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Autore: Lakshmi    14/08/2013    0 recensioni
Nella città di Syrako regna la pace. Ognuno ha il suo posto nella società, identificato da un voto da 1 a 10. Si guadagnano e perdono punti per diligenza sul lavoro, puntualità, educazione. Dalla città di Syrako non si può uscire e le zone di residenza sono rigidamente divise fra gli strati sociali. Anche al liceo Chimera i rapporti fra i ragazzi sono rigidamente divisi. Max fa parte del gruppo dei Meno Cinque. Mentre il gruppo si dibatte nei problemi di fine corso, tra cui recuperare la media e organizzarsi per la festa di fine anno, qualcuno mette in dubbio il Sistema governato dalle regole dei saggi Onnipotenti. Verranno scoperti numerosi scheletri negli armadi dei rispettivi genitori, fra cui l'orrendo crimine di aver tentato di uscire dalla città insieme ai Portatori di spirito, una tribù che abita le montagne e ogni sei anni entra a Syrako per commerciare i propri prodotti. Max penetrerà nei segreti di un sistema che pare fondato su bugie e reticenze, dove un ristretto numero di famiglie ha in mano il governo e il destino di tutti, la gente sparisce senza lasciare traccia e ogni cosa gira attorno a una misteriosa bellissima e pericolosa rosa.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I

 

“Anime gemelle”

Ho detto ridendo

E tu, seria

“Creature di sogno.

Null’altro, insieme”.

Levante

 

Fu un intenso profumo di fiori a svegliarlo, insieme al calore del sole sul viso e a una voce femminile che continuava spazientita a urlare un nome: Max, il suo. Aprì gli occhi e si accorse di essere disteso su prato, all’ombra di una maestosa quercia. Guardò in alto e, tra il fogliame, vide un magnifico cielo azzurro.

Qualcosa, a un tratto, offuscò la luce.  Sara era china su di lui e gli urlava qualcosa come“ è’ tardissimo” e “ti sei addormentato durante la lezione”.

Portò le mani agli occhi che stropicciò, poi si tirò su a sedere guardando in volto la bella fanciulla che osava disturbare i suoi riposi mattutini.

“Non hai ancora capito che sono già andati tutti via e che se la professoressa Rumpa non ci trova in classe, ci tocca pulire i bagni?”

“E tu, perché sei ancora qui”?  Biascicò, sbadigliando.

“Forse hai scordato, bello addormentato, che oggi sono la responsabile della classe”.

“Ah è così? Mi ero illuso che aspettarmi potesse essere stato un atto caritatevole,” sospirò. “Comunque, ammetto che è stato un piacevolissimo risveglio, per poco non mi hai spaccato i timpani”.

Max  si stiracchiò e, con tutta calma, tese la mano a Sara che impaziente lo invitava ad alzarsi. Quella mano era tiepida e piccola nella sua e, non appena fu saldo su entrambi i piedi, guardò meglio colei che gli stava di fronte. In fondo non era male. Nella leggera veste bianca, divisa dell’istituto scolastico che frequentavano, Sara era ben proporzionata, sebbene non molto alta e con lunghi e morbidi capelli biondi che le ricadevano sulle spalle. Notò in un angolo della spalla destra un piccolo tatuaggio a forma di fiore stilizzato.

“Chissà cosa rappresenta…” Fu tentato di chiederglielo, ma resistette nel notare l’aria indispettita di quel volto dall’ovale perfetto. Gli occhi, più blu di quel magnifico cielo e pieni di luce, lo guardavano fissi e  canzonatori. Nonostante fosse ancora un po’ stordito si rese conto che attardarsi ulteriormente avrebbe creato solo problemi. La realtà cominciava a delinearsi meglio nella mente, fin nei minimi particolari, tra cui il fatto che lui e quella ragazza non erano proprio amici. Quella gita, inoltre, organizzata per raccogliere alcuni vegetali utili a certi esperimenti che stavano conducendo in classe, non lo interessava minimamente, se non  per  verificare la morbidezza di un manto erboso su cui riposare le stanche membra. Cullato da tiepidi raggi di un sole quasi estivo, infatti, il sonno non aveva tardato molto ad arrivare e con esso i suoi strani sogni.

 “Beh, in fondo è stato meglio così. Non erano sogni tanto piacevoli. Non ricordo molto, se non di trovarmi in un luogo sconosciuto, sconfinato. C’erano freddo e buio, grida e sangue ovunque. Se non sapessi che non esiste più da tantissimi anni e che mai potrà tornare, potrei affermare di essermi trovato in mezzo a una guerra. Ti rendi conto? E’ pazzesco, ma devo avere un fondo di malvagità per immaginare tali atrocità.” Concluse, pensieroso. 

