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Autore: lady vasshappenin    13/08/2013    4 recensioni
Un modo per soffocarmi. Per soffocare tutto.
Se ce ne fosse stato solo uno, sarebbe stato più facile andare avanti senza pensare, ma purtroppo la mente di Giulia viaggiava sempre sui soliti chiodi fissi che la facevano sanguinare in silenzio: si sentiva soffocata dalla luce abbagliante di Melissa, dall'inaspettata voglia di volare in alto di Giacomo, dalla superbia di Chiara, dalla dolce innocenza di Emilio, dalla rigidità dei suoi genitori, dall'incoerenza della società in cui viviamo, dalle apparenze, dalla fiducia data a gente che non la meritava, da una classe opprimente, da una cattiva fama e da una marea di sogni irrealizzati e irrealizzabili.
Lei vorrebbe riuscire ad urlare al mondo cosa pensa davvero, ma ha perso le motivazioni per farlo. Riuscirà a ritrovare uno scopo per migliorare la propria vita? O saranno le motivazioni perdute a ripresentarsi alla sua porta in compagnia di qualcuno pronto a spronarla?
In un racconto pieno di vite che si intrecciano, vicende che si rincorrono e storie che si ripetono, Giulia riuscirà a lasciarsi il passato alle spalle una volta per tutte?
Nel tentativo di creare qualcosa di originale e creativo, vi propongo la mia nuova fanfiction.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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A way to suffocate me.



2° capitolo.

B come Baccano di una Bimbetta.

 
Accucciandomi nell’accappatoio, uscii dal bagno: il silenzio che fino a pochi minuti prima regnava sulla casa si stava rompendo, i miei familiari si stavano svegliando e con loro il chiasso e la confusione.
Mi diressi verso camera mia, strofinando i capelli bagnati contro la morbida spugna che odorava di pulito nella speranza che si asciugassero – un augurio infondato, erano troppo bagnati -. La luce era ancora spenta, ma sapevo che di lì a poco mamma sarebbe arrivata, sgolandosi nel tentativo di far svegliare Melissa e Chiara.
Mi incamminai in quella stanza buia tastando qualunque cosa intorno a me, alla ricerca dell’armadio. Lo trovai andandoci a sbattere contro con il gomito e, massaggiandomi la parte dolorante, aprii un’anta: la piccola lampadina interna al mobile illuminò leggermente lo spazio nei dintorni e mi permise di vedere i vestiti.
Persi qualche secondo a contemplare la mia immagine riflessa sullo specchio incastonato all’interno dello sportello che avevo spalancato: una ragazza non troppo alta ricambiava il mio sguardo.
Purtroppo, come ormai la stragrande delle adolescenti del mio secolo fa, non amo il mio corpo: non sono per niente alta, raggiungo a stento il metro e sessanta, e ho una corporatura robusta, con una conseguente dose di ciccetta sulle cosce e sulla pancia. Non sono una di quelle ragazze che può definirsi grossa e non posso nemmeno comportarmi come se lo fossi, mancherei di rispetto a chi ha davvero questo problema, ma non ho un fisico da modella, i fianchi che madre natura mi ha donato non sono proprio i miei amici più cari e le mie cosce andrebbero snellite. L’unica cosa piacevole del mio fisico da matrona romana è il seno, sodo e abbastanza abbondante per la mia età, che, però, mi è rigorosamente vietato valorizzare con una scollatura leggermente più ampia e profonda. Mia madre e mio padre, infatti, sono due persone molto all’antica e hanno cercato di educare noi figli con metodi simili a quelli usati precedentemente dai loro genitori.
Ergo, in casa nostra le regole sono più numerose e rigide di quelle che vigono in un riformatorio.
Siamo continuamente vincolati da limiti, doveri e scadenze. Sì, sembra di vivere in un orologio svizzero: c’è un orario per alzarsi nei giorni di vacanza, un orario per andare a dormire durante il periodo scolastico, un orario per spegnere il telefonino, un orario per rincasare, un orario per andare dagli amici. Tra un po’ avremo anche l’orario adatto per respirare.
Per non parlare delle regole a cui dobbiamo attenerci. Se si dovesse stilare un elenco contenente tutte le norme disciplinari che i miei hanno inventato, ci vorrebbe un’intera equipe editoriale disponibile a lavorare per una decina d’anni. Ne uscirebbe un libro con più pagine della Bibbia, diviso in numerosissimi capitoli, paragrafi, paragrafetti e sottoparagrafi. In casa ne esistono anche vincolanti al vestiario, al comportamento, allo studio, sulla pulizia, sull’ordine, sul rumore, sulla musica e su un altro miliardo di cose.
