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Autore: Soe Mame    18/08/2013    2 recensioni
Si dice che, nella notte tra il 31 Ottobre e l'1 Novembre, la linea che divide il mondo dei vivi e quello degli spiriti si assottigli.
Si dice che, se metti davanti alla tua casa una zucca dall'aspetto mostruoso con dentro una candela, potrai scacciare gli spiriti maligni che vagano nell'oscurità.
Si dice che Jack O' Lantern regni nella notte di Halloween.
[99% strettamente ispirata a Sadistic Pumpkin, di Rin&Len]
Genere: Sentimentale, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kaito Shion, Len Kagamine, Rin Kagamine | Coppie: Len/Rin
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

. DO .



Mancava soltanto un giorno - o meglio, una sola notte - alla tanto attesa Notte di Ognissanti.
L'intera città - e, probabilmente, l'Irlanda intera - era in subbuglio da settimane: cucitura dei costumi, preparazione dei dolci più disparati, ideazione di qualche scherzetto innocente da rifilare agli avari di dolcetti, costruzione e ritaglio dei festoni e delle statuette, tutto rapido e febbrile, quasi ci fosse pericolo di non riuscire a portare a termine i preparativi entro il 31 Ottobre.
Ovviamente, ogni cosa era perfettamente pronta ed utilizzabile già da minimo una settimana prima della notte tanto attesa.
Si riguardava, si ripensava, si modificava, si combinavano pasticci, si cercava di risistemare alla bell'e meglio, ma, in fondo, ci si divertiva.
L'istituto, da brava comunità irlandese, aveva un'opinione altissima di Halloween: era una tradizione antichissima, che affondava le sue radici nella loro cultura; in quanto tale, dovevano portarla avanti con nobilità ed orgoglio.
Róisín riuscì a soffocare una risata, nell'udire - di nuovo - le raccomandazioni della signorina Abaigeal: "Siate eleganti, avanzate con portamento nobile, siate educate..." serrò le labbra, costringendosi a non scoppiare a ridere: "E' per questo che vengono tutte prese in giro.".
Le raffinate fanciulle del prestigioso Istituto per Giovani Donne dalle Celesti Radici - nome molto pittoresco e a dir poco comico che sostituiva qualcosa come Orfanotrofio per Bambine Abbandonate Per Strada e Raccolte per essere trasformate in Gentildame - erano uno degli spettacoli più ilari che potevano essere visti durante la notte di Halloween: ragazze non più grandi di quindici o sedici anni, abbigliate per lo più con completi elegantissimi e raffinati malamente spacciati per abiti da strega o fata, che camminavano come papere, con il naso all'insù, il cui "scherzetto" più terribile era cambiare di posto ai vasi fuori casa.
Per il resto, non erano "concorrenti" temibili: più della metà dei dolci recuperati veniva abbandonata ai piedi di qualche albero, perché i dolci fanno ingrassare e rovinano la pelle.
Róisín, Michaelle e Liosibhe dovevano sempre nascondere quella fantomatica "più della metà" nei loro cappelli da strega o, addirittura, nella veste di Liosibhe - abbastanza prosperosa da rendere la sua zona toracica una vera e propria cassaforte.
Quell'accenno di risa si smorzò: quell'anno non ci sarebbero state né Liosibhe né Michaelle.
Il suo primo Halloween completamente da sola.
Certo, tutte loro dovevano muoversi in gruppo di minimo tre persone, ma...
L'anno precedente, Róisín e Michaelle si erano aggregate ad altre cinque ragazze, sì, ma era stata soltanto una blanda scusa: alla fine, loro due erano andate per conto proprio, lasciando le altre cinque indietro, assicurandosi solo che fossero nella loro stessa zona.
Adesso che era da sola, Róisín non sapeva come fare. Aggregarsi direttamente alle altre era fuori discussione. L'unica possibilità che le restava era rimanere dietro di loro - molto dietro di loro - e limitarsi a controllare che non sparissero dai dintorni.
"Un Halloween da sola..."
Halloween era la sua festa preferita: poteva finalmente sfogarsi davvero, era d'obbligo rimpinzarsi di dolci o fare dispetti. Anche per quell'anno, il suo sarebbe stato un vestito da streghetta; aveva tuttavia deciso di farlo bianco, invece che nero, con un fiocco rosso al collo e il suo nastro bianco tra i capelli. Niente cappelli, per stavolta.
Almeno per quella sera, avrebbe voluto divertirsi. Le sarebbe piaciuto.
"... da sola." scosse la testa, cercando di pensare positivo: "Forse anche Liosibhe e Michaelle usciranno! Forse le incontrerò per strada!" stavolta il sorriso apparve davvero: "Non è una possibilità così remota, dopotutto...".
Dopo l'istruttiva lezione della signorina Abaigeal circa il significato di Halloween e sul suo strettissimo legame con la loro terra - istruttiva lezione ripetuta ogni anno per quindici giorni per dieci ore -, Róisín letteralmente scappò dalla stanza, andando a rintanarsi nelle cucine dove, lo sapeva, la signora Madre stava aiutando le cuoche a preparare le zucche, l'ultima e più importante decorazione della festa.
"Forse stavolta potrò intagliarle anch'io...?"
- Róisín. - la salutò l'anziana, alzando gli occhi dal triangolo di zucca che aveva appena estratto: - Rimani lì vicino alla porta, è pericoloso avvicinarsi. -
"... direi di no.".
Solitamente venivano preparate tre zucche, una per ogni ingresso dell'edificio: erano enormi, dall'aria estremamente pesante, anche una volta svuotate; Róisín si era più volte chiesta se fossero effettivamente le cuoche o qualche buon uomo che passava di lì per caso a sistemarle ai loro posti.
Le facce che venivano intagliate erano sempre diverse: a volte gli occhi erano dei cerchi, a volte dei triangoli - verso il basso o verso l'altro -, una volta erano persino stelle e un'altra delle mezzelune; i nasi potevano esserci come non esserci, anch'essi triangolari, quadrati o rotondi; le bocche erano sempre aperte, dai denti appuntiti o squadrati. La signora Madre aveva optato per una faccia tutta triangoli, per quell'anno.
- E se mettessimo anche delle rape? - propose Róisín, sbattendo le ciglia con fare innocente.
- No, Róisín. - sospirò l'anziana, tranquilla: - Non ti metterai ad intagliare lanterne. -
La ragazza gonfiò le guance, con disappunto: "Riesce sempre a scoprirmi!"
- Ma... - esordì, senza smettere di sbattere le ciglia - iniziando anche a sentirsi discretamente idiota: - ... sono le rape le lanterne originarie! Se vogliamo seguire la tradizione pura, dovremmo usare quelle! - le fece notare, candida.
- Le zucche sono più scenografiche. - la risposta della signora Madre fu piuttosto laconica.
Róisín smise di agitare compulsivamente le ciglia, lisciando la fronte e portando le labbra avanti: "Non c'è proprio speranza, eh...?".
Si sistemò con la schiena contro la parete della cucina, osservando la donna tornare al lavoro: per quanto avesse visto quella scena così tante volte da poter intagliare una zucca ad occhi chiusi, era uno spettacolo che riusciva sempre a catturarla; c'era una qualche soddisfazione nel vedere un semplice frutto arancione trasformarsi in una sinistra ma affascinante lanterna.
- Signora Madre... - disse all'improvviso, colta da un dubbio.
- Sì? -
- Ma, esattamente, perché intagliamo le zucche? -
La signora Madre tornò a guardarla, con occhi interrogativi.
- Sì, so che è per scacciare gli spiriti maligni... - si affrettò a dire Róisín, portando le mani avanti, evitando che la donna pensasse che non ascoltasse l'istruttiva lezione della signorina Abaigeal: - ... e che poi sono stati gli americani a sostituire le rape con le zucche. Soltanto... - inclinò la testa di lato, incuriosita: - ... perché proprio le zucche? O le rape? In che modo possono allontanare gli spiriti maligni? -.
Dopo un attimo di silenzio, l'anziana suora alzò le spalle, tornando a dedicarsi alla zucca: - Non possiamo sapere con assoluta certezza perché i nostri antenati abbiano scelto proprio le rape. L'unica cosa a cui possiamo affidarci è la leggenda di Jack O' Lantern. -
- Jack O' Lantern? - Róisín sbattè le palpebre, confusa: - Non è il nome della zucca? -
La signora Madre alzò gli occhi al cielo: - Alla signorina Abaigeal non piacciono le leggende, vero? - scosse la testa, con disappunto: - Jack O' Lantern è una figura del nostro folklore, Róisín. Ed è davvero un crimine che la signorina Abaigeal si rifiuti di insegnarvi questo tipo di leggende. -.
Ora Róisín era sinceramente incuriosita: - Perché? - domandò, avvicinandosi al tavolo, fino a posarvi le mani: - Chi era Jack O' Lantern? Cos'ha fatto? Perché si chiama come le zucche? -
- Sono le zucche a portare il suo nome. - la corresse la donna, guardandola negli occhi: - O meglio, le lanterne di Halloween. Narra la leggenda che Jack O' Lantern fu un fabbro avaro, avido, corrotto ma astuto, tanto da riuscire ad ingannare il Demonio per ben due volte, salvando la propria anima dagli abissi infernali cui era destinata. - un sospiro: - Quando poi Jack morì naturalmente, la sua anima era troppo sporca per essere accettata nel Regno dei Cieli. Tuttavia, a seguito ad uno degli inganni, egli aveva stretto un patto con il Demonio, che vedeva quest'ultimo rinunciare all'anima dell'astuto fabbro. Per questo motivo, Jack O' Lantern non poté salire al Paradiso, ma neppure precipitare all'Inferno: il suo stesso comportamento e le sue scelte avevano fatto sì che si imprigionasse in un eterno limbo tra il mondo dei vivi e quello dei morti. -
Róisín sgranò gli occhi: "Poverino..." pensò, triste: "Anche se era una persona malvagia, una condanna simile, per l'eternità..."
- Poiché Jack non riusciva a vedere nelle tenebre della notte... - proseguì l'anziana: - ... il Demonio gli diede un carbone ardente: proveniva dall'Inferno, dunque non si sarebbe mai spento. Per proteggerlo, Jack svuotò e intagliò una rapa, mettendolo al suo interno. Da allora, la sua anima errante vaga senza meta, in cerca di un luogo dove riposare. Halloween è la sua notte. - diede una pacca alla zucca, facendo udire il suo suono cavo: - La notte un tempo chiamata Samhain, in cui la linea che separa il mondo degli spiriti e quello dei vivi si assottiglia, fino a quasi scomparire. Durante questa notte, Jack e gli altri spiriti cercano una casa in cui stabilirsi. Le lanterne indicano loro che non sono i benvenuti, che devono andarsene. -.
Róisín schiuse le labbra, non riuscendo a capire. Le mancava un collegamento: - Ma... - disse, confusa: - ... non potremmo ospitarli? Dovremmo essere gentili con i viandanti, no? -.
Lo sguardo della signora Madre era visibilmente perplesso.
- Insomma... - Róisín accennò ad un sorriso, temendo di aver perso qualcosa durante il racconto: - ... Jack O' Lantern sarà anche stato malvagio, ma... ora sarà stanco di vagare, no? Possiamo ospitarlo, anche solo per una sera. Dato che è condannato a vagare per sempre, forse questo lo farà felice, almeno nella sua notte. -.
Silenzio.
Sentì il viso farsi più caldo, gli sguardi delle cuoche improvvisamente inchiodati addosso.
Si morse un labbro, spezzando quello strano silenzio teso: - ... ho... - balbettò, non osando distogliere lo sguardo da quello sgranato della signora Madre: - ... ho detto qualcosa di male...? -
Con sua grande sorpresa, l'espressione dell'anziana si sciolse in una leggera risata.
Questo la disorientò ancora di più.
- Vedi, Róisín... - le disse la donna, accarezzandole una mano: - ... gli spiriti ambiscono alla vita terrena. Alcuni si limitano a vagare senza meta. Ma altri, molti altri... - i suoi occhi divennero seri: - ... cercano di rubarla ai vivi. -.
La ragazza trasalì, un brivido le percorse la schiena.
- Rubarla...? - ripeté, spiazzata: "E' vero..." si rese conto: "... se non possono riaverla, potrebbero... non ci avevo pensato.".
- Alcuni provano odio verso i vivi... - proseguì la signora Madre: - ... e si limitano a spaventarli, ad incutere loro la paura di dover contrastare una forza che non possono toccare, contro cui, apparentemente, non hanno armi per difendersi. Altri, quelli più in pace con loro stessi, si limitano a fare dispetti di poco conto, solo per il gusto di vedere un vivo spaventarsi. Altri ancora possono essere molto pericolosi. - un respiro profondo: - Per questo la notte di Halloween, tra divertimenti e dolci, è anche la più pericolosa dell'anno: è il momento in cui gli spiriti divengono tangibili, in grado di entrare in diretto contatto con i vivi. Jack O' Lantern è uno spirito malvagio. E' il re di Halloween. Molti spiriti lo seguono, come fedele corte del suo sovrano. Se Jack O' Lantern trovasse un luogo da infestare, esso diverrebbe un Inferno sulla Terra: tutti gli spiriti giungerebbero, molti cercherebbero di fare del male ai vivi. Per questo motivo, Róisín... - il suo sguardo si fece più duro, preoccupato: - ... stai attenta, domani notte. Stai attenta agli spiriti che vagano nella notte di Halloween. Se vedi un fuoco fatuo, fuggi. Non rimanere, non lasciarti incantare. Scappa, Róisín. I will o' the wisp sono gli spiriti che attorniano Jack O' Lantern. Lui potrebbe essere nei paraggi. Non ritrovarti alla sua corte, Róisín, perché non potresti più scappare. -
- Signora madre! - la voce della signorina Abaigeal fece fare un discreto salto alla ragazza, portandola a voltarsi di scatto, verso la sua imponente figura che entrava in cucina: - Cosa stava raccontando a Róisín? -
- Approfondimenti culturali, signorina Abaigeal. - rispose l'anziana, tranquilla, tornando alla zucca: - Insieme a qualche avvertimento. Non fa mai male abbondare, in questo caso. -
"Jack O' Lantern..." ripeté Róisín, tra sé e sé: "... colui che, per le scelte che fece in vita, fu poi condannato a vagare nel limbo, senza mai trovare riposo. Un'anima malvagia rifiutata dai morti e scacciata dai vivi." notò di sfuggita la signorina Abaigeal dileguarsi, la signora Madre che scuoteva la testa: "Eppure... se è vero che non esiste nessuno che non possa essere perdonato, se pentito... possibile che Jack non si sia mai pentito? Dopo tutto questo tempo? Però, se si è pentito, perché sta ancora vagando?" portò lo sguardo sulla zucca ormai ultimata: proprio come sospettava, era una faccia mostruosa tutta triangoli.
Tuttavia, non la entusiasmava più come prima.
"La zucca..." si avvicinò, rimirandola, con un leggero disagio: "... serve per scacciare Jack."
- Se l'intero mondo puntasse il dito contro di te e ti chiamasse "demonio", allora saresti un "demonio", Róisín? -
Serrò le labbra: "... Jack O' Lantern è davvero un'anima malvagia?".
- Che zucca sadica... -
- Sadica? Come conosci questa parola? -
Sobbalzò nel rendersi conto di aver parlato, invece che pensato. Sfoggiò il suo sorriso più innocente - palesemente colpevole: - Ehm, ecco... - guardò di sfuggita l'anziana, la sua espressione spiazzata: - ... l'ho letta in un libro... -
- Quale libro? -
- ... ops. -.