“Beh, diciamo una mente deviata”, soggiunse Sara scettica ed esortandolo a incamminarsi. Lui la seguì, guardandola dirigersi verso l’edificio scolastico, sicura di sé.

“Carina, non c'è che dire, ma pur sempre una Perfetta” rimuginò. Per associazione di idee pensò a Federico, il suo ragazzo, anch'egli un Perfetto. “Belli, ricchi e snob. Mah!”

  “Muoviti, non posso rischiare che il mio punteggio si abbassi. Capisco che a te non importi, ma a me sì.”

“Guarda che il mio non è poi così basso.”

“Quattro?”

“No, quasi cinque”.

“Non replico, è meglio. Spero soltanto per te che tu possa arrivare sul serio a quel cinque entro l'anno, altrimenti addio diploma”. L'aveva vista scuotere la testa e inarcare le sopracciglia e si era sentito vagamente colpevole.

Non aveva mai sopportato quella stupida numerazione data ai ragazzi fin dai primi giorni di scuola. Soprattutto perché non si basava solo sul rendimento scolastico, bensì su tutto ciò che ognuno di loro era e faceva al di fuori. Il comportamento in società, le amicizie frequentate, persino la posizione sociale dei genitori. Guardò di sfuggita Sara. Certo che un numero quattro non era ben visto da una numero nove, futura dieci, qual era lei . Inoltre, anche se si fosse seriamente impegnato, non avrebbe mai potuto aspirare a qualcosa in più del numero cinque, in quanto i suoi genitori erano semplici scrivani impiegati entrambi all’Ufficio Centrale per la Corrispondenza. Per ciò che riguardava il comportamento e le compagnie frequentate, beh, diciamo che il suo gruppo non brillava, formato com’era da ragazzi messi giornalmente in punizione e richiamati almeno due – tre volte al giorno dal monitor domestico. Sorrise pensando ai suoi amici, a come stava bene in loro compagnia e rifletté sul fatto che, in fondo, non se la passava mica male

 “Me ne infischio del punteggio”, borbottò.

Giunti in prossimità dell’enorme edificio in pietra che si ergeva maestoso in cima alla collina accelerarono il passo. Al di fuori sembrava non esserci anima viva. Sara sentenziò che era un brutto segno, in quanto significava che tutti erano già in aula, così cominciò a correre, seguita malvolentieri da Max che avrebbe preferito deviare a destra, sostando al chiosco del “Rosso”. Addormentandosi, aveva difatti saltato l’ora di pranzo. Sapeva che il chiosco riforniva i ragazzi durante la pausa di metà mattina e che lì avrebbe trovato una vasta scelta di bibite e panini. Sebbene fosse già trascorsa da un bel pezzo non solo la pausa di metà mattina ma anche l’ora di pranzo, il burbero signore di mezza età dalla zazzera rossa che lo gestiva e di cui nessuno sapeva niente, gli avrebbe venduto qualunque cosa.

Purtroppo, il tentativo di deviare fu stroncato sul nascere dalla ragazza che lo afferrò per la camicia e lo spinse con forza attraverso il cancello da cui si accedeva all’aria verde antistante la scuola: un rigoglioso parco ricco di siepi, fiori e alberi secolari, dove tutto era ben ordinato e curato, grazie al signor Cemento, il giardiniere della scuola. Max si guardò curioso intorno credendo di vederlo sbucare improvvisamente da dietro una siepe. Infatti era sempre da qualche parte a sistemare un vaso, interrare una pianta o potare qualche rosa. In qualunque momento del giorno era lì, indaffarato a fare qualcosa ma sempre attento a tutto ciò che avveniva intorno. Gli avevano anche dato il soprannome Centralino per il fatto che sapeva sempre tutto di tutti e, a volte, anche prima degli interessati.

Giunti davanti la gradinata si trovarono di fronte i due leoni in pietra con le fauci spalancate ed enormi zanne, piuttosto mal fatti, che concludevano l’atmosfera ridente del parco e preannunciavano quella tetra dell’edificio. Mentre entravano nell’atrio, Max udì tristemente il borbottio del suo stomaco vuoto rassegnarsi al digiuno.

La signorina Piselli, la segretaria, li guardò contrariata dalla scrivania. “Dunque?” Chiese con voce acuta, sistemandosi gli occhiali sul naso.