Cacciando questi tristi pensieri dalla mia mente, mi tuffai alla distratta ricerca di qualcosa da indossare per andare a scuola. Uscii dal guardaroba velocemente una maglia a maniche corte blu a righe bianche, un paio di comodi blue jeans e tirai fuori dalla scarpiera le vecchie Superga azzurre di Melissa, ormai bianche dopo i numerosi bagni al mare.
Contemporaneamente mia madre fece irruzione in camera mia, tirando su la tapparella e spalancando la finestra.
«Sveglia, bambine, sono 7.10! FORZA, IN PIEDI!» urlò e, non accorgendosi del fatto che io fossi già alzata con l’accappatoio addosso e i vestiti tra le mani, oltrepassò rapida la porta.
Girando la testa verso i letti, mi accorsi che il sonno profondo di quei ghiri delle mie sorelle era stato interrotto dalle urla mattutine della mamma: Melissa si agitava tra le lenzuola e, con la testa sotto il cuscino, farfugliava qualcosa che assomigliava tanto a “C’ho sonno, non voglio andare a scuola”, mentre Chiara era carponi sul letto e si stropicciava gli occhi con le manine paffute, ancora incapace di definire se stesse sognando o no.
Dopo aver indossato la maglietta, infilato i pantaloni e allacciato le scarpe, mi resi conto che il risveglio di Melissa e Chiara non era ancora completo, anzi erano ancora alla posizione iniziale.
Il che era un bene alla fine, avrei evitato la solita confusione che regnava a colazione se mi fossi data una mossa.
Mi avvicinai alla scrivania e inforcai gli occhiali: tutto magicamente mi era più nitido.
Sì, sono una quattrocchi, purtroppo. Ho gli occhiali da quando sono piccola, inizialmente l’oculista aveva prescritto delle lenti riposanti, ma poi è apparsa anche la miopia e sono diventata cieca come una vecchia talpa con la cataratta.
Fortunatamente non sono l’unica costretta a portarli in famiglia: anche Giacomo e papà sono stati scalognati come me.
La mamma invece è uscita dal club familiare degli occhialuti, l’anno scorso ha fatto un’operazione agli occhi ed adesso non ha bisogno di nulla. Non vedo l’ora di essere abbastanza grande per eliminare questo problema dalla mia vita. Ho quindici anni ormai, vado in secondo liceo da un mesetto e potrei mettere tranquillamente le lenti a contatto qualche volta, come fanno molti miei compagni.
E invece no. I miei genitori, supportati dall’oculista e dall’ottico di famiglia, sono contrari al loro utilizzo prima della maggiore età. Se non le fanno usare nemmeno a Giacomo, quasi diciottenne ormai, io non ho la minima speranza.
Come sempre, la fortuna ha baciato le mie due insopportabili sorelle, evitando loro di osservare la vita attraverso un paio di stramaledettissime lenti di vetro graduate.
Con le mani tra i capelli, nella speranza che si asciugassero come per magia da un momento all’altro, mi diressi in cucina abbandonando Chiara e Melissa al loro lentissimo risveglio dal mondo dei sogni.
Non fui molto sorpresa nel trovare papà seduto a tavola a trangugiare un toast imburrato mentre studiava una cartella piena di tabelle e diagrammi, mamma che annuiva al telefono da dietro una tazza di caffè e Giacomo che versava del succo di ananas nel proprio bicchiere mentre parlottava tra  sé, probabilmente ripetendo concetti appartenenti  all’ennesima lezione di filosofia studiata.
L’unica cosa strana era che, al posto della consueta confusione, quel giorno aleggiava sulla cucina un silenzio quasi totale, smorzato unicamente dai rumori d’assenso che venivano dal caffè della mamma e dai borbottii di mio fratello. Papà, invece, era muto come un pesce quella mattina e così occupato a contemplare la sua cartellina zeppa di dati e numeri da potersi anche dimenticare di respirare ogni tanto.
Mossi la mano in segno di saluto e feci per articolare un semplice “Buongiorno”, ma fui immediatamente zittita da mio padre che, rianimandosi, mi fece segno di rimanere in silenzio e subito dopo indicò la mamma, facendomi capire che la sua era sicuramente un’importante discussione di lavoro.
Imbronciata, mi scaraventai sulla sedia, afferrai un pancarré da ricoprire interamente di Nutella e versai il caffè ancora caldo nella mia tazza.
Nel tentativo di renderlo più dolce, dimezzai il contenuto della zuccheriera. Odio il caffè amaro, sono abbastanza amara di mio la mattina, ho bisogno di qualcosa che renda le mie occhiaie meno pesanti e il mio ingresso a scuola più leggero e lo zucchero, talvolta, può essere utile.
Nel frattempo, papà era rientrato in coma con gli occhi fissi sui fogli che teneva in mano e Giacomo aveva messo a lavare le sue cose ed era uscito dalla cucina meditabondo, borbottando sottovoce per tutto il tempo.