Alla malinconia di dover trascorrere la sua festività preferita da sola si era aggiunta un'emozione che non aveva calcolato: la noia.
Alla vigilia di Halloween, l'istituto sembrava essersi trasformato in un prestigioso atelier: le fanciulle che vi abitavano sfoggiavano i loro costumi, orgogliose dei loro lavori - perché una brava donna deve anche saper cucire -, facendo a gara le une con le altre.
Era divertente, anche Róisín era solita ingaggiare quelle buffe gare e parodie di sfilate, quando era con Michaelle e Liosibhe.
Senza di loro, però, non aveva nessuno con cui giocare. E non aveva un'eccessiva voglia di ascoltare i discorsi delle altre. Le era bastato mostrarsi per tre secondi per udire subito qualcosa come: - Spero non usi la sua camera come luogo per un sabba, dato che è vicina alla mia! Non oso immaginare che fetore ci sarebbe dopo! - e intuire sagacemente di dover girare a largo.
Aveva deciso di uscire. Di fare una passeggiata, di andare in un luogo dove poter stare in pace.
Per precauzione, aveva messo sul suo letto il vestito di due Halloween prima, modificandolo appena per spacciarlo per un altro; il suo vero nuovo costume l'aveva nascosto nel doppio fondo del cassetto dell'armadio. Non si fidava a lasciare incustodite le proprie cose.
Era dunque uscita, premurandosi di avvisare casualmente solo la signora Madre, diretta verso quello che, senza ombra di dubbio, si sarebbe potuto definire il più tranquillo dei luoghi: il cimitero.
Un luogo silenzioso, tranquillo, sacro, dove nessuno avrebbe mai osato attaccar briga o procurarle dolore.
Quando era più piccola, quel luogo la spaventava: aveva sentito tanti racconti spaventosi, la maggior parte dei quali ambientata proprio in un cimitero; senza contare che Halloween era alle porte, quindi doveva esserci anche un subbuglio di anime.
"Ma appaiono con la notte, no?" ricordò Róisín, lanciando veloci occhiate alle decorazioni che già adornavano le case lungo la via: "Se andrò di giorno, non succederà niente.".
Aveva superato la sua paura del cimitero da circa tre anni, da quando, per gioco, lei, Michaelle e Liosibhe avevano deciso di fare una prova di coraggio - a pensarci con lucidità, una prova di coraggio in un cimitero poteva anche starci, ma non a mezzogiorno - e avevano finito per trascorrere tutto il pomeriggio in quel posto silenzioso, senza essere disturbate - e senza disturbare, ovviamente. Certo, poi erano state sgridate tutte e tre per essere sparite per ore senza tornare per il pranzo, ma non era stata certo una sorpresa.
Si soffermò ad osservare le decorazioni più particolari: gnomi da giardino vestiti da fantasmini, bambole messe nei vasi di fiori e vestite come fate, una statuetta nera a forma di gatto, a grandezza reale, e persino tante farfalle di carta che pendevano da un portico.
Sorrise e proseguì, respirando l'odore della terra impregnata di pioggia - erano due giorni che pioveva, aveva piovuto anche quella mattina ed era probabile che la notte di Halloween sarebbe stata bagnata dalle nuvole.
"Sarebbe bello se anche noi facessimo qualche decorazione diversa dalle zucche..." sospirò, alzando gli occhi al cielo annuvolato: "Ma, festoni a parte, fanno solo zucche. Quelle farfalle sono davvero belle! E non credo che farle implichi ferirsi con oggetti appuntiti!".
Calciò appena un sassolino sulla sua strada, cominciando a lasciare la zona abitata: "Anche se non credo ci sia più tempo per farle." gonfiò le guance, indispettita: "Ci si prepara praticamente un mese prima e ci si ritrova persino a non avere più tempo per fare qualche altra decorazione? Magari posso proporla per il prossimo anno? Farò quindici anni, sarò grande, non ci saranno problemi se partecipo anch'io all'addobbo, no? Uhm, vediamo un po'..." si portò un dito alle labbra, svoltando una via e poi un'altra, lasciando che i piedi la guidassero per quella strada conosciuta: "... senz'altro quelle farfalle. Sono davvero bellissime, sì! Potrei chiedere a chi le ha fatte come ha fatto a farle! E anche le bambole-fatine erano graziose! Potrei cucire dei bei vestiti adatti... e magari posso fare dei fiori di stoffa, così non c'è pericolo di danneggiare quelli veri!". Per non ben precisate ragioni, nella sua mente si materializzò l'immagine di una zucca intagliata avvolta da un nastro rosso, sormontata da un enorme e vezzoso fiocco del medesimo colore. Scoppiò a ridere, abbassando appena la voce non appena si accorse di essere nei pressi dell'entrata del cimitero.
"Ah, ma che fa, il custode?" si chiese, alzando la gonna per evitare che si impigliasse da qualche parte nell'erba: il cancello era aperto, sì, ma la zona antistante, minuscolo sentiero principale costeggiato da alberi a parte, sembrava un informe groviglio di sterpaglie.
"Secondo me, non c'è neppure un custode." pensò, inarcando un sopracciglio nel notare l'evidentissima ruggine sulle sbarre dell'entrata: "... ma questo cancello sarà mai chiuso? Io l'ho visto solo di giorno ed era sempre aperto, d'accordo, ma chi mi dice che di notte venga chius-"
- AH! -
Un dolore acuto sui palmi delle mani, sul polso destro, delle fitte dalle ginocchia. Il terreno era fin troppo vicino da come lo ricordava.
Alzò la testa, scostandosi le lunghe ciocche bionde dal viso, accorgendosi dei graffi sulle mani e sul polso: era inciampata in qualcosa, ma non aveva visto cosa. Cercò di rimettersi in piedi, ma qualcosa sembrò strattonarle una gamba, costringendola a rimanere giù.
Si mise seduta - ormai le macchie di terra sulla gonna, in prossimità delle ginocchia, c'erano, tanto valeva completare l'opera - e guardò verso i piedi: una pianticella sottile sembrava essersi arrotolata attorno alla sua caviglia. Róisín si avvicinò, stupita: era davvero sottile, ma era riuscita persino a lacerarle la calza. O forse era stata lei a farlo, tirandola.
Cercò con lo sguardo l'estremità superiore; una volta trovata, la prese e tirò, per srotolarla. Quando lo fece, però, percepì una fitta nella parte inferiore, la zona più vicina al piede, dove la piantina si era allacciata alla sua gamba.
"... si sta opponendo?" lisciò la fronte e afferrò l'estremità inferiore con l'altra mano: - Stupida pianta! - esclamò, tirando entrambe. Come risultato, la fitta fu nel mezzo.
Róisín digrignò i denti e tirò indietro la gamba, cercando di strappare la piantina: - Non costringermi a tagliarti! - la minacciò, dando un altro strattone: - Guarda che ho con me degli oggetti taglienti! Posso tagliarti senza alcun problema, se non ti stacchi! - tirò ancora, l'ennesima fitta.
Con un moto di stizza, si rese conto di come la calza fosse completamente andata e di come la pelle le si stesse pericolosamente arrossando: se avesse continuato a tirare, quella piantina sarebbe stata capace persino di ferirla.
"Devo fare qualcosa." non aveva davvero oggetti taglienti, ovviamente: "Forse potrei trovarli nel cimitero..." si voltò verso l'entrata.
Tornò a guardare la piantina: "... ma io sono bloccata qui, non .".
In quel momento, udì qualcosa.
Non sapeva cosa fosse esattamente, sapeva solo che era un suono strano, curioso: era leggero, basso, quasi a volersi mescolare al vento.
Poi capì.
Era una risata.
Una risata lontanissima, o forse vicinissima, che cercava di non essere udita, accennata, divertita.
Róisín sbattè le palpebre, incredula: "Ma cosa...?"
- Stai ridendo di me? - domandò, scrutando la piantina: - Bene! Visto che non vuoi liberarmi, allora dovrò ricorrere alle maniere forti! -.
Maniere forti di cui non aveva la minima idea, ma era un dettaglio secondario.
Prese di nuovo l'estremità superiore; fece per prendere l'inferiore, ma le venne in mente un particolare: "... tu dovrai pure cominciare da qualche parte. Forse potrei sradicarti.".
Tenendo il sottile filo tra due dita, seguì il suo percorso, fin dentro l'ammasso vegetale informe, scostando la sterpaglia con la mano libera e pregando che non le andasse qualcosa in un occhio o che qualche insetto non identificato finisse tra i suoi capelli.
Finalmente trovò la radice della piantina.
E si rese conto che strapparla sarebbe stato un po' difficile.
- ... una zucca...? - mormorò, stupita nel vedere quel grosso frutto arancione proprio sotto quel groviglio secco: "... crescono zucche qui? Davanti al cimitero? Non me n'ero mai accorta...". Aveva una scusante: era nascosta decisamente bene.
- Bene, zucca. - disse, mettendo le braccia conserte: - Lasciami andare, o ti farò diventare un addobbo per domani notte! Mi hai sentito? Liberami! -.
La piantina attorno alla sua caviglia non si spostò di un millimetro.
- L'hai voluto tu! -
Pensò a cosa avesse di tagliente a disposizione: "..."
Scosse la testa e provò a pensare a tutto ciò che poteva considerarsi tagliente: "... le unghie...?" troppo corte: "... i denti?".
Guardò di nuovo la piantina. Si passò la lingua su un canino.
"... forse si può fare.".
Tese il filo davanti a sé, si raggomitolò e aprì la bocca, mettendo la piantina a portata di denti; non appena la sentì sfiorarle le labbra, richiuse la bocca di scatto, conficcandovi canini e incisivi.
Un attimo dopo, si ritrovò a sputare, cercando di cancellare dalla lingua quel sapore disgustoso di erba indefinita, terriccio, fango, polvere e chissà che altro.
- Che schifo... - gemette, portandosi una mano allo stomaco: - ... che schifo... -
"Non pensare a cosa poteva esserci su quella piantina, non pensare a cosa poteva esserci su quella piantina, non pensare a cosa poteva esserci su quella piantina, nonpensareacosapotevaessercisuquellapiantina..."
Trasalì.
La risata era limpida.
Sembrava sempre lontana, ma ora riusciva a sentirla bene: era una risata, senza alcun dubbio.
Lo sguardo saettò alla piantina, accorgendosi di come fosse diventata improvvisamente molle. Piano, Róisín tirò via la gamba, stupendosi quando vide la pianta non seguirla, lasciarla andare via come se niente fosse.
Non appena fu completamente libera, si rimise in piedi e si allontanò in fretta di un paio di passi, decisa a mettere quanta più distanza possibile tra lei e quella zucca.
- ... stupida pianta. - disse, mettendo di nuovo le braccia conserte, per poi gonfiare le guance: - Ecco. Te l'avevo detto di avere qualcosa di tagliente. Peggio per te! -.
Soltanto in quel momento si rese conto dei colori caldi che avevano tinto l'erba, gli alberi e il cancello. Si voltò: "E' già il tramonto?" sospirò: "Direi che devo tornare...".
Si tolse da davanti al viso delle ciocche mosse da una leggera folata di vento.
Un tintinnio.
Si girò di scatto.
Qualcosa sembrò colpirla in pieno petto.
Qualcosa, come uno spillo acuminato, parve conficcarsi in un suo occhio, senza tuttavia farle male.
Un occhio azzurro, per un istante fisso nel suo.
Un velo trasparente, violaceo, scomparve dietro uno degli alberi.
Róisín non riuscì a muoversi.
Nessuno dei suoi arti sembrava risponderle, pietrificati, costringendola a rimanere immobile.
Un luccichio in basso riuscì a risvegliare le sue membra, ridandole possesso del proprio corpo. Abbassò lo sguardo, individuando qualcosa di chiaro e luccicante sulla terra. Incuriosita, si chinò a raccoglierlo: sembrava una piccola perla, o forse un minuscolo diamante.
"... un diamante in mezzo al fango?" scosse la testa: "Quel tintinnio..." alzò lo sguardo, verso l'albero dietro cui aveva visto svanire quel velo trasparente.
Deglutì, notando un lembo di quel velo alla base del tronco. Il tronco su cui, più in alto, stavano quattro piccole macchie bianche.
- ... questo... - sussurrò, piano, tendendo la piccola pietra, qualsiasi cosa fosse: - ... è tuo...? -.
Erano dita, quelle macchie bianche.
C'era qualcuno dietro quell'albero.
L'aveva visto.
Ma, chiunque fosse, non le rispose.
- ... te lo lascio qui. - disse Róisín, scandendo le parole: si sentiva come se stesse parlando ad un animale spaventato. Alzò l'oggetto per mostrarlo, poi lo abbassò piano, posandolo sul sentiero.
Si rialzò, indicando quel punto: - E' qui, vedi? - ripeté: - Io ora me ne vado. Tu prendilo quando vuoi. -.
Fece qualche passo indietro, i pugni al petto, pronta a riprendere il sentiero per casa.
Aveva già un piede rivolto verso la strada che aveva già percorso, quando le tornò in mente una cosa e, contemporaneamente, le venne un'idea.
Guardò verso l'entrata del cimitero e si arrischiò a fare un passo avanti - fortunatamente, non fu afferrata da nessuna zucca dispettosa: - Senti, Jack O' Lantern... - mormorò, sperando di essere udita comunque: - ... ecco, io non so se sei qui. Però, ecco... ho sentito la tua storia. E ho saputo a cosa servono le zucche illuminate. Ecco... - si impose di non ripetere più "ecco": - ... non posso invitarti a casa mia, questo no. Se ti può far piacere, però, domani notte metterò dei biscotti su una delle finestre sul retro. Lì non mettono mai zucche. Sono per te. Se vuoi. -.
Una leggera folata di vento le fece accorgere di avere le guance bollenti. Scosse la testa e riprese la strada per casa, alzando di nuovo la gonna e inchiodando lo sguardo a terra per evitare sorprese.
Vagò con gli occhi in cerca della piantina che l'aveva afferrata.
Niente.
Si girò più volte, ma non riuscì a vederla.
"Beh, la zucca dovrebbe essere facile da vedere..."
Niente. Lì dove si notava che la sterpaglia era stata spostata, c'era solo altra sterpaglia.
"Ma cosa..." il sole ormai sulla linea dell'orizzonte la distolse dai propri pensieri, portandola ad affrettarsi a tornare a casa: "Beh, l'ho detto che era nascosta bene. Magari torno domani a cercarla...".
Si voltò un'ultima volta per vedere se quella persona avesse preso il piccolo diamante.
Lì dove l'aveva lasciato non c'era più alcun luccichio.