Sara si fece avanti. “Siamo desolati per il ritardo, abbiamo avuto un contrattempo.”

L’altra sorrise, comprensiva. “Capisco. Sono cose che possono capitare.”

I due tirarono un sospiro di sollievo.

“Però…”

Si voltarono di scatto, sorpresi dall’obiezione della segretaria che prolungò indecisa la sua affermazione senza disporsi a concluderla. “Però…che?” Sbuffò Max.

“Però vi devo accompagnare lo stesso dal preside, è mio dovere.” Terminò, senza togliersi dalla faccia quel sorriso condiscendente.

Entrambi cercarono di protestare ma lei non diede loro il tempo e continuò, fissandoli dritto negli occhi. “Sapete bene che è mio compito far sì che le regole d’ingresso e uscita dalla scuola siano strettamente osservate. Inoltre, devo fare attenzione che non ci siano infrazioni alla morale e alla condotta previste da questo Istituto.” Li esaminò da capo a piedi. “Che devono essere opportune e irreprensibili.”

Sara, dopo aver ascoltato con pazienza la donna, sbottò. “Signorina, mi sono solo slogata una caviglia e il mio amico mi ha aiutato. Ci è voluto un po’ a percorrere il tragitto fino a scuola. Non vorrà mica fare perdere del tempo prezioso al preside per un’inezia del genere?”

Lei li osservò meglio concentrando l’attenzione su  Sara. “Tu sei una numero nove, vero?” E, al cenno di assenso della ragazza, tossì, pensierosa. “Beh, forse posso soprassedere, per questa volta.” Tossì ancora. “Che non succeda più. Non è certo una bella cosa vedere un ragazzo e una ragazza, soli, entrare a scuola in ritardo.” Abbassò il tono di voce e le si avvicinò attraverso la scrivania. “Chissà cosa si potrebbe pensare di voi!” Si voltò e continuò a scarabocchiare qualcosa in un foglio, senza più degnarli di attenzione. I due si affrettarono ad allontanarsi.

“Non credevo fossi così brava a inventare scuse.” Max lo disse sottovoce, accostandosi a lei.

Sara lo guardò con un’espressione di rimprovero, senza rispondere e facendogli cenno di affrettarsi.

Trascorsero almeno altri cinque minuti prima che, accompagnati dall’eco dei loro passi, ebbero attraversato stanze, androni e corridoi dagli altissimi soffitti a volta, per giungere  a una botola  attraverso cui si accedeva a un cunicolo terminante in un largo spazio ricavato nella roccia. Si trattava di una stanza sotterranea, adibita ad aula di biologia, fisica e chimica.

“Un posto appartato e sicuro”, era solita ribadire la professoressa di biologia. In realtà, Max era consapevole che quella sistemazione era stata studiata affinché i vari esperimenti che lì si tenevano non avessero alcuna ripercussione sul resto dell’edificio o potessero disturbare le altre lezioni. Infatti, le esplosioni o le dispersioni di gas solo un poco tossici o l’allevamento di specie vegetali e animali geneticamente modificati (di cui a volte si perdeva traccia…), erano all’ordine del giorno. Inoltre, secondo l’opinione degli odiosi Perfetti, il pericolo aumentava se a condurre i vari esperimenti c’era gente imbranata come la compagnia dei “Meno Cinque”, soprannome affibbiato dai “Perfetti” a Max e ai suoi amici: Karim, Zeila, Tambroon e Milo.

Non appena i due entrarono, furono investiti da un insopportabile puzzo di uova marce e da vent’otto paia d’occhi fissi su di loro e sulla professoressa che, girata verso il tavolo sul quale rimescolava qualcosa, non si era accorta del loro ingresso.  Lo fece subito dopo, non appena il singolare silenzio che calò sull’aula ne attirò l’attenzione. Si voltò e, con la bacchetta che stava usando per mescolare la pozione, ancora gocciolante di un qualcosa di viscido e verdastro e da cui proveniva l’odore nauseabondo, si aggiustò gli occhiali sul naso. Strinse gli occhi per focalizzare meglio le due figure impacciate che si erano bloccate sulla porta d’ingresso. Dopo qualche colpo di tosse e, aver abbozzato un sorriso, si rivolse al solo Max.