La discussione  telefonica della mamma, che sembrava essere molto importante, era costituita unicamente dai suoi numerosi “sì sì, ho capito” e da pause lunghissime in cui le sue sopracciglia si aggrottavano e si rilassavano in continuazione, segno evidente di agitazione e nervosismo.
Quando stavo per posare dentro il lavabo la tazza sporca e le posate unte della deliziosa crema alla nocciola, entrò in cucina un’assonnata Melissa.
Ricorda moltissimo  nostra madre: stesso viso dolce a forma di cuore, stessa bocca sottile, stesso naso all’insù. Gli occhi di quest’ultima sono, però, di un bel verde acqua, mentre quelli della mamma sono tendenti al grigio.
In famiglia li abbiamo tutti chiari: papà ha i più belli di tutti, due zirconi luminosi che non sono stati ereditati da nessuno in famiglia. Il colore che più gli assomiglia è quello dello sguardo di Giacomo, un celeste chiarissimo, mentre la mia iride e quella di Chiara hanno lo stesso pigmento, un verde edera che al buio cambia in un verde bosco. Emilio è ancora piccolo e, come tutti i bambini, i suoi occhi devono ancora trovare la colorazione definitiva, ma per adesso ha due oceani in mezzo alle pupille.
Trascinandosi sul pavimento, mia sorella si buttò di peso sulla sedia che avevo appena liberato e con voce impastata disse «’Giorno mamma, come va?».
Io, imitando mio padre, le feci segno di zittirsi e le indicai la mamma. Nel girarmi, la vidi, però, riagganciare la cornetta con aria soddisfatta e dire a Melissa con tono non curante «Ciao tesoro, oggi tutto va meravigliosamente! Parla pure, ho finito con il telefono.»
E’ assurdo come mia sorella sia così sfacciatamente fortunata anche in queste piccole sciocchezze! Quando ho tentato di proferire parola io, mio padre mi ha intimato di tacere bruscamente, mentre, appena arriva Melissa, il tizio al cellulare con la mamma decide magicamente di mettere fine alla discussione. Perché tutto l’universo ama così palesemente mia sorella e disprezza me in tutti i miei aspetti e comportamenti?
Come se non bastasse, mia madre, scorrendo con lo sguardo per la cucina, mi squadrò fulminea da testa a piedi ed esclamò sbuffando «Per l’amor di Dio, Giulia, perché hai i capelli tutti bagnati? Lo sai che ti prenderai un febbrone da cavallo se esci di casa così, vero?! Vatti ad asciugare la testa immediatamente!»
«Mamma, uffa, oggi c’è caldo, se esco con i capelli un po’ umidi non rischio mica una polmonite! E poi … » ma non mi fu permesso completare la frase poiché le mie parole furono sovrastate dalla voce perentoria di quella donna seduta a tavola che mi osservava con occhi infuocati.
«UN PO’ UMIDI?» trillò lei, aumentando il volume della propria voce ad ogni sillaba, «UN PO’ UMIDI?! STAI SCHERZANDO, SPERO! SONO ZUPPI! E GUARDA LA MAGLIETTA, E’ TUTTA BAGNATA ALL’ALTEZZA DELLE SPALLE! VAI A CAMBIARTI IMMEDIATAMENTE E TROVA IL MODO PER ASCIUGARE QUEI CAPELLI IN FRETTA, NON VOGLIO CHE PER COLPA TUA TUTTI DEBBANO ARRIVARE IN RITARDO A SCUOLA! CI SIAMO CAPITE, SIGNORINELLA
Quando finì di sbraitare la sua voce aveva raggiunto sicuramente le orecchie degli Australiani, attraversando l’oceano e privando centinaia di persone dell’udito. Il suo viso non sembrava più tanto dolce, anzi, era diventato d’un tratto molto simile ad un grosso mattone color porpora e sembrava che un po’ di fumo stesse per uscire da quei due grossi buchi dilatati per il nervosismo che dovevano essere state, fino a poco tempo prima, le sue narici.
Tentai di articolare anche un minimo pensiero in mio favore, ma gli occhi di mia madre, che in quel momento tendevano verso una strana sfumatura rossastra, mi comunicavano un chiaro messaggio: era meglio fare ciò che mi aveva chiesto o sarebbe passata alle punizioni e ai castighi.
Così, intristita, mi diressi mogiamente verso il bagno, mentre già l’aria in cucina si alleggeriva e la mamma si ricomponeva, tornando quella donna in carriera perfetta, gentile e composta che tutti conoscono.
Forse sono io ad esagerare o può darsi che la mia immaginazione navighi un po’ troppo, ma quando mia madre si arrabbia, specialmente con me, subisce una metamorfosi fisica e caratteriale che la rende una specie di troll irascibile e pronto a sferrare colpi letali con la sua clava fatta di roccia vulcanica.