Róisín si bloccò, stupita.
Solitamente, la panchina nel giardinetto dell'istituto non era mai occupata da una persona singola, tantomeno al tramonto. Eppure il signor Ben era lì, da solo, sulla panchina a lato del breve sentiero che collegava il cancelletto con l'entrata principale.
- Signorina! - l'uomo sembrava sorpreso quanto lei: nel suo caso, però, Róisín intuì che la causa doveva essere il suo aspetto da disordinato folletto scavatore.
- Vi è successo qualcosa? - domandò il signor Ben, preoccupato, alzandosi e avvicinandosi.
- ... ho incontrato una zucca dispettosa. - fu l'unica risposta che Róisín si sentì di dare. Anche considerando il fatto che era la semplice verità.
Non sapeva perché, ma voleva tornare nella sua camera nel più breve tempo possibile. Quando aveva incrociato lo sguardo del signor Ben, aveva di nuovo sentito quel brivido gelido lungo la schiena. Non riusciva a spiegarsene il motivo, sapeva solo di non voler più provare una sensazione tanto sgradevole.
E la cosa che la inquietava più di tutte, in quel momento, era il rendersi conto che sentiva quella cosa solo quando vedeva il signor Ben.
- Sicura vada tutto bene? - insistette l'uomo, portando una mano sui suoi capelli.
Quando sentì le sue dita toglierle chissà quale stelo secco, Róisín sentì lo stomaco stringersi dolorosamente. Fece un passo indietro, sfuggendo a quella mano. La morsa al suo stomaco si rilassò.
- Sì, signor Ben. - chinò la testa, rapida: - Vi ringrazio per la vostra premura. Mi dispiace avervi creato preoccupazione. Vogliate perdonarmi. Ora, se mi è concesso, vorrei ritirarmi. -.
Si voltò, riprendendo il suo cammino, gli occhi fissi sul grande edificio bianco d'innanzi a sé. Sembrava terribilmente lontano.
- Aspettate, signorina. -
S'irrigidì. I muscoli sembravano congelati.
Si voltò, piano, fino ad incontrare di nuovo lo sguardo scuro del signor Ben. Un'altra scarica di ghiaccio lungo la schiena.
- Voi siete quella che la signorina Abaigeal definisce con epiteti che ben poco si addicono ad una gentildonna, vero? -
Róisín inspirò a fondo: il signor Ben sembrava particolarmente in vena di chiacchiere. Non era sicura che l'avrebbe lasciata andare troppo facilmente.
- Esatto, signor Ben. - chinò di nuovo la testa, rialzandola immediatamente: - Vogliate perdonare la mia insistenza, ma è ormai il tramonto e dovrei ritirarmi. -.
Il signor Ben sembrava non capire. Lo vide accennare ad un sorriso.
Non le piacque. Sentiva le braccia scosse dai brividi. Voleva andarsene.
- Dirò io alla signorina Abaigeal di averti trattenuta. - disse l'uomo, tornando a sedersi. Con un cenno della mano, indicò il posto vuoto accanto a sé: - Non oserà punirti. Vorreste dunque farmi un po' compagnia, signorina? -.
"No."
Avrebbe voluto dirlo, con tutta la decisione di cui era capace. Ma sapeva di non potere: quell'uomo era colui che finanziava l'intero istituto. Sapeva che fargli un torto avrebbe potuto avere conseguenze terribili. Non che le importasse di cosa sarebbe successo alle altre o alla signorina Abaigeal; la signora Madre, probabilmente, sarebbe tornata nel monastero da cui proveniva; ciò che la preoccupava era quel che sarebbe successo a lei.
Non aveva una casa, una famiglia. Non sapeva dove abitassero Liosibhe e Michaelle, non sapeva se le loro famiglie l'avrebbero accolta, lei che sarebbe tornata ad essere ciò che era in ogni caso, a prescindere dai titoli pomposi e mielosi che venivano dati a quelle come lei.
Odiava quell'istituto. Ma era l'unico luogo in cui poteva essere al sicuro. Non poteva permettersi di distruggerlo.
Fu per questo che i suoi piedi la portarono fino a quella panchina, facendola sedere accanto a quell'uomo. Le dava una brutta sensazione, sì, ma era anche colui che, in un certo qual modo, le garantiva un riparo.
- Sono sinceramente stupito. - confessò il signor Ben, guardando di fronte sé, lo sguardo perso chissà dove: - Dalle descrizioni della signorina Abaigeal, mi aspettavo una volgare stracciona dai comportamenti maleducati e dall'eloquio sboccato. Invece, per quanto ho potuto vedere, non siete da meno alle vostre compagne, signorina. -.
Voleva essere un complimento. Róisín non riuscì a prenderlo come tale: essere paragonata alle sue compagne d'istituto non era esattamente una lusinga, alle sue orecchie.
- Per quanto possa concordare con le parole della signorina Abaigeal circa il fatto che il Demonio sia in grado di celarsi anche dietro apparenze angeliche... - la guardò. Róisín sostenne il suo sguardo. Ma si sentì pietrificare dall'interno. Si accorse vagamente di star respirando piano, come a non volersi far sentire. - ... voi non sembrate affatto la maschera di una creatura infernale, signorina. Il vostro aspetto vi rende, anzi, quanto di più vicino ad un vero e proprio angelo. -
Le piacevano quelle parole.
Le piacevano sulla bocca di Liosibhe, su quella di Michaelle, su quella della signora Madre.
Non le piacevano sulla bocca del signor Ben.
- L'unico vostro problema, signorina... - l'uomo scosse la testa, l'espressione desolata: - ... è che non vi ho mai vista sorridere. -
"Ci saremmo visti cinque o sei volte e sempre nell'istituto, cosa pretendete?" Róisín si impose di tacere.
- E' forse un obbligo impostovi dalla signorina Abaigeal? -
Róisín inarcò un sopracciglio: "... che diamine sta dicendo...?"
- No, signor Ben. - rispose, piano.
L'uomo sospirò: - Avrebbe avuto un suo bizzarro senso. Vedete, sono davvero stupito del fatto che voi siate ancora qui. Siete una fanciulla raffinata ed educata al pari delle altre, la vostra bellezza angelica è ancora un bocciolo, certo, ma già si può intuire la meravigliosità del fiore che sboccerà tra qualche anno. L'unica ragione che può aver spinto gli altri a non prendervi come figlia deve essere un inganno della signorina Abaigeal, o forse il vostro volto così raramente attraversato dal sorriso. -.
Róisín aggrottò la fronte: "Che la signorina Abaigeal spinga verso qualcuna non è un mistero..." notò: "... ma è pur vero che non aspetta altro che liberarsi di me. Non sono soltanto famiglie nobili, quelle che giungono qui. Sono piuttosto sicura che abbia indirizzato verso di me le famiglie meno in vista che hanno messo piede nell'istituto. Ordire trame per tenermi lì sarebbe da masochisti. E non credo proprio che la signorina Abaigeal brami ad avermi come sua erede.".
- Se voi vi mostraste per ciò che siete, signorina... - proseguì il signor Ben: - ... sono sicuro che sareste in grado di colmare il vuoto che troppo spesso scava negli animi delle persone. -
"... eh?"
- Avere al proprio fianco una fanciulla come voi sarebbe come offrire un banchetto regale ad un povero che brama un pezzo di pane. - l'uomo scosse la testa: - Voi vi nascondete, signorina. Vi nascondete dietro una maschera che malamente si sorregge sul vostro viso di porcellana, capace di ingannare solo chi, come sfortunatamente devo riconoscere essere la signorina Abaigeal, non ha occhi per vedere la realtà, preferendo vivere in un mondo distorto creato dalle proprie idee confuse. -
- ... temo di non seguirvi, signor Ben. - non potè trattenersi dal dirlo. Le sembrava una sequela di frasi abbellite senza alcun senso o collegamento logico. L'uomo le accarezzò la testa.
La stretta allo stomaco si fece rovente, bruciandola.
- Perdonatemi, signorina. Temo di starmi lasciando trasportare. - quando tolse la mano, Róisín trasse un profondo respiro; stavolta, però, la morsa non si allentò.
- Non volevo confondere la vostra mente. - si scusò il signor Ben, accennando ad un sorriso - un altro brivido ghiacciato: - Dite un po'. Domani festeggerete Halloween? -
"... che razza di domanda è?"
- Certamente, signor Ben. - rispose, perplessa.
- Prestate attenzione, signorina. - si raccomandò l'altro, improvvisamente serio.
Róisín annuì.
Il signor Ben non parlò più.
Si limitava a guardarla, a fissarla dritta negli occhi. I suoi non erano occhi freddi o impassibili. C'era qualcosa di strano, nel suo sguardo, che Róisín non riuscì a decifrare. L'unica cosa che sentiva era solo qualcosa che riusciva a congelarla dall'interno.
Non le interessava scoprire cosa fosse. Voleva solo che tutto quello avesse fine. Non le piaceva.
- Dovreste davvero sorridere di più, signorina. - la voce dell'uomo spezzò quel silenzio, facendola trasalire, nonostante non avesse mai distolto lo sguardo da lui.
"Io sorrido." strinse i denti: "Sorridevo." abbassò gli occhi, verso il sentiero sterrato: "Se solo avessi occasioni per ridere, non mi tirerei indietro. Ma, almeno per ora, credo di non averne più. Temo che non riderò davvero per parecchio tempo. Anche se vorrei farlo...".
Non era bello rendersene conto.
Scosse la testa, scacciando quel pensiero triste dalla mente: "Domani è Halloween. Forse rivedrò Michaelle e Liosibhe. Forse potrò divertirmi davvero.".
Alzò gli occhi, verso il cielo ormai scuro, il sole completamente svanito. Il preludio della notte tanto attesa.
- Ora devo andare, signor Ben. - disse, distaccata.
- Avete ragione. -
Per fortuna, stavolta l'uomo sembrava aver capito.
- Vi riaccompagno. -
Sì. La porta era a pochi metri. Ma sembrava terribilmente lontana.