“Bene, bene, bene. Vedo che il signore ci ha degnati finalmente della sua presenza”. La professoressa fece una pausa, quasi stesse riflettendo su qualcosa, poi continuò, scandendo bene le parole. “Arriva giusto in tempo per dirci che cosa ne facciamo adesso di questo decotto che, come ben sa, abbiamo ottenuto filtrando insieme Gatula Limpida e Fineum Vulgare”. E, melliflua: “Ricorda vero, quelle due piccole pianticelle, una verde e l’altra rossa, che abbiamo colto questa mattina?” Incalzò, con tono improvvisamente duro. “Quando lei, con meticolosa attenzione, strofinava dell’ortica sulle orecchie del povero sig. Gasper?” E, senza concedere il benché minimo spazio ai tentativi del poveretto di abbozzare una scusa, scandendo ogni singola sillaba, in un crescendo spaventoso, urlò: “Non crede che sia almeno suo dovere scusarsi per questo ingiustificato ritardo? Lei è un incapace, un sovversivo, uno scansafatiche che non arriverà mai a nulla.” Inspirò rumorosamente, cercando di calmarsi. “Ed è per questo”, concluse soddisfatta, “che oggi, finite le lezioni, andrà in punizione. Potrà rendersi utile lavando i bagni di tutto il primo piano!”

Schizzi di pozione verdastra e puzzolente erano sparsi tutto intorno e lo scialle nero, che era solita portare per difendersi dalle correnti d’aria, le era scivolato a terra, tanto era il tremore causato dalla sfuriata. Max era rimasto immobile davanti l’ingresso allorché, prontamente, fu tirato per la manica da Zeila che lo fece sedere con lei nel banco. Sara, rossa in volto, raccolse lo scialle della professoressa profondendosi in mille scuse poi, ammutolita, sedette vicino Federico, al primo banco.

“Capisco che non è stata colpa sua, Sara, anche i migliori possono avere problemi con tali elementi”. La voce si era addolcita. “Lei è ancora giovane, lo comprendo, tuttavia deve abituarsi a trattare con questa gente nel modo più opportuno, poiché da adulta è destinata a grandi cose”. Tirò un sospiro. “Con l’invidiabile posizione sociale che si ritrova, avrà impegni, amicizie e contatti di un certo livello, non vorrà certo avere inutili esitazioni con la, ehm, gestione della servitù, no?”

Ricompostasi, la Rumpa si aggirava adesso tra i banchi, parlando con sussiego e colpendo ogni tanto con la bacchetta certi elementi. “Ci vuole mano ferma, carattere, decisione. Bisogna far capire chi comanda, la superiorità, cari ragazzi, è un talento. Prendete esempio dal caro signor Federico, lui sì che farà strada, lui che è l’orgoglio, il fiore all’occhiello della nostra scuola, che dico, della nostra intera cittadinanza!”

“Con il padre Delegato che finanzia la scuola e la maggior parte degli stupidi e insulsi esperimenti della Rumpa…” Zeila si era rivolta sotto voce a Max, ma era stata udita anche da Tambroon, che rise un po’ troppo rumorosamente.

“Zitti! Silenzio ho detto! Adesso il nostro caro Federico ci aiuterà gentilmente a portare a termine il nostro piccolo esperimento, sempre che ne abbia voglia e se non ci saranno ulteriori interruzioni, s’intende” e guardò di sbieco Max.

Federico che, tra il bianco delle trenta divise scolastiche, si distingueva per il blu della sua camicia, onore elargito unicamente ai numeri dieci (tre in tutta la scuola), si alzò immediatamente, anche se non sembrava averne molta di voglia. L’altezza di Federico faceva risaltare la bassezza della professoressa e il fisico asciutto e visibilmente ben allenato, quell’altro incurvato e attempato. Gli occhi, così come i folti capelli, erano di un castano luminoso, l’espressione tra l’annoiato e lo spregiante. Tuttavia, con sorriso forzato e accondiscendente, si avvicinò al tavolo dove la professoressa lo attendeva visibilmente eccitata. Afferrò un cucchiaio dal tavolo snobbando la bacchetta che prontamente la professoressa gli porgeva e diede una superficiale mescolata all’intruglio verdastro.

“Questo decotto dovrebbe servire, cominciò Federico, soffermandosi un po’ troppo sul condizionale, “quale tonificante naturale, ovvero come una sorta di fertilizzante potenziato, a rinvigorire certe specie viventi, grazie alla sua composizione geneticamente modificata, tra cui un’alta percentuale in ferro, potassio, magnesio e rubinia, in fattispecie raro elemento di colore rosso acceso contenuto solo e unicamente nella Fineum Vulgare raccolta questa mattina. Con ciò, credo, gentilissima professoressa, che lei possa continuare benissimo da sola”. Federico, senza attendere replica, sedette al suo posto, abbozzando un sorriso in direzione dell’insegnante che, basita, interruppe improvvisamente di grattarsi la testa con la bacchetta, lasciando in aria i pochi capelli colorati biondo mal riuscito e  facendo fatica a mascherare la delusione. I suoi esperimenti erano per lei ciò che di più importante poteva esserci al mondo e le dispiaceva che non fossero apprezzati dal rampollo della massima autorità cittadina che era anche il suo unico grande sostenitore e che, oltretutto, ricambiava elargendo al figlio ottimi voti. Pienamente meritati, s’intende.