Con Melissa, naturalmente, non si arrabbia quasi mai. “Come sono orgogliosa di Melissa, è una ragazza d’oro” ripete spesso mia madre alle sue amiche, con l’aria tronfia di chi mostra una medaglia vinta ad una faticosa e difficile competizione.
Io non ho mai visto in lei questo tesoro inestimabile, anzi, io penso che sia proprio banale come persona. Non ha nulla di speciale. E’ bella e anche molto, questo è innegabile. Ma è un pregio ereditario, un fattore puramente genetico: non ha mai fatto nulla per essere carina, è nata così. Le si può riconoscere solo il fatto di aver affinato una tecnica per ammaliare e conquistare i ragazzi, ma con il suo aspetto fisico partiva già avvantaggiata.
Non ha mai avuto un rendimento scolastico eccezionale, è pigra, disordinata quanto me e le uniche doti che le si possono riconoscere sono quelle di avere una grande resistenza all’alcol e di essere una delle ragazze più astute e manipolatrici che il nostro liceo abbia mai conosciuto.
Ma è sempre e comunque un tesoro di ragazza. Mentre io sono la figlia che è continuamente e indiscutibilmente sbagliata.
Non sono vittimista, per carità, odio il vittimismo in tutte le sue svariate forme e misure. Sto solo riportando i fatti per come stanno, senza modificarli. Sono una ragazza leggermente sfortunata e sottovaluta, e questo lo capisco perfettamente.
Faccio un esempio che può essere stupido, ma rende l’idea della situazione in cui mi trovo.
Se Melissa girovagasse per casa praticamente mezza nuda nessuno le direbbe granché, Giacomo arrossirebbe per l’imbarazzo e si rifugerebbe tempo tre secondi in camera sua, la mamma le darebbe pigramente il consiglio di mettersi qualcosa di più coprente addosso e papà … Beh, forse papà le farebbe una mini-scenata, ma dopo poco più di un quarto d’ora si dimenticherebbe dell’arrabbiatura e tutto tornerebbe come prima.
Ovviamente se fossi io quella quasi del tutto svestita la storia prenderebbe una piega molto diversa. Innanzitutto la mamma non starebbe in silenzio, anzi, ingaggerebbe una lotta con mio padre per chi debba sgridarmi con più impeto e rabbia. Mio padre trapanerebbe i muri con il suo vocione e in breve tempo tutta la regione Sicilia saprebbe che sono una svergognata, un disastro e un fallimento. Giacomo non si nasconderebbe nella propria camera, non l’ho mai messo in soggezione, non mi atteggio come Melissa. Probabilmente mi guarderebbe con sguardo severo, disconoscendomi come sua sorella minore e domandandosi che genere di sgualdrine e spacciatori frequenti il sabato sera.
E poi avrebbe fatto ingresso nella discussione lei, l’unica ed inimitabile Melissa che, con fare teatrale, sarebbe scoppiata in lacrime, chiedendosi, tra singhiozzi e sussulti, come una tempesta ormonale possa trasformare una dolce bambina in una teppista dall’oggi al domani.
Sì, sarebbe all’incirca così. Forse si aggiungerebbero anche Chiara con il suo famoso sorrisetto troppo malizioso per la sua tenera età, Emilio in un’agitata crisi di pianto e le zie di mio padre che, attraverso non so quale razzo interspaziale ultra veloce, sarebbero giunte a casa nostra e, assistendo alla scena orripilate, avrebbero pregato Dio affinché mi liberasse dal Male demoniaco che mi possiede.
E la cosa non sarebbe finita lì, sarebbe continuata per settimane con punizioni così rigide e pesanti da far invidia alle dieci piaghe d’Egitto. Il tutto si sarebbe concluso al compimento dei miei trentatré anni e, giunto il momento della mia scarcerazione, i miei familiari si sarebbero accorti che sdraiato sul letto, al posto del mio corpo vivo e vegeto, c’era un cadavere già avanti nella decomposizione e sulla mia lapide avrebbero scritto “Povera ragazza morta di noia, solitudine e depressione rinchiusa per decenni in una stanza buia e puzzolente. In vita era stata un esempio per i suoi coetanei.”.
Sì, alla fine da morta sarei stata ricordata come una giovane giudiziosa, matura e via dicendo.
Ma, ehi, io sono ancora viva! Non riesco a impormi su queste digressioni chilometriche che la mia mente elabora, la mia fantasia percorre stradine impervie, scala cime altissime e attraversa a nuoto oceani interi senza fermarsi mai.
Avrò qualche disturbo psichico, qualcosa causato forse dalla disfunzione di qualche ormone che pone un limite a certi pensieri di prendere piede e di allargarsi a macchia d’olio dentro la mia testolina.
Mi ritrovai davanti alla porta del bagno e, trovandola chiusa, bussai sonoramente.
«E’ occupato» rispose la voce soffocata di Giacomo, sicuramente occupato in qualche sforzo sovrumano.