Ridi, ridi, come vorrei

Senti
Soddisfa il mio cuore vuoto
Gioca, distruggi, è come se stessi diventando pazzo
E' perché sei un così bel giocattolo



Fece una piroetta davanti allo specchio.
La gonna bianca si alzò appena, scoprendole le ginocchia, per poi ricadervi, liscia e leggera.
Róisín si avvicinò allo specchio, alzando il mento per sistemarsi il fiocco rosso. Un'ultima sistemata anche al nastro bianco tra i capelli ed era pronta.
Tornò al letto e prese il coniglio di pezza che aveva cucito in quei giorni: le cuciture degli arti erano larghe, non sarebbe stato difficile nasconderci i dolci.
Uscì dalla camera, diretta all'ingresso dove, lo sapeva, le altre stavano già fremendo per l'impazienza.
Si era già preparata psicologicamente a tutte le possibili battute sul suo ritardo; si era imposta di ignorarle: non poteva dire di aver impiegato del tempo per rubare un piattino e dei biscotti dalla cucina e metterli su una delle finestre sul retro, per Jack O' Lantern.
Era curiosa di sapere se li avrebbe mangiati.
O se l'avrebbe fatto qualche ignaro passante approfittatore.
O se le cuoche li avrebbero notati e buttati.
- Alla buon'ora! - la prima voce che sentì fu quella della signorina Abaigeal, ovviamente.
- Scusatemi... - sussurrò, senza alcuna nota di dispiacere.
- Chissà se troveremo dei dolci, a quest'ora... -
- Temo di no. Sfortunatamente, gli altri avranno già svuotato le tasche dell'intera via... -
- Se solo avessimo potuto uscire prima... -
Róisín decise di non far notare che il suo ritardo ammontava a soli quattro minuti. Era piuttosto sicura che si sarebbe sentita rispondere che i minuti di ritardo erano trentaquattro, quarantaquattro, cinquantaquattro o che doveva tacere perché aveva già fatto perdere fin troppo tempo.
- Mi raccomando, ragazze. - sorrise la signora Madre, vicina alla porta: - Rincasate prima delle undici e mezza. E non andate in giro senza almeno altre due compagne. -
- Sì, signora Madre. - tutte le fanciulle, Róisín compresa, risposero chinando appena il capo.
Uscirono, percorsero il breve sentiero nel giardinetto.
La strada era buia. Non c'erano stelle o luna ad illuminare il quartiere, coperte dalle nubi nere sicuramente cariche di pioggia. Soffiava un vento lieve, che a stento muoveva le ciocche di capelli più leggere, portando con sé un freddo abbastanza sopportabile anche a braccia completamente scoperte, come Róisín fu felice di constatare.
L'aria era pregna dell'odore di terra bagnata, il freddo notturno che invadeva i polmoni, il profumo delle zucche, della cera e dei dolci solleticava i loro nasi.
Le risate dei ragazzi e dei bambini coprivano il frusciare delle foglie degli alberi, accompagnati dai suoni ritmici delle scarpe sulla terra.
Le zucche erano l'unico sprazzo di luce nell'oscurità: davanti alle case, volti mostruosi, ghignanti, non scacciavano, ma indicavano la via ai giovani cacciatori di dolci; di tanto in tanto, si aprivano degli spiragli luminosi, le porte che venivano aperte da adulti sorridenti.
La notte di Halloween aveva inizio anche per loro.
Come programmato, Róisín lasciò andare avanti le altre, soffermandosi più del dovuto a guardare - per la terza o quarta volta - le zucche intagliate, stavolta al buio, i tratti brillanti di luce sinistra, a volte tremolante; la statuetta raffigurante il gatto, notò, fu scambiata più volte per un felino vero; gli gnomi e le bambole attirarono i gridolini incantati di diverse bambine, e anche qualche bambino; le farfalle luccicavano, chissà come, riflettendo la luce delle zucche.
Sembrava davvero di aver abbandonato il mondo quotidiano per entrare in un regno fatato.
Quando le altre ragazze furono poco vicine - ma non eccessivamente lontane -, Róisín si diresse ad una porta. Bussò, la porta si aprì: una donna dal grande sorriso apparve sulla soglia illuminata.
- Dolcetto o scherzetto? - chiese, con la voce più tenera che sapeva sfoggiare.
La donna rise: - Dolcetto, signorina! -.
Un istante dopo, tra le mani di Róisín apparvero ben cinque caramelle colorate, grandi come uova. Sorrise alla donna e la salutò, trotterellando di nuovo verso il sentiero principale. Mise tre caramelle nel sacco che aveva con sé, nascondendone due nel coniglio di pezza.
Fu il primo di una lunga serie di bottini: dopo circa un'ora, Róisín aveva dovuto estrarre dal coniglio un po' di imbottitura, per farvi entrare un quadrato di zucchero particolarmente grosso.
Non tutti, ovviamente, erano stati tanto magnanimi: vuoi perché avevano finito i dolci, vuoi perché non volevano dare dolciumi a poveri bimbi innocenti, Róisín si era vista anche non aprire la porta e persino scacciata.
Si era dunque sentita in dovere di riempire loro di terra tutto il pianerottolo e l'intera cassetta della posta.
Róisín, a malincuore, non perdeva di vista le altre ragazze - divise in cinque gruppi piuttosto nutriti -, in apparenza totalmente dimentiche di lei. Meglio così.
Non era riuscita a vedere né Michaelle né Liosibhe. Non le ci era voluto troppo tempo ad intuire come le sue speranze fossero rasenti l'utopia. In cuor suo, però, continuava a sperare di vedere le loro figure sul viale, di potersi unire a loro, come era sempre stato.
"Qui, ormai, sembra abbiano finito tutti i dolci." notò Róisín, chiudendo la cassetta della posta accuratamente riempita di terriccio: "Forse quelle più lontane... magari quelle più vicine al cimitero? Forse lì gli altri non osano avvicinarsi troppo, quindi, magari...".
Anche nella semioscurità, riuscì a trovare facilmente la strada che portava al cimitero: le case si facevano più rade, le luci delle zucche sempre di meno.
Il vento si era alzato, costringendola a tenere il coniglio stretto lungo un fianco, per impedire alla gonna di sollevarsi.
Con suo disappunto, nessuno rispose, quando suonò ai campanelli.
"Eppure le zucche ci sono!" protestò tra sé e sé: "Se non volevano essere disturbati, potevano non metterle!".
Qualcosa di piccolo la colpì sul naso.
Alzò lo sguardo: un'altra goccia, stavolta sulla fronte.
Un'altra, su una spalla scoperta. Un'altra, sul braccio. Un'altra, sulla mano.
"Oh, no!" gemette: "Deve piovere proprio ora?".
La pioggia notturna significava solo una cosa: bisognava rientrare, la festa era finita. Nessuna pioggia notturna si esauriva nel giro di pochi minuti: sembrava quasi che le nuvole approfittassero delle ore di buio per sfogarsi, riversando tutta la pioggia che sostenevano ormai da giorni.
Si voltò, per riprendere la strada di casa, controvoglia.
Sparite.
Le altre ragazze erano sparite.
In pochi secondi, tutti erano scomparsi, senza lasciare alcuna traccia.
La luce all'interno della zucca più vicina tremò, tremò sempre di più. Svanì. Un pesante velo nero coprì la zona fino a quel momento illuminata dalla lanterna. Róisín corse nella via principale, stringendo il coniglio al torace, premendolo contro il cuore, cercando di non farlo uscire dal petto: batteva forte, contro le ossa, facendosi male.
- Ehi... - mormorò, girandosi.
Una folata di vento di ghiaccio la fece rabbrividire.
Due luci tremarono, svanirono.
- Ehi! - ripeté, a voce più forte. Ebbe un tremito quando si accorse di come fosse uscita spezzata.
- C'è nessuno? - gemette, facendo qualche passo avanti, i piedi che affondavano nel fango. Si sentiva soffocare. Le gambe si bloccarono. Non riuscì a muoverle.
"... no! Tu sai dov'è la strada di casa, Róisín!" si disse, serrando i denti fino a sentire le tempie pulsare dolorosamente: "Non lasciarti spaventare solo perché è notte! Gli edifici rimangono sempre al loro posto! Non si spostano!".
Deglutì e forzò le gambe a muoversi. Sentiva le labbra congelate. Il proprio corpo congelato, fin nelle vene, fin nelle ossa.
Qualcosa scivolò lungo una guancia, non una goccia di pioggia.
"... dove sono...?" si girò. Buio. Guardò dall'altra parte. Buio.
E la pioggia battente che la colpiva, il vento che la congelava.
"... dove sono...?" avanzò, sempre dritta. La via era dritta. Dritta.
"... ma io ho girato, per andare verso le case più esterne..." un singhiozzo: "... dove sono? Dove sono?".
Si passò una mano sugli occhi, le palpebre bruciarono: "Devo trovare un posto dove stare. Finché non smette di piovere. Fino a domani mattina.".
Si guardò intorno. Buio. Le luci delle zucche tremavano troppo. Non indicavano più una via. Sembravano piccole chiazze di luce casuali. Non riusciva più neppure a distinguere le facce.
"... dove sono...? Dove...?"
Il rumore degli zoccoli di un cavallo.
Colpì in pieno le sue orecchie, facendola girare nella direzione da cui l'aveva sentito provenire - da dove sperava provenisse.
Riuscì a vedere qualcosa, nell'oscurità: una sagoma enorme, tondeggiante. Poteva sentire un rumore di ruote.
- Aiuto! - gemette, avanzando verso la carrozza: - Per favore! Aiutatemi! - singhiozzò, la voce spezzata. Tremava.
La carrozza si fermò di colpo, a poca distanza.
"... mi ha sentita?"
Deglutì, qualcosa di caldo si accese nel suo cuore.
- Signorina? -
Si sentì gelare.
Il signor Ben ricambiò il suo sguardo, sorpreso: - Cosa ci fate, qui? -
Róisín non rispose. Era pietrificata.
- Come siete ridotta! - esclamò l'uomo, facendole cenno di entrare nella carrozza: - Venite al riparo! -.
Róisín non si mosse.
- Riuscite a muovervi? - domandò il signor Ben, esitante.
Róisín non rispose.
Gli voltò le spalle e proseguì nella direzione opposta.
- Signorina! -
Qualcosa di grande e caldo le premette sulle spalle. Mani. Le mani del signor Ben. Era sceso dalla carrozza.
Si sentì soffocare. Il ghiaccio aveva bloccato ogni via respiratoria.
- Andiamo, signorina. - lentamente, il signor Ben la girò, conducendola fino alla carrozza.
Una carrozza. Un luogo asciutto. Caldo.
Strinse i denti e salì, raggomitolandosi in un angolo, stringendo forte il coniglio di pezza, ormai fradicio. Probabilmente, i dolci al suo interno non erano più granché commestibili; sentì molti meno spigoli, dovevano essersi in gran parte sciolti e mescolati all'imbottitura.
La pelle si rilassò, lasciandosi accarezzare dal calore della carrozza. L'aria che entrò nei polmoni era calda, ma non riuscì a sciogliere quel ghiaccio che le bloccava la gola.
Chiuse gli occhi, desiderando di potersi strizzare i capelli bagnati che le pesavano sulla schiena; non osò farlo, non osò muoversi.
Il signor Ben aveva chiuso la portiera, impedendo al freddo di entrare.
Un rumore invase l'abitacolo. Róisín si ripromise di fare quattro chiacchiere con il suo stomaco.
- Avete fame? - domandò il signor Ben, nascondendo una risata.
Inutile negare. Il suo stomaco aveva parlato per lei.
Con una punta di vergogna, Róisín annuì.
- Non ho granché, con me... - disse l'uomo, cercando qualcosa nella tasca della giacca. Quando la mano guantata uscì, aveva tre caramelle colorate: - ... soltanto queste. Finché non torneremo all'istituto, dovrebbero bastarvi. -.
Róisín le osservò: erano intoccate, come appena uscite dall'industria che le aveva prodotte. E sembravano anche molto costose. Dunque particolarmente buone.
Il solo pensiero di quanto potessero essere gustose le fece venire l'acquolina in bocca. Allungò la mano.
Si fermò.
Guardò il signor Ben, titubante.
- Tranquilla, potete prenderle. - disse lui, incoraggiante: - Dolcetto o scherzetto? - rise.
Lo stomaco di Róisín si strinse con violenza. Stavolta per la fame.
Deglutì, si impose di calmarsi: "Smettila, Róisín. Sono solo caramelle!".
Le prese, ringraziando l'uomo con un cenno del capo. Ne aprì una e la mangiò. Era dura, sapeva di fragola. Il suo stomaco gioì, smettendo ben presto di fare rumori molesti. Non appena la finì, Róisín divorò la seconda, al limone. Infine la terza, forse frutti di bosco.
Come aveva sospettato, erano buonissime. Non aveva mai assaggiato dolci costosi: era felice di constatare che fossero effettivamente buoni.
- Vi sono piaciute. - non era una domanda.
Róisín annuì comunque.
- Come mai vi siete allontanata così tanto dalla via principale? - una domanda legittima, in fondo.
Róisín guardò verso la finestrella della carrozza: era oscurata dalla tendina rossa.
- ... mi sono persa. - rispose, piano. La voce continuava a tremarle. Si sentiva stanca.
- Perché non eravate con le vostre compagne? - chiese il signor Ben.
Róisín scosse la testa, indecisa su come rispondere. Una fitta. Portò una mano alla fronte, sentendola scottare.
"... forse mi sono presa il raffreddore.".
Il signor Ben sospirò: - Siete davvero distratta, signorina. Vi avevo anche raccomandato di fare attenzione! -.
Le fitte alla testa aumentarono. Róisín dovette premere il palmo contro una tempia, gli occhi le bruciavano. Ci mise qualche secondo a capire le parole dell'uomo. Pensò ad una risposta.
Non le venivano le parole.
Era faticoso, rispondere.
Forse avrebbe potuto farlo dopo.
La testa le faceva troppo male.
Una ragnatela di scariche roventi.
Chiuse gli occhi, tante esplosioni colorate.
Le tempie pulsavano.
Era faticoso, respirare. Sentiva un macigno premerle sul petto.
- State bene, signorina? -
La voce del signor Ben era lontanissima, le rimbombava nelle orecchie.
Aprì la bocca per inspirare, il naso non le bastava più.
Avrebbe voluto dormire, ma il dolore alla testa le impediva di farlo.
Le dita si strinsero nel vuoto.
Non c'era qualcosa, prima, lì? Il coniglio di pezza. Dov'era il coniglio di pezza?
C'era qualcosa di ghiacciato, sulle sue braccia. Le congelava il sangue nelle vene, le ghiacciava il cuore, lo imprigionava, fermava il suo battito.
Aprì gli occhi.