 Deglutì debolmente, alzandosi e ringraziando la seppur concisa ma esatta relazione e balbettando che certo, adesso sì, poteva continuare lei, che era riconoscente dell’onore che lui le lasciava nell’illustrare un esperimento di così enorme utilità.

“Premetto che questo speciale decotto va utilizzato entro le tre ore dalla preparazione, pena la volatilizzazione del principio attivo più importante e dunque la sua quasi totale inefficacia. Inoltre, e con ciò non voglio certo sminuire la perfetta introduzione del signor Federico”, continuò ossequiosa, “si tratta di una pozione che io ho definito della giovinezza, in quanto non solo rinvigorisce, ma ringiovanisce la specie sulla quale viene versata”.

Un oh di meraviglia si diffuse, per la prima volta da quanto la Rumpa insegnava, tra gli allievi, incuriositi da una tale rivelazione. Anche coloro che discutevano tranquillamente di cento altre cose, si fecero più attenti.

Edwige Rumpa deglutì. Guardò negli occhi i suoi studenti, consapevole che in trentacinque anni di carriera, sebbene avesse sempre cercato di dare il massimo nell’insegnamento, non era mai riuscita ad avere né il loro rispetto  né quello dei colleghi. Per questo si era buttata anima e corpo nella ricerca, sperando potesse, prima o poi, ripagarla di tante umiliazioni subite. L’auspicio era di giungere a una scoperta talmente importante che le consacrasse le tanto desiderate considerazione e celebrità e adesso era giunto il momento. Sarebbero finalmente terminati gli scherni dei ragazzi, il sarcasmo degli altri professori, la pietà di chi la considerava una fallita. Avrebbe avuto la sua grande rivalsa, una degna reputazione anche tra le classi più ambienti e con essa, sperava, un po’ di agiatezza. E, finalmente, la sua meritata pensione.

L’espressione sognante di orgoglio e soddisfazione dipinta sul volto della professoressa contrastava con quella d’incredulità e stupore degli studenti e tanta era la contentezza che provava nel vedere le loro facce meravigliate, che fu persino gentile nel rispondere alle loro incessanti domande.

“Oh ma che cari, competenti e studiosi ragazzi, tutti desiderosi di apprendere! L’ho sempre detto io che il talento prima o poi viene fuori. Farete strada, ascoltate la vostra professoressa, bravi tutti i miei allievi, la migliore classe che abbia mai avuto!”. Mentre la Rumpa si prodigava in mille e più complimenti, aggirandosi tra un banco e l’altro, Zeila e Max si guardavano l’un l’altro stupefatti, non potendo credere a ciò che udivano.

“Ora vediamo insieme una pratica applicazione”. Impettita, si diresse verso uno scaffale posto a debita distanza dai banchi, sul quale erano posizionate decine di vasi con differenti specie vegetali e relative etichette identificative. Sistemandosi meglio gli occhiali sul naso cominciò a guardare e frugare sul secondo ripiano. Non trovando quel che cercava si diresse al terzo, mettendo in funzione anche l’olfatto e borbottando  fra sé. Nel frattempo, la classe si era tutta radunata alle spalle della professoressa, in attesa di vedere quale, di quelle stranissime piante, avrebbe tirato fuori. Dopo aver frugato inutilmente si arrampicò al quarto ripiano, non prima però d'indossare un paio di guanti e degli occhiali protettivi. Quello era, infatti, il ripiano delle piante velenose e acuminate, con le quali la prudenza non era mai troppa. Possibile che era finita là in mezzo? I ragazzi stavolta si erano spostati, guardandosi bene dal rimanere nel raggio d’azione possibile di una di quelle terribili piante. Era rimasto infatti ricordo comune, l’incidente verificatosi l’anno precedente a una loro compagna, Lisa, la quale, incurante delle elementari misure di sicurezza, aveva appena sfiorato una foglia della Splendida Violacea. Stecchita, all’istante.