«Devi starci molto?» chiesi io implorante, conoscendo già la risposta.
«Secondo te?» rispose con un tono esasperato.
Ancora più esasperata di lui, chiesi supplice «Non puoi nemmeno passarmi il phon?».
In preda a quello che pareva uno sforzo immane, mio fratello urlò uno straziante “NOOOOOOOOO!” così lungo e sonoro che mi perforò i timpani. Arrendendomi all’evidenza, mi trascinai in camera, cercando di pensare ad un modo per asciugare in fretta la mia chioma.
Passandomi una mano sulla testa, però, mi accorsi che la cute era ormai asciutta, come anche alcuni ciuffi, ma la maggior parte delle punte erano ancora bagnate. Non sapevo come asciugare i miei ricci in tempo.
Sì, sono riccia. E anche castana. Conclusione? Odio i miei capelli. Sono una matassa ispida indomabile e impossibile da asciugare in fretta.
Irritata com’ero, non mi accorsi immediatamente che quello che stavo calpestando non era il tappeto, bensì una miriade di vestiti buttati alla rinfusa sul pavimento. L’artefice di tutto era Chiara, intenta a svaligiare l’armadio e a scartare insoddisfatta tutti gli indumenti che non rispecchiavano il suo gusto. La rabbia crebbe dentro di me ed eruttò violentemente: come un demone iniziò ad urlare, a sbavare selvaggiamente, a distruggere tutto ciò che trovava senza avere nemmeno un briciolo di rimorso. Quella tappetta aveva svuotato tutto l’armadio, scombinando anche i miei vestiti alla ricerca di un non-so-cosa che la rendesse figa e popolare.
Mi avvicinai e, non curandomi di trattenere l’ira che mi bruciava in petto, le strinsi i piccoli polsi intenti ancora a rovistare in un armadio quasi del tutto vuoto.
«Cosa vuoi? AHI, MI FAI MALE, AHI, AHI, SMETTILA, SMETTILA!».
Non volevo sentire scuse, dovevo sfogarmi in qualche modo. Quella mattinata era iniziata per il verso sbagliato ed ero assolutamente sicura che la giornata sarebbe potuto solo peggiorare, ma almeno, se dovevano sgridarmi per forza, lo avrebbero fatto con una persona pienamente colpevole. Colpevole e felice di esserlo.
Potrei sembrare una sorella maggiore tremenda, molto peggiore di quanto Melissa possa mai essere. Forse è anche vero. No, anzi, non è assolutamente vero. Non vado spesso in escandescenza, prima di dare di matto cerco sempre di contare fino a dieci, respirando profondamente e provando a radunare tutta la calma a mia disposizione. Non sono vendicativa né pianificatrice, faccio spesso finta di non badare alle cattiverie di Chiara nei miei confronti e talvolta ho anche provato a giocare con lei.
Poi, ovviamente, il mio tentativo di creare un gioco divertente ed istruttivo va in fumo quando la mia sorellina inizia a fare la capetta e a decretare ordini a tutta forza. Potrebbe essere una perfetta dittatrice, è terribile e, con le sue trovate diaboliche, incute anche paura.
Io alla sua età credevo al Topo dei Denti … Sicuramente sono stata adottata, nessuno mi assomiglia in questa gabbia di matti!
Stringendole ancora di più il polso e avvertendo un cospicuo affluimento di sangue alla testa e di adrenalina nelle vene, le sussurrai, riempiendo le mie parole di rancore, «No che non la smetto. Devi smetterla tu  a rompere sempre, a rendere la mia vita un inferno. Come hai osato? Come cavolo ti è venuto in mente di gettare in quel modo tutti quei vestiti? Ho passato un’intera giornata a riordinarli e sai - oh sì, lo sai benissimo,- quanto odio dover sistemare l’armadio. Ora li riprendi e li rimetti dentro ordinatamente e non mi interessa quanto tempo ci metterai, lo farai. E non mi interessa nemmeno se non troverai i vestiti che cerchi, sei solo una piccola vanitosa …».
L’ingresso di Melissa in camera non mi permise di completare la frase. Assistendo alla scena, corse verso di noi e, spintonandomi, avvolse Chiara in un abbraccio che non era da lei.
La piccoletta, coprendosi la faccia con le mani, scoppiò in un pianto esagerato, pieno di singhiozzi e mugolii. Mia sorella maggiore si voltò e mi trafisse con un’occhiata piena di delusione e seccatura.
Cosa voleva da me? Lei, che era stata sempre la più crudele e perfida ragazzina del quartiere, osava impartirmi una lezione di carattere morale? Di sicuro avrebbe iniziato da un momento all’altro a recitare il ruolo di sorellona apprensiva e giudiziosa, una parte che non le sia addice. I suoi occhi, però, non sembravano velati dalla finzione con cui pronuncia spesso le battute di un copione improvvisato per salvarsi le penne o per eclissare ancora di più la plebe che la circonda. Sembravano stranamente sinceri. Sicuramente turbati.