"Aspetti!" Disse il gentiluomo.
"Andiamo, signorina. Dolcetto o scherzetto?"



Le labbra erano congelate.
Tremavano.
Espirò, sentì le lacrime roventi rigarle le guance.
La sua voce si era spenta come le candele nelle lanterne.
Non usciva più alcun suono.
Solo rantoli soffocati che morivano nella carrozza.
Non era vero.
Era il preludio del risveglio.
Doveva essere così.
Doveva.
Non riusciva a muoversi. Nessuna parte del suo corpo le rispondeva.
Andare.
Doveva andare via.
Doveva.
Le labbra erano congelate.
Ogni cosa stava per fermarsi.
Ogni cosa sarebbe morta nella carrozza.
Come le candele nelle zucche.


Traboccante dolce miele cola
dalla zucca cava intagliata


Con la tua porta segreta forzatamente aperta
dormi ora



La giovane ragazza fu consumata

Piacere, desiderio,
uno scenario da incubo

La zuppa di zucca sta finendo

La ragazza si spezzerà completamente




- Róisín! Róisín! Oh, mio Dio, cos'è successo? -
- L'ho trovata priva di sensi nei pressi del cimitero. -
- Oh, Dio santissimo! Cosa ci faceva, lì? Cosa le è successo? -
- L'ho fatta visitare dai miei medici. Dicono che è stato un calo di pressione dovuto all'improvviso abbassamento della temperatura. Era completamente sporca di fango, mi sono preso l'ardire di farla lavare dalle mie domestiche. -
- Avete fatto benissimo, signor Ben! Vi siamo grate per ciò che avete fatto per Róisín! La porterò immediatamente nella sua camera! -

"... medici...?"
L'acqua.
L'acqua la ricordava.
L'acqua profumata, mani di donne che percorrevano la sua pelle.
La sua pelle, quella che bruciava. Bruciava, la consumava. Scopriva i muscoli, rompeva le vene, le svuotava del sangue, inceneriva le ossa.
I medici non li ricordava.
Solo mani di donne. E acqua. Tanta acqua profumata.
Lo sentiva ancora, quel profumo. Le invadeva le narici, le riempiva i polmoni, le torceva lo stomaco.
Quello era il soffitto della sua camera?
Sì, quello lo ricordava. Aveva tanto desiderato tornare lì. Lì era al sicuro. Lì era davvero al sicuro. Lì nessuno le avrebbe fatto del male.
Le dita risposero. Si girò verso di loro.
Apri.
Chiudi.
Tutte e cinque.
Alzò il braccio. Ci riuscì. Era sempre stato così pesante?
Premette l'altra mano contro il lenzuolo. Le dita risposero anche stavolta.
Si mise seduta, lentamente. Ogni cosa girava, fino ad un istante prima. Ora era tutto fermo. Meglio così.
Scese dal letto, azzardandosi a mettersi in piedi.
Rimase in equilibrio.
Sentì del dolore. Ma era passato. Ora era tutto passato. Ora andava tutto bene. Era tutto finito.
Doveva essere finito da ore.
Fuori era buio.
Sentiva il rumore della pioggia. Lo sapeva che non avrebbe smesso fino all'alba.
Era ancora notte.
Era la stessa notte?
Quanto tempo era passato?
Avanzò, fino a trovare la maniglia della porta. La abbassò, piano, per non fare rumore. Chissà se le altre stavano già dormendo.
C'era una luce, al piano di sotto. E delle voci.
Chissà se la signora Madre si era preoccupata per lei? Ah, ma la voce della signora Madre l'aveva sentita prima, era agitata. Forse sì, forse lei si era preoccupata.
Ah, la sentiva di nuovo. Era la voce della signora Madre quella dietro la porta del salone. C'era anche la voce della signorina Abaigeal. Prima non l'aveva sentita. Non le sembrava, almeno.
E poi c'era un'altra voce.
Le feriva le orecchie, sentiva il sangue colarle lungo le guance.
Non doveva farsi sentire. Non doveva farsi vedere.
Riusciva a rimanere in piedi. Sì, ci riusciva. Forse la signora Madre l'avrebbe protetta.
- Non dubitavo della sua irresponsabilità... - la signorina Abaigeal.
- Per fortuna che non è successo nulla di grave. - la signora Madre. La signora Madre non sapeva niente. Forse doveva dirglielo.
"... se lo facessi... questo posto... lui..."
Quel posto era sicuro. Lì sarebbe sempre stata al sicuro. Sì, lì sarebbe sempre stata al sicuro, davvero.
Quel posto sostenuto da lui.
Lui.
Le mura, i soffitti, i pavimenti. La sua camera. Lei.
Ogni cosa era sostenuta da lui.
Se avesse parlato, se l'avesse detto, se...
Piegò la testa verso il basso, sentì qualcosa strisciarle nella gola e uscire dalla sua bocca.
Inspirò, espirò, inspirò, espirò. Un palmo contro il muro, a sostenerla.
Ma non ce n'era bisogno. Riusciva a stare in piedi. Ora non girava più niente, era tutto fermo.
Si passò il dorso di una mano sulle labbra.
Le voci dietro la porta. Continuava a sentirle.
- Stavo pensando... - le tempie pulsavano. Sentiva il sangue ribollire.
Ogni cosa era sostenuta da lui.
Desiderò ne rimanesse schiacciato.
Lentamente.
Lentamente.
Che non morisse subito.
Lentamente.
- ... di adottare Róisín. -.
Tutto si congelò.
Scosse la testa. Gli occhi erano spalancati, le dolevano.
Fece un passo indietro. Scosse la testa.
"... no, signorina Abaigeal!" tremò: "Lui... lui non... io non vado bene, sono un demonio, vero? Vero, signorina Abaigeal? Io non vado bene per lui, vero? Lui merita di meglio, lui merita di... di... di rimanere schiacciato."
Non poteva esserci un sì.
Non poteva.
Non poteva.
- Oh, signor Ben! - non poteva, non poteva: - Ma certamente! - no! - Anche se, confesso, questa vostra scelta mi coglie davvero di sorpresa! Avreste potuto scegliere chiunque- -
"Scegliere. Prendere. Prendere. Prendere."
- Vi siete dimostrato così premuroso verso Róisín! - era la voce della signora Madre? Non era lei, non era lei, non- - Non vedo ostacoli all'adozione, signor Ben! -
Quel posto era sicuro. Lì sarebbe sempre stata al sicuro. Sì, lì sarebbe sempre stata al sicuro, davvero.
Quel posto sostenuto da lui.
Lui.
Ogni cosa era sostenuta da lui.
Ogni cosa era lui.
Quel posto era lui.
Doveva andare via.
Lontana.
Doveva andare via da quel posto, da lui.
La porta d'ingresso. Raschiò con le unghie, fino a trovare la maniglia. La abbassò, corse sul sentiero. Sentì tante punture sotto le piante dei piedi, coperte solo da calze. La pioggia era lieve. Il freddo era meno intenso.
Scappa.
Scappa.
Alcune candele, alcune candele erano accese.
Quei volti mostruosi avrebbero spaventato gli spiriti maligni - quei volti mostruosi avrebbero spaventato i maligni.
Il sentiero, ora lo vedeva. Era dritto, sì, era dritto come ricordava.
C'era il cimitero, laggiù.
Quello era un luogo sacro, nessuno le avrebbe fatto del male. Lì era al sicuro. Le zucche le indicavano la via, doveva seguirle. Le farfalle brillavano sopra il gatto nero.