Con i guanti protettivi carichi di velenosissime spine, tossine e pollini allergizzanti, la Rumpa tirò fuori un piccolo vaso di terracotta, coperto da una campana di vetro blu sotto la quale s’intravedeva un qualcosa di appassito. Alzata la campana l’aspetto della pianta non mutò molto: poche foglie brune e un sottile stelo rinsecchito che dava appena un lontano segno di vita in qualche striatura verdastra alla base. La sistemò al centro del tavolo, in modo tale tutti potessero seguire agevolmente gli eventi che si sarebbero succeduti e, quasi volesse creare attesa per far durare di più quel momento, si piazzò a lato del vaso, immobile, fissando a lungo e in silenzio, uno per uno, gli studenti, infine si decise a parlare.

“Milo, tesoro, passami per favore il decotto sul tavolo”, chiese dolcemente. Milo, abituato alle urla della professoressa e a un’altra tipologia di epiteti a lui indirizzati, rimase interdetto, continuando a guardarsi indietro, nella possibilità che la Rumpa stesse rivolgendosi a qualcun altro.

“Milo!” La voce era tornata gracchiante. “Ti ho detto di passarmi il decotto, imbranato!” Milo riconobbe la professoressa e il reale destinatario della perentoria richiesta e, rassicurato, si alzò avvicinandosi al tavolo con la sua tipica andatura dinoccolata. Max lo osservava. Sapeva benissimo che quell’aria ingenua e quell’atteggiamento remissivo e un po’ sbadato nascondevano una forte personalità. Il ragazzo afferrò il recipiente e si diresse verso la prof che lo attendeva con le braccia protese. Poi, tutto successe in pochi attimi. Non vide lo zaino di Clara sporgere dal terzo banco e vi inciampò, scivolando in avanti. Il decotto volò in aria seguito dalla Rumpa che si tuffò, immediatamente, per recuperarlo. Nel frattempo, Gasper si protese anch’egli in avanti cercando di rendersi utile ma, calcolate male le distanze, finì addosso alla professoressa che cadde a terra con un gran tonfo. Afflitta e dolorante, costei si voltò per verificare la perdita di tutti quei mesi di duro lavoro ma ciò che vide le fece tornare il sorriso: il recipiente era caduto dritto e senza versarsi sul banco di Max che, agguantatolo, glielo porgeva adesso sorridente.

Edwige Rumpa non stava più in sé dalla gioia, si gettò al collo del ragazzo e lo abbracciò così forte da farlo quasi soffocare. Il poverino, con gli occhi spalancati, non sapeva che dire e le batteva timidamente una mano sulla spalla.

“Mio salvatore, mio eroe”, gli urlò nelle orecchie. “Con questo altruistico atto mi ridai la vita!” E, gonfiando il petto, “altro che perdigiorno! Ovviamente, dimenticati la punizione di oggi e considerati ufficialmente promosso nella mia materia. Anzi, sai che faccio?” Aggiunse, dirigendosi verso il registro, “ti metto subito un bel cinque tondo tondo. Te lo meriti!” Concluse, soddisfatta. “Inoltre, tuo sarà l’onore di versare la pozione sulla nostra pianticella di cui per adesso non voglio svelarvi l’identità. Vieni, avvicinati a me, gioia del mio cuore!”

Max, con le spalle curve e titubante si avvicinò alla professoressa, portando il decotto. Al cenno di quest’ultima versò lentamente il liquido nel vaso di terracotta, distribuendolo con il cucchiaio, poi come tutti, si mise a osservare attentamente la pianta rinsecchita. Trascorsero cinque minuti abbondanti e non avvenne nessun cambiamento, i ragazzi si guardavano l’un l’altro, mentre la professoressa fremeva dall’impazienza. A un tratto, una leggera nuvoletta di fumo si alzò dalla base della piantina e in pochi secondi l’avvolse. Il fumo era spesso e grigio e non si riusciva a distinguere più nulla. Milo fece cenno di infilare il dito nella spessa coltre ma la professoressa lo fermò all’istante, intimandogli pene capitali. Anche Federico si alzò dal suo posto e, vinto dalla curiosità, si fece spazio fino a piazzarsi in prima fila, ponendosi senza troppi riguardi davanti a Max.

“Bene. Ora Federico prendi un po’ d’acqua e nebulizza la pianta, per favore”. Chiese con occhi riconoscenti la professoressa, già dimentica del suo dichiarato amore per Max.

Quello fece come gli era stato detto e, all'istante, il fumo cominciò a sparire, ritirandosi fin alle radici. Ciò che apparve agli occhi degli astanti fu a dir poco sorprendente. Al posto della pianta rinsecchita di prima faceva bella mostra di sé una stupenda rosa rossa, la più bella che Max avesse mai visto.

