso, chiunque la vedesse per la prima volta, senza conoscerla, e scambiasse giusto qualche parola con lei, avrebbe potuto tranquillamente attribuirgliene almeno cinque o sei in più.
Forse per quelle poche parole che uscivano –come a volerle forzare- dalle sue labbra, pronunciate a bassa voce, quasi con vergogna, o puro e semplice riserbo, ma che contenevano l’essenza di un intero discorso, la poesia di un’esistenza.
Forse per quelle piccole e delicate rughe agli angoli della bocca, lievissimi segni che avevano preso quel posto già un paio di anni prima, e che potevano portare con loro ricordi e immagini di un sorriso così come di una smorfia di dolore. Espressioni di una bocca che parlava anche senza proferire alcun suono.
Per un altro verso, poteva anche sembrare una bambina.
Un po’ per il fisico longilineo e dalle forme appena accennate; un po’ per i lunghi ciuffi ramati sempre scompigliati, un dispetto, quasi, a quella che era la sua professione, la sua immagine –che tuttavia risultava sempre impeccabile, sebbene fosse chiaro che la ragazza le prestasse la minima attenzione necessaria-; un po’ per il calore emanato da due occhi color delle castagne e resi, se possibile, ancor più misteriosi dall’arcata di lunghe ciglia nere, senza bisogno di trucco, che li ornava.

Ma non era certo a quei pensieri che Haylie rivolse la propria mente quando fermò la macchina accanto all’ormai familiare sagoma del grande tourbus.
Il tourbus dei Tokio Hotel.
Casa sua, in effetti.
Haylie provava sempre un certo imbarazzo anche solo nel pensarlo. Tecnicamente, non era affatto casa sua. Ma se si pensava che da circa due anni ne usciva solo un paio di volte al giorno e che i punti “essenziali” della sua vita si erano svolti proprio lì dentro, le veniva naturale considerarla casa propria.
Trasse un profondo respiro prima di salire sulla scaletta che l’avrebbe condotta all’interno del tourbus e istintivamente, senza quasi accorgersene, posò una delle sue esili mani infreddolite sul proprio ventre.

“E penso a te,
solo tu puoi sentire,
puoi comprendere…”

(Raf, "nei silenzi")

  
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