Sto ancora cadendo e venendo da te
Non sono stata abbandonata
Risolvendo la magia delle caramelle
Bellissime farfalle sul gatto nero



Si lasciò cadere sull'erba, sdraiata all'ombra di una grande croce di pietra.
"Sono al sicuro, qui?" chiuse le palpebre, piano. L'erba era morbida. Non era secca. Era bagnata, questo sì. Ma aveva un buon odore.
Riaprì gli occhi, guardò il cielo nero: aveva smesso di piovere. Sarebbe ricominciata. Lo sapeva. Era solo una tregua.
Si mise seduta.
Faceva male. Anche se era tutto finito. Anche se lì era al sicuro.
"... sono al sicuro, qui...?" lo credeva anche per quella che aveva definito casa.
Faceva male. Ovunque.
Non importava che fosse finito. Perché il suo corpo non capiva che era tutto finito?
Aveva le guance bagnate.
Faceva male.
Il cuore faceva male. Faceva troppo male. Anche se era tutto finito.
Continuava a farle male. E, da quelle ferite aperte, diffondeva il dolore a tutto il corpo.
Sì, era da lì che partiva tutto il dolore. Da lì. Dal cuore. Che sputava sangue ad ogni battito. Che riapriva ogni lacerazione ad ogni battito, impedendo che si cicatrizzassero.
- Tu hai un cuore buono, Róisín. -
"... a cosa serve un cuore buono, se fa così male?"
Le parole delle altre ragazze e della signorina Abaigeal. Le loro accuse.
Le parole di Liosibhe, della signora Madre.
"... a cosa serve, tutto questo?"
Qualcosa luccicava debolmente, vicino alla croce. Si avvicinò.
Tanti chiodi lunghi un palmo di mano.
"... a cosa è servito avere un cuore buono?"
Ne prese uno. Lo guardò.
Il cuore faceva male. Troppo male.
"... non m'importa più niente." schiuse le labbra, le palpebre stanche: "Non me ne faccio niente. Se lo gettassi via... se lo gettassi via, allora..."
Faceva male, diffondeva quel dolore in tutto il corpo.
"... allora non sentirò più niente...?".

"Ho buttato via il mio cuore." Disse la ragazza.
"Spero di non sentire più niente..."