Il mio sguardo assente cadde sui polsi di mia sorella: erano rossi dove avevo serrato la presa e leggermente scuri intorno. D’un tratto la mia rabbia si alzò dal suo trono fatto di rancore e impulsività e, con un sorriso ghignante, si congedò, lasciando il posto alla vergogna e al rimorso. Mi cadde come il mondo addosso, mi sentii nuda e inutile. Ero troppo stata impulsiva, come avevo potuto sfogarmi così esageratamente con una bambina innocente?
No, disse una vocina ragionevole nella mia testa, non è del tutto innocente, pensa ai tuoi vestiti.
Sì, hai ragione, ma l’ho incolpata anche di una rabbia che non aveva scatenato lei.
Questo è vero, proseguì quella vocina che poteva appartenere solo al grillo parlante che risiede nella mia coscienza, ma non le hai fatto niente di ché dopo tutto. Ricordi cosa faceva Melissa con te quando eravate piccole?
Oh sì, certo che me lo ricordo. Come potrei dimenticare la causa principale delle mie cicatrici?  Melissa è stata per anni campionessa di scazzottamento e soffocamento in casa nostra. E io ero la sua vittima designata, come sempre. Appena la irritavo, anche leggermente, scatenava l’inferno. Non si possono nemmeno provare a contare tutte le volte in cui mi ha tirato i capelli, morso i polpacci o graffiato le braccia. Ricordo chiaramente un episodio, svoltosi quando io avevo più o meno sei anni: con una sberla, Melissa mi ha fatto cadere un canino. Era un semplice dentino da latte, ma, ogni volta che ripenso a quella giornata, è come se un leggero dolore si risvegliasse nelle mie gengive.
Queste prepotenze avevano luogo quando eravamo entrambe molto più piccole. Non che il trattamento che riserva nei miei confronti adesso sia più gradevole, ma almeno mi sono risparmiata un paio di ematomi.
Io sono parecchio più grande di Chiara e dovrei saper gestire la mia impulsività.
La vocina non ebbe niente da aggiungere, condividendo il mio ultimo pensiero. Cercai di svegliarmi dallo stato di catalessi in cui ero caduta e mi avvicinai esitante a Chiara e a Melissa.
«Le vuoi fare ancora male?» disse la maggiore delle due con fare deciso «Non hai visto che segnacci le hai lasciato sui polsi? Dovresti vergognarti!».
«Ma io … I vestiti … Lei …» balbettai io, incapace di trovare argomentazioni valide.
«Sta zitta, Giulia! Non hai scusanti, hai la bellezza di quindici anni e non puoi permetterti di comportarti come una bimbetta!».
I miei nervi non ressero e riacquistai magicamente la forza e la decisione necessaria per rispondere.
«Modera i termini, idiota! Non penso che tu abbia l’autorità per dirmi cosa possa  o non possa fare. Vorrei ricordarti che sei più grande di me solo di un anno e qualche mese!».
«Sarà pure così, ma non ho mai alzato le mani a Chiara, io.»
«Non avrai picchiato Chiara, okay, sarai anche diventata una brava ragazza agli occhi di mamma e papà, ma non me la dai a bere, sappilo, ti conosco. Non mi dimentico di quante cattiverie hai fatto a me! E vanno tutte oltre un polso un po’ arrossato! Non ho mai perso la pazienza con nessuno in questa casa, ma se lo faccio una volta, tutti  subito iniziano a guardarmi male. Siete tremendi, vi detesto!».
Non permettendole di rispondere, marciai verso il mucchio di roba scaraventata sul pavimento  e presi a caso una maglia ed un basco: avevo la certezza ormai che non sarei arrivata ad asciugarmi i capelli con il phon quella mattina, quindi l’unica cosa che mi restava era nasconderli alla furia della mamma.
Tornai velocemente indietro per prendere il cellulare, ancora sotto carica, e notai che, dietro le sue manine, Chiara non stava piangendo. Non era rossa in viso, né bagnata, non aveva gli occhi umidi e arrossati e nemmeno un po’ di moccio che usciva dal naso. Era solo una piccola attrice. Una piccola odiosa attrice che gioiva delle sofferenze altrui.
Melissa era immobile accanto a lei e teneva gli occhi fissi sul mio volto, come in attesa di sapere cosa avrei combinato da un momento all’altro. Staccai con impeto il caricabatteria dalla presa e, stringendo il cellulare tanto da farmi male, lanciai occhiate infuocate a quei due esseri orrendi con cui ero costretta a convinvere e galoppai verso la porta.