La pianta troneggiava alta e fiera nel piccolo vaso. La corolla era almeno il triplo del normale, i petali di un rosso caldo e brillante sui quali la luce si rifletteva creando innumerevoli sfumature, lo stelo dritto ed elegante con le foglie seghettate di un verde vivo. Ma ciò che colpiva più di ogni cosa era il profumo inebriante che diffondeva intorno. Forte e persistente, dolcissimo e armonioso, sapeva di aria, sole, colori, vento e di tutti i fiori del creato. Niente di simile poteva paragonarsi a un tale profumo, che inebriava e stregava, e nulla era simile a una tale bellezza, che riusciva a sedurre anche i più duri di cuore.

“Ragazzi, vi presento la bellissima e, piuttosto rara, Rosa Excelsa”, annunciò con orgoglio Edwige Rumpa, “ovvero, la rosa perfetta che, come ben saprete, è il simbolo della nostra splendida città”.

“Ne ho sempre sentito parlare come del fiore più bello che fosse mai esistito”. Zeila non riusciva a staccare gli occhi dalla rosa. “Ma credevo fosse una leggenda. Visto dal vivo è splendido, al di là di qualunque immaginazione”.

Max annuì. Lui non era mai stato il tipo dalle facili emozioni o un amante dell’arte, ma in quel momento si sentiva totalmente rapito da una tale bellezza. Per un po’ non riuscì a distogliere lo sguardo, poi fu tentato di voltarsi in direzione di Sara. La vide, come tutti intenta ad ammirare la rosa perfetta, con le lacrime agli occhi. Federico le stava a lato, con la bocca aperta. Max continuò a guardarsi intorno, tutti erano incantati. Nessuno riusciva a distogliere la propria attenzione da quella pianta. Tutto ciò non sembrava normale. Si accorse che soltanto Milo era voltato dal lato opposto e fissava fuori dalla finestra. Tentò di osservarlo meglio e s’avvide che aveva uno sguardo triste e sperduto. Era l’unico, insieme a se stesso e alla professoressa, la quale inforcava un paio di strani occhiali blu, a non subire il fascino ipnotico di quella strana e meravigliosa pianta. Max si accostò al tavolo e cercò di osservarla con più attenzione. Nonostante il forte fascino che irradiava, riuscì a rimanere lucido. Riconobbe che meritava davvero quel nome: era una rosa senza alcuna imperfezione, nel vero senso della parola. Nessuna macchiolina, nessuna foglia neanche leggermente accartocciata, nessun parassita, nessun petalo irregolare. Poteva esistere al mondo una creatura talmente perfetta? Una creatura talmente perfetta e reale? Di una cosa comunque era certo: nessuno al mondo avrebbe mai potuto imitare una tale magnificenza. Per un attimo fu tentato di toccarla,  avvicinò le dita quasi a sfiorarla, avvertendo l’irresistibile potere di attrazione che emanava, quando, fu bloccato dalla professoressa che lo fulminò con lo sguardo. Ella afferrò prontamente la campana di vetro e, senza indugio, ve la richiuse dentro.

“Non so davvero come hai fatto, anche se conoscendo la tua insensibilità me lo dovevo aspettare, ma scoprirò comunque com’è che non subisci la sua influenza. E non provare mai, e quando dico mai vuol dire mai, a toccarla, per nessun motivo!” La Rumpa aveva un atteggiamento davvero inconsueto. Non era arrabbiata o isterica come di solito, era solo enormemente seria e sembrava anche spaventata. Il tono, perentorio, non ammetteva repliche. Max avrebbe voluto chiedere spiegazioni ma, data un’occhiata all’espressione della professoressa, pensò fosse meglio soprassedere. Si scusò e tornò al suo banco, notando come tutti, nel frattempo, avessero iniziato a riprendersi.

La Rumpa, tornata in cattedra, bacchetta alla mano,  sorrideva ora compiaciuta alla classe. “L’esperimento è riuscito. Come avete potuto costatare ciò che era un secco rametto è tornata a essere una meravigliosa pianta”. Si guardò intorno: gli sguardi di ammirazione che leggeva sui volti la mandavano in uno stato di esaltazione.