L'erba frusciava.
Un ritmo lento, deciso, che si ripeteva sempre uguale.
Non erano le fronde degli alberi. Non c'erano più tante foglie, negli alberi che crescevano nel cimitero.
Róisín distolse lo sguardo dalla croce di pietra.
Erano passi. Passi che si avvicinavano.
Non aveva paura. Lì non le sarebbe successo niente.
Era tutto finito. Stavolta era tutto finito. Stavolta anche il suo cuore si era convinto.
Per questo non faceva più male. Aveva capito che era tutto finito. Non doveva più farle male.
Delle scarpe scure. Delle calze chiare.
Erano piccole. Sembravano della sua misura.
Alzò lo sguardo.
Ginocchia chiare, pantaloni scuri. Un gilet scuro, una camicia bianca.
- Cosa ci fai qui? -
Una voce limpida, giovane. Maschile.
Dei chiodi gelidi le si conficcarono nelle braccia, nelle gambe. Trattenne il respiro.
Non sarebbe successo niente. Non lì.
- Ehi, tutto bene? -
Una folata di vento.
La voce era vicina. Più vicina.
Una mano chiara - la mano di un uomo - si posò su una spalla.
Lo stomaco si strinse. La afferrò, conficcandole le unghie nella carne, strappandola da lei e gettandola lontano. La mano con cui l'aveva presa le bruciava, il sangue le pulsava sotto i polpastrelli.
Aveva sentito un gemito di dolore. Bene.
Forse doveva allontanarsi, però.
- Non hai freddo? -
Due occhi azzurri. Somigliavano tanto ai suoi. Riusciva a vederli, sorpresi ed esitanti. C'era anche qualche ciocca bionda, su quel volto candido. Anche quelle somigliavano tanto alle sue.
- La pioggia ha spento parecchi lumini... - aveva curvato le labbra? - ... ma alcuni sono ancora accesi. Sono fiamme piccole, ma potrebbero andare bene lo stesso. -.
"Cosa vuole?"
Le parve fossero passate delle ore, quando il ragazzo scomparve con una folata di vento, inghiottito dall'oscurità. Lo sentiva ancora. I suoi passi sull'erba.
Era ancora nelle vicinanze. Il suono dei suoi passi cambiò: non più sugli steli bagnati, i piedi affondavano nel fango ancora fresco. Il rumore si interruppe poche volte, per pochi istanti. Tornò com'era prima, passi sull'erba carica di gocce di pioggia.
Due piccole fiammelle sospese discesero lente davanti ai suoi occhi, posandosi leggere sul suolo umido.
Un improvviso calore, intenso e piacevole, le accarezzò le braccia e il petto, sciogliendo man mano i brividi che, non si era accorta, li scuotevano.
Non si era mai resa conto di quanto dei lumini così piccoli fossero in grado di scaldare.
- Va meglio? -
Il ragazzo sorrise. Ora lo vedeva bene, alla luce delle fiammelle: gli occhi erano davvero come i suoi, grandi e azzurri. E le ciocche di capelli biondi, per quanto non lunghe come le sue, erano legate, ciuffi che ricadevano su una spalla. Non sentiva brividi gelidi. La sua voce era gentile.
- ... un po'. - non si stupì di quanto la propria voce fosse roca. Non era neppure sicura che l'altro l'avesse udita.
Forse sì, perché il suo sorriso si accentuò, illuminando anche gli occhi.
- Tra poco andrà meglio. - disse, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei: - Devono fare il loro effetto. -.
Róisín annuì appena. Non aveva voglia di muoversi.
- Certo che... - la voce del ragazzo era divertita? - ... fai scampagnate nei cimiteri e neppure ti premuri di portare lo stretto necessario. Non riesco a capire se tu sia incredibilmente forte o incredibilmente sciocca. -
- Tu sei forte, Róisín. O, forse, solo terribilmente sciocca. -
Abbassò lo sguardo. Le parole della signora Madre erano vuote. Però, forse, sì, aveva ragione. Forse era davvero sciocca. Ma non aveva più bisogno di porsi simili problemi. Quel cuore l'aveva gettato via. Era inutile ripensarci.
- A proposito... - tornò a guardare il ragazzo: - Io mi chiamo Len. Tu? -.
Róisín aggrottò la fronte: - Len...? - ripeté, piano, scandendo bene quel breve nome: - ... non l'ho mai sentito. Sei straniero? -.
Len scosse la testa, senza perdere il suo sorriso: - No, sono di vicino Port Láirge. -.
Róisín abbassò appena le palpebre: - Voi della costa siete strani. - giudicò.
Len, per tutta risposta, ridacchiò.
- Io... - si fermò. Trasse un profondo respiro e sussurrò: - ... mi chiamo... Róisín. -.
Era il suo nome, vero? Aveva faticato a pronunciarlo. Le sillabe erano uscite attaccate, distorte, fangose. Era sempre stato così, il suo nome? Non lo riconosceva. Le giunse alle orecchie ovattato, distante, come un nome a caso estratto da un elenco interminabile di cui nessuno, tantomeno lei, si sarebbe mai ricordato.
- Non ti piace il tuo nome? -
Guardò Len, confusa.
Il suo sorriso si fece un po' esitante - imbarazzato?: - L'hai detto in modo strano. Non sembravi molto convinta. -.
Sbattè le palpebre: "Se n'è accorto...?".
- ... è il mio nome. - mormorò: - ... credo. -.
- In ogni caso, è molto carino! - rise Len: - Anche se il mio è più bello. -.
Róisín sgranò gli occhi, punta nel vivo: - Prego? -
- E' breve. - il ragazzo posò il viso in una mano, il gomito puntato su un ginocchio: - Quindi è più facile da ricordare. E suona bene. E' bello, è facile, è molto meglio! -
La ragazza gonfiò le guance, gli occhi ridotti a fessure: - Ah, sì? Allora sappi che anch'io ho un nome carino, breve e facile da ricordare! -
Len aggrottò la fronte, visibilmente preso in contropiede: - Eh? Ma non avevi detto di chiamarti "Róisín"? -
- R... Rin. - compresse il suo nome. Era un suono carino, in effetti. Le dava l'idea di qualcosa di grazioso e brillante: - Mi chiamo Rin. E' un nome breve, facile da ricordare, che suona bene. Ed è molto più aggraziato del tuo! -.
Len aveva schiuso le labbra, gli occhi sgranati. Lo vide sbattere le palpebre, quasi avesse ricevuto una pallonata in pieno viso, stordito.
Lo trovò piuttosto buffo. Sentì le labbra tirarsi appena, forse un accenno di sorriso. Non le importò.
- Dovremmo chiedere ad un terzo. - disse il ragazzo, tornando in sé, con una nota di disappunto nella voce: - Anche se non credo sarà così imparziale. E' ovvio che darebbe la vittoria a te. -
- Eh? -
Incontrò di nuovo gli occhi azzurri di Len, una luce divertita: - Voi ragazze siete sempre favorite. Non ho possibilità contro una di voi, tantomeno una come te. -.
Róisín sbattè le palpebre, ripetendo tra sé e sé le parole che aveva appena udito.
- Che intendi dire? - domandò, non capendo. Sentiva qualcosa di sbagliato, in quelle parole. Non le piacevano.
- Beh... - Len alzò le spalle: - ... intendo dire che non è solo il tuo nome ad essere carino. - accennò ad un sorriso: - Non credo proprio che qualcuno, vedendoti, possa avere cuore di farti un torto. -.
"Cuore?"
Lo stomaco si strinse, un groppo alla gola bloccò le vie respiratorie: "... carina...?"
Delle mani grandi
Le vene si ghiacciarono
La sua stessa voce che le lacerava le orecchie, il sangue che strisciava lungo le guance
Schiuse le labbra, sgranò gli occhi
Dolore, troppo dolore
Era tutto finito, ogni cosa era finita, era finita, era finita, era finita, era finita, era finita
Gridò, i polmoni si spaccarono, le mani contro le orecchie bruciarono.
Il sangue ribolliva nel ghiaccio, pulsava contro la pelle, la feriva dall'interno, cercava di aprire una via per uscire.
Gli occhi scottavano, feriti da chiodi che non lasciavano traccia.
Era tutto finito, ogni cosa era finita, era finita, era finita, era finita, era finita, era finita
- RIN! -
Riaprì gli occhi. Gli occhi azzurri di Len. Erano sgranati, spaventati. Forse erano davvero come i suoi? Era quello ciò che Len stava vedendo?
Una mano era sospesa a mezz'aria: non sulla sua spalla, non vicina, non lontana.
- ... io... - le gocce che le rigavano le guance erano troppo leggere per essere sangue. Eppure facevano male come una ferita aperta: - ... io non... non sono un angelo. -. Deglutì, le braccia erano troppo pesanti: - ... non ho maschere... non ho mai... non ho mai voluto incantare nessuno... non sono... io voglio sorridere, ma... ma io non... non ho mai voluto... non voglio... io non... -