Uscendo dal “luogo del delitto”, vidi che il bagno era magicamente libero e mi ci catapultai dentro. Dopo essermi lavata i denti e il viso, un po’ dello stress accumulato quella mattina finì nello scarico con l’acqua saponata. Essendo più lucida e tranquilla, mi dedicai ad osservare cosa avevo pescato da quel marasma: la maglietta che avevo afferrato pochi minuti prima era larga e di un rosa sbiadito, con sopra stampato il logo scolorito dei KISS e il cappello era il mio basco in jeans preferito.
Quella maglietta era veramente orrenda, ma non avevo né il tempo né la voglia di rientrare in camera mia. Così mi cambiai rapidamente e, cercando minuziosamente di far entrare tutti i capelli nel berretto, lasciai la postazione a mio padre, bisognoso, più che di una rasatura, di una vera tosatura.
Con lo sguardo basso attraversai il corridoio e presi il cellulare, l’unica mia fonte di salvezza. Presi a scorrere i contatti della rubrica finché non trovai quello che stavo cercando e, alla velocità della luce, digitai sulla tastiera touch-screen “Aiuto”. Stavo pregando al Signore, sperando che avesse già acceso il telefono, quando la vibrazione mi avvisò di un nuovo messaggio.
“Gravità problema?”.
Senza pensarci, risposi “Massima”. Non ricevetti alcuna risposta per una decida di minuti, tempo durante cui rimasi seduta sul divano del salotto con in grembo lo zaino preparato la sera precedente osservando il via vai dei miei familiari che correvano per la casa ansimanti e visibilmente stressati. Lo stress è il pane quotidiano della famiglia Leonardi. Ce lo fanno assaggiare insieme al latte e ai biscotti nel biberon quando siamo appena dei poppanti e ne diventiamo praticamente dipendenti. Se non fossimo costantemente stressati, forse non potremmo essere felici.
Guardai l’orario dal telefonino e, facendo un rapido conto, capii che, se avessi aspettato un passaggio dai miei genitori, sarei arrivata sicuramente in ritardo a scuola. Ma, d’altro canto, il liceo che frequento è troppo distante da casa mia per andarci a piedi. Avevo fatto il grosso errore di ritornare a casa camminando un giorno dell’anno precedente in cui le lezioni finivano in anticipo causa assemblea sindacale: tornai a casa distrutta quasi un’ora dopo, le gambe non mi tenevano più in piedi e il sudore mi scorreva dalla nuca sul viso in stile cascate del Niagara - e tutto ciò è successo a metà febbraio. Non sono una tipa atletica, anzi, sono un’imbranata di prima categoria. Odio qualsiasi genere di sport, tranne il nuoto. In acqua me la cavo abbastanza bene, mentre sulla terra ferma … Per dirla in maniera garbata, un elefante è più agile di me e una lumaca mi batterebbe in una gara di velocità.
Stavo per rassegnarmi alla ramanzina che mi avrebbe di sicuro rifilato il professor Benedetti per il terzo ritardo in una settimana, quando mi arrivò l’sms che aspettavo.
Diceva “Esci che sono fuori”. Con un improvviso moto di contentezza, mi drizzai in piedi, misi lo zaino in spalla e urlai alla casa «Io vado, D mi accompagna a scuola, okay?». In risposta sentii qualche “sì sì, okay” di mio padre e un “va bene” da parte di mia madre.
Mi sbattei la porta d’ingresso alle spalle e, scendendo velocemente le scale del condominio, per poco non rischiai di cadere, slogandomi una caviglia. Aprendo il cancelletto d’ingresso e superando a passo spedito il parcheggio numerato dove i condomini posteggiavano i propri veicoli, la vidi.
Diana Ponti, per gli amici D, mi aspettava appoggiata al suo motorino, un aggeggio di seconda mano risalente ai tempi del cretacico che, durante l’estate, era stato accuratamente riverniciato dalla proprietaria e dalla sue migliori amiche (tra cui io). Adesso quello che era un anonimo veicolo bianco panna, era stato trasformato in un arcobaleno di macchie e schizzi colorati. Se, inizialmente, poteva sembrare pacchiano o di cattivo gusto, nell’insieme era davvero delizioso!
Quel giorno aveva deciso di riempire ogni singolo buco che aveva nel lobo destro con piccoli punti luce, che erano così tanti da poter formare una nuova galassia, e di indossare un paio di skinny jeans neri leggermente borchiati, una T-shirt rossa con lo scollo a V e le sue più vecchie e usate scarpe da tennis. Diana è una ragazza molto originale, non segue la moda, lei ne crea una propria. Talvolta riesce a formare qualcosa di veramente originale, altre volte però ne esce solo un’accozzaglia di stranezze che suscitano parecchie chiacchiere. Lei se ne frega del parere altrui e va per la sua strada, dice che parlano solo per invidia e che pagherebbero oro pur di avere un briciolo del suo stile. Questo è uno dei pregi che le invidio, la sicurezza in sé stessi o si ha o non si ha. Lei ha una grande autostima, così grande da poterla dividere in due parti,  regalarmene una metà per Natale e averne ancora più della maggior parte degli adolescenti che conosciamo.