“Ebbene, ragazzi, non siate timidi, volete farmi qualche domanda su come sono pervenuta a una tale scoperta? Volete apprendere le necessarie nozioni e i vari e difficilissimi passaggi che ho dovuto seguire? Conoscere e assimilare tutti i componenti necessari al raggiungimento della mia pozione perfetta e penetrare a fondo i segreti su come amalgamare correttamente i principi attivi e quali debbano essere i tempi di…”, ma fu interrotta prontamente da Carla, una brunetta occhialuta del primo banco, che alzò la mano.

“Sì, chiedi pure, tesoro”.

“Ecco, io desideravo sapere qualcosa in più su quella meravigliosa rosa”.

“Beh, ve l’ho detto, trattasi della ‘Rosa Excelsa”, una rara specie che ho ritrovato dimenticata nello scaffale delle piante da laboratorio. L’avevo adocchiato qualche mese fa, era già appassita, ma non sospettavo fosse finita nel ripiano delle piante pericolose. Ora, però, chiedimi pure della mia pozione”. La professoressa aveva risposto in fretta e adesso attendeva, con una certa impazienza, che le facessero le domande che si aspettava.

“Veramente noi volevamo sapere il motivo per cui è considerata il simbolo della nostra città, il perché è così rara e come fa a essere talmente bella e profumata”, esclamò Zeila, con slancio e tutto in un fiato, agitando la sua bella capigliatura e infastidita che la professoressa si limitasse a poche e vaghe spiegazioni su quel magnifico fiore. La professoressa ne fu turbata, tuttavia rispose rassegnata.

“Mai nella storia del nostro mondo è esistito qualcosa di talmente bello come la Rosa Excelsa e di perfetto. Quindi, cosa meglio di essa può rappresentare la nostra città? Nella nostra collettività, in cui ogni singola cosa, ogni singolo essere vivente è parte di un ingranaggio senza alcun difetto, perfettamente funzionante, nulla è lasciato al caso, persino le controversie sono risolte nel migliore e indolore dei modi”. E, ammiccando verso Federico, “questo lo sa bene il nostro capoclasse, vero gioia? Con il papà che lavora ogni giorno per il bene di tutti noi, affinché possiamo vivere in pace e tranquillità.” Poi, continuando, rivolta all’intera classe. “Tutti noi, dal più basso al più in alto della scala sociale siamo chiamati a essere utili perché l’equilibrio non venga mai meno, affinché la nostra società sia sempre efficiente, attiva  e armoniosa”.

Nonostante la delusione nel non vedere più i suoi studenti interessati alla sua scoperta, Edwige Rumpa era contenta di poter declamare i meriti della città di Syrako e del suo benefattore.

“La rarità del fiore è poi cosa ben nota. Tutti noi ne abbiamo sentito parlare, pochi hanno avuto la fortuna, come voi oggi, in questo memorabile giorno, di poterla ammirare. Si dice fiorisca una volta l’anno per un intero mese e vi siano pochissime piante, tra cui la pianta madre che, si mormora, è affidata esclusivamente alle cure dei nostri carissimi e illustrissimi ‘Saggi’. Ma sono solo voci”. La prof cercava di concludere, desiderosa di riportare la classe al suo argomento privilegiato.

“E comunque, per oggi, abbiamo discusso a sufficienza. Ora, se aprite i quaderni, cominciamo a scrivere la formula del decotto Edwige che, ovviamente, prende il nome dalla sua creatrice”, aggiunse, schermendosi.

“Non ci ha nemmeno detto perché la Rosa Excelsa è protetta da quella campana di vetro blu”, Zeila tentò di insistere.

“E perché tutti sembravano ipnotizzati nell’osservarla”, Max si unì alla sua compagna nel provare a ottenere una qualche risposta a ciò a cui aveva assistito poco prima;  Zeila però si voltò, fissandolo interrogativa.

“Ora basta! Vi ho detto che va bene così. Aprite i quaderni o ve ne faccio pentire amaramente. Ingrati e ignoranti! A tutti una sfilza di due sul registro!” Con la mano che tremava, la Rumpa minacciava la stesura di quegli orribili segni.

Ma, proprio in quel momento, il rintocco dell’enorme orologio a pendolo posto all’ingresso della scuola e udibile in tutto l’edificio e oltre, ricordò a tutti che anche quell’ultima ora di lezione era finita e che i ragazzi erano liberi di tornare a casa. Come prevedibile, vi fu un putiferio generale. Istantaneamente gli studenti, con zaini e giacche già in spalla, si ammassarono alla porta d’ingresso dell’aula sotterranea e, subito dopo, trenta paia di gambe e braccia si catapultarono nei corridoi, lasciando una Rumpa esterrefatta, con la bacchetta ancora alzata e lo sguardo sconsolato.

  
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