Len abbassò la mano, riportandola al proprio ginocchio. Il suo sguardo azzurro sembrava essersi spento. Era cupo. Un cielo annuvolatosi.
Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra, scuotendole il petto. Perché piangeva? Era tutto finito, ogni cosa era finita.
- Puoi stare tranquilla. -
Sbattè le palpebre: l'ombra era scomparsa dal viso di Len, sciolta da un sorriso sereno.
- Non sembri un angelo. -
Schiuse le labbra, incredula. Non era una frase carina, oggettivamente. Però non le dispiaceva.
- Non riesco a capire questa fissazione con gli angeli. - Len scosse la testa: - Non sono niente di speciale, in fondo. Le donne umane sono molto più belle. -
Róisín sentì le labbra curvarsi, premerle appena sotto gli occhi.
Il ghiaccio si sciolse, il fuoco si spense.
Poggiò la schiena alla croce di pietra, portò le ginocchia al petto e le circondò con le braccia. Il lumino era davvero caldo. Era piacevole.
- Ti intendi di angeli? - domandò, con una punta di curiosità.
Len parve pensarci un attimo. Poi rispose, la voce tranquilla: - Non sono ignorante di cose che riguardano l'Aldilà. -.
Róisín inclinò la testa di lato: - E' per questo che sei qui, nel cimitero? - chiese: - Hai il gusto dell'ultraterreno? O del macabro? -.
Il ragazzo sorrise. Sembrava sinceramente divertito: - Qualcosa del genere. Del resto, questa non è forse la notte di Halloween? Una visita al cimitero mi sembra obbligatoria, stanotte più che mai! -.
"La notte di Halloween...?" era ancora la stessa notte. Strinse le ginocchia al petto, deglutì. Aveva il controllo di ogni parte del corpo. Sì, ogni parte del corpo le rispondeva. Era tutto finito. Tutto finito. Non sentiva neppure più dolore. Era tutto finito.
- Sei qui con i tuoi amici? - domandò, concentrandosi sul piacevole tepore del lumino. Non riusciva a capire come fosse possibile, ma sembrava quasi che una mano gentile, buona, le stesse pian piano togliendo di dosso qualcosa di viscido, pesante, doloroso, rendendola più leggera.
- Possiamo dire di sì. - Len aveva una bella voce. Le piaceva. Non le faceva paura.
- State facendo una prova di coraggio? - chiese, con una nota di ammirazione.
Il ragazzo mise di nuovo il volto su una mano, lo sguardo chiaro pensieroso. Schioccò la lingua: - Sì. E' divertente vedere chi si spaventa prima. - le labbra si curvarono in un sorriso un po' strano, simile ad un ghigno: - Modestamente parlando, quello non è mai stato il mio ruolo. -.
Non sapeva se stesse dicendo la verità o se stesse solo facendo il gradasso; tuttavia, non poteva non notare come Len sembrasse a proprio agio, tranquillissimo, quasi quel luogo fosse il più sicuro sulla faccia della Terra.
"Lo è. Qui non succederà mai niente di male. Qui sono al sicuro.".
- Tu, Rin? - la ragazza si riscosse, tornando attenta: - Hai mai fatto prove di coraggio? - l'espressione di Len era fatta curiosa.
Accennò ad un sorriso: - Sì. - rispose: - Qualche anno fa. Due mie amiche ed io. Ma... - aggrottò la fronte, un sorriso imbarazzato: - ... fu a mezzogiorno. E finimmo per trascorrere qui l'intero pomeriggio. Quando siamo tornate all'istituto, la signorina Abaigeal ci ha fatto una bella sgridata. Ma ce lo meritavamo, una volta tanto... -.
Len ridacchiò. Róisín inarcò appena le sopracciglia: "... questo suono... mi sembra quasi di averlo già sentito...".
- Quindi tu... - esordì il ragazzo, la luce della curiosità ancora negli occhi: - ... vivi in un istituto? E' per caso quello grosso, bianco, non troppo distante da qui? Com'è che si chiama? "Damigelle dai Piedi Blu"? -
- "Giovani Donne dalle Celesti Radici". - lo corresse Róisín, portando una mano alle labbra per nascondere una risatina: - Modo carino per dire "Mocciose Raccattate per Strada e Disperatamente Educate per Essere Gentildame". E, sì, vivo lì. -.
Len sorrise: - Credo di aver notato le tue compagne, prima. Spero non ti offenda ma, con tutto il rispetto, erano a dir poco comiche. -
Róisín sventolò una mano, come per scacciare una mosca molesta: - Nessuna offesa, figurati. L'intero quartiere pensa siano ridicole. E io non mi discosto dal loro giudizio. -.
Il ragazzo ridacchiò. All'improvviso, si alzò, sotto il suo sguardo interrogativo. Si inclinò appena in avanti, piegò i gomiti e tirò indietro le braccia: - Oh, ma tutto questo zucchero rovinerà la mia pelle! - squittì, con una voce stridula che la spiazzò: - E tutte queste caramelle, ingrasserò senz'altro! Oh, oh, ora cosa posso faaaareeee? -. Portò una mano alla fronte, gettando la testa all'indietro: - Povera meeeee, che disdeeettaaaa! Di lasciar qui le caramelle son proprio costreeettaaaa! Oooh, ho fatto una riiimaaa! Come sono bra-a-avaaa! -.
Scoppiò a ridere. Róisín scoppiò a ridere, a pieni polmoni, a bocca aperta, facendo riecheggiare la sua voce. Qualcosa si spezzò, il petto divenne di colpo leggerissimo.
- Ma-a-aaa Riiiin! - cinguettò Len, raddrizzandosi: - Non si riiiideee così! Si ride cosììì! Ihihih! -
- Ma noooo, signorina Leeen! - trillò Róisín: - Si riiideee cosìììì! Ohohoh! -
- Come siete maleducata-a-a! Al massimo si ride Uhuhuh! -
- Qual volgare sguattera, signorina! Tuuutte le damine di buona educazione sanno che la pudicizia vuol cotal risata! Eheheh... -
- Qual malevolo ghigno, Riiin! Sarò volgare ma sincera, prediligo la buona vecchia risata popolana! Ahahah! -.
Rise. Non le importava come stesse ridendo, da quanto tempo. Róisín rise, fino a sentire le lacrime agli occhi. Ma quelle lacrime non facevano male. Neppure le guance che tiravano, neppure il fiato corto. Erano piacevoli. Era una sensazione piacevole.
- Ah! - si asciugò le lacrime, inspirando a pieni polmoni: - Non dovremmo urlare così tanto. Questo è un luogo di riposo. - si ricordò, sentendo il viso farsi più caldo.
Le tornò in mente un particolare: - Inoltre, stanotte gli spiriti stanno vagando. Non sarebbe saggio disturbarli. -.
Len si lasciò cadere sull'erba bagnata, ansante, gli occhi inumiditi: - Sì. Forse dovremmo fare più piano. -.
Ci volle loro qualche secondo per riprendersi. Poi Róisín si guardò intorno, in cerca di qualche ombra di aspetto umano: - Ma, Len... -
- Sì? -
- Possibile che i tuoi amici non ci abbiano sentito? Insomma, questo cimitero è grande, sì, ma non credo che- -
- Ah, probabilmente ci hanno sentito. - Len alzò le spalle: - Ma sono piuttosto timidi. Soprattutto con le ragazze. -.
Róisín inarcò le sopracciglia, ma decise di non farci troppo caso.






L'avevo detto che Sadistic Pumpkin non parlava di cose allegre.
Sì, forse il finale del capitolo potrebbe stonare con l'atmosfera delle scene precedenti, ma ha il suo perché.
*Leggasi: in fondo, sono due idioti.*
Mio primo vero tentativo di fare song-fic - la lyrics tradotta è stata presa dal video linkato nel capitolo precedente, con permesso chiesto&ottenuto d/alla traduttrice. Ho deciso di usare parte della lyrics anche come effettiva narrazione; non so se si possa fare, in una song-fic, ma trovo che il testo descriva quella determinata scena in modo giusto ma non "pesante".
*Quella scena le ha dato non pochi problemi. Spera di essere riuscita a renderla cupa come deve essere e di non essere stata superficiale.*

Non so come possa essere il risultato. Spero vi sia stato gradito, nonostante tutto. Se avete consigli o critiche, dite pure.
*L'assenza di faccine in queste note è dovuto al suo ritenere che "non è il caso di mettere faccine nelle note di un capitolo del genere". Anche se sembra arrabbiata, così. (?)*
  
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