Mi soffermai sul suo viso che si apriva in un dolce sorriso alla mia vista. I capelli cortissimi ispirati allo stile di Emma Watson in Noi Siamo Infinito le allargavano il viso smilzo e abbronzato, mettendo ancora più in evidenza il suo naso importante.
A volte può essere un peso avere un naso tanto grosso, ma lei lo ha sempre mostrato  come un vanto. Lo esibisce alla gente come segno del suo evidente carattere forte e sminuisce quei nasini piccoli ed insignificanti tanto quanto i loro padroni. La paragono spesso a Lea Michele, sia per la bellezza prorompente di entrambe, sia per il naso aquilino che condividono, sia per la forza interiore che le accomuna. Non solo la star di Glee era stata soggetta ad una grave perdita.
«’Giorno lady G, presto che se no arriviamo in ritardo a scuola!» e, mentre mi diceva queste parole, mi passò rapidamente uno dei suoi due caschi.
«Buongiorno pure a te. Posso affermare che tu mi abbia salvato, davvero.» le confessai, riconoscente, mentre mi allacciavo il casco.
«Ne sono onorata. Cosa servono le migliori amiche se non danno una mano nel momento del bisogno? Allora chi ti opprimeva stavolta? I tuoi perfidi genitori, le sorellastre cattive o i maschietti di casa?» mi chiese in sella al motorino.
Salendo a mia volta  e stringendo le braccia attorno alla sua vita sottile, risposi alla sua domanda.
«Tutti. Tutti tranne Emilio, che è troppo piccolo per farsi odiare. Ed è colpa anche mia. Detesto la mia famiglia e detesto anche una parte del mio carattere, uffa! Tutto fa schifo!».
«Dai, sei la solita esagerata! Comunque la tua maglietta è favolosa, non sapevo ti piacessero i KISS! Uno di questi giorni me la presti? Avrei un paio di anfibi porpora da abbinarci …» e iniziò a elencare tutti i suoi vestiti più strani e i suoi accessori più improbabili.
Scuotendo la testa e sorridendo, ringraziai il cielo di avermi donato un concertato di forza, allegria e grinta come migliore amica e, accompagnate dalle chiacchiere di Diana e dall’eccessivo fumo che fuoriusciva dal tubo di scarico, ronzammo a tutta birra verso il nostro liceo, sperando di essere più puntuali del solito.
 
Spazio dell’autore.
 
Salve cari lettori, come va? Spero bene. Da me il caldo è soffocante e non so con quali forze io abbia potuto scrivere questo capitolo. Ma l’ho scritto.
So benissimo che vi avevo promesso un capitolo più breve, ma il mio cervello ha partorito questo malloppone che avete appena letto dopo un’intera settimana di travaglio, quindi siate buoni e capitemi quando vi dico che ho cercato di essere più sintetica.
Io non sono una persona sintetica, non so fare i riassunti nemmeno a scuola, figurarsi quando scrivo per hobby.
Spero vivamente che questo capitolo non vi abbia annoiato. Bene, facciamo il punto della situazione.
La mattina a casa Leonardi è una specie di campo da guerra pieno di mine, in cui bisogna stare attenti a dove mettere i piedi per non saltare in aria.
In questo capitolo mi sono soffermata di più sul personaggio di Giulia, sia fisicamente che caratterialmente. Tre parole che la rappresentano? Goffa, stressata e insoddisfatta.
O pensate che siano altre le sue tre parole chiave? Scrivetemele nella recensione (sempre se vogliate lasciarmene una). Sono anche entrati in scena i genitori di Giulia, Chiara e Diana, quattro personaggi molto diversi sia per il suolo che rivestono che per il loro carattere.
Se avete letto con attenzione, Giulia dice che ha più di una migliore amica. Chi sarà l’altra ragazza che accompagnerà la nostra protagonista durante la sua storia? Giulia arriverà puntuale a scuola oppure verrà sgridata? Cosa succederà dopo?
Lo sapremo nel prossimo capitolo che, spero, mi venga in mente il più presto possibile.
Ringrazio chi mi ha lasciato una recensione nel capitolo passato e chi me ne lascerà una qui sotto. Ringrazio anche chi non ha un account su EFP, ma ha letto la mia storia. Se volete contattarmi privatamente, potete trovarmi sia su Twitter (@hermjoned) che su Tumblr (ladyvasshappenin).
Mi auguro di vedervi in tanti tra le recensioni di questo capitolo.
Ripeto: accetto sia consigli che critiche, se sono costruttive e fondate.
 
Baci xx.
 

Capitolo revisionato da   ninaown  .

 
   
 
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