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Autore: Rodelinda    27/02/2008    9 recensioni
"Le storie che voglio raccontare riguardano quelle ragazze che io, proprio perché “normale”, potevo solo osservare.
Carezzare un po’ con gli occhi. Guardare con la fiducia incondizionata di chi affida a qualcosa la propria attenzione.
Perché erano troppo belle, troppo intelligenti, troppo colte, troppo folli. Troppo."
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Mundus intra Mundo - Liceo Scientifico Torquato Tasso' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Cassandra (seconda parte)
Cassandra (seconda parte)

La parabola di Cassandra fu breve come la sua vita.
Quando lei e Sachiko erano in seconda io ero un primino; ma nel gennaio del mio primo anno di biennio entrai nelle grazie della giapponese.
E, da allora, assistetti al naufragio graduale della mente di Cassa sotto i suoi stessi colpi.

Fino alla metà della seconda l’amore di Sachi sembrò riuscire ad arginare la sua sofferenza in modo radicale.
Lei, che prima beveva e fumava più di Keith Richards, aveva improvvisamente smesso di indulgere in qualsiasi attività anche solo rischiosa. Appena una sigaretta ogni tanto.
Era uno spettacolo strano vederla arrivare a scuola perfettamente sobria: di solito era già ubriaca di prima mattina, o, a scelta, stava smaltendo la sbronza della sera prima.
Il colorito naturalmente ambrato aveva nuovamente preso possesso delle sue guance smunte ed era persino un po’ ingrassata.
Non dico che dimostrasse passione per l’atto di vivere, ma certo aveva trovato da qualche parte nella propria anima sofferente gli ultimi brandelli di forza per andare avanti in modo quasi normale; se non altro per vedere felice Sachiko.

Poi cominciarono gli screzi con i nonni.
Questi due anziani signori erano figure assolutamente singolari: l’avevano accolta in casa perché erano gli unici suoi parenti rimasti, e da parte loro, Cassa era l’unica erede.

Forse, se non le avessero fatto pesare il suo vuoto e la sua diversità (la sua “mutilazione esibita”, come la definiva Sachiko), Cassa non sarebbe ritornata nel tunnel delle sostanze psicotrope.
Forse, se avesse avuto una famiglia pronta a sostenerla, Cassandra non sarebbe morta.
Ma nella disgrazia c’erano parecchi aspetti tragici minori.

Il nonno di Cassa era un uomo ricco, ed estremamente decisionista. Pretendeva di controllare le vite di tutti coloro si trovassero sotto la sua podestà: Cassandra era tra questi, purtroppo.
L’anziano signore non tollerava la nipote perché, per lui, chi tentasse di sfuggire alla realtà era debole. Sua nipote non era riuscita a riprendersi dalla morte dei genitori, quindi rientrava in questa categoria; e lo era ancor di più perché faceva uso di tutto ciò che prendeva.
I suoi tentativi di farla reagire andarono dalle sberle, alle punizioni, al lasciarla senza cibo fino ai sermoni, in cui addossava a Cassa tutta la colpa della sua sofferenza. Da parte sua non esisteva, e non aveva alcuna intenzione di porsi in essere, un tentativo di comprensione.
Sì, il nonno lo sapeva. E non fece nulla.

La nonna di Cassandra era l’incarnazione del classico clichè della “signora del Country Club”. Sì, quelle ridenti anziane perbeniste, vestite con improponibili tailleur pastello e leggiadri cappellini con veletta (portabili al massimo dalla regina d’Inghilterra), il cui unico scopo nella vita sembra spettegolare su altra gente, dei figli di Tizio e del matrimonio di Caio, e punteggiare la conversazione con sciocche risatine.
Ovviamente, piuttosto che ammettere che la nipote aveva un problema – o meglio, più d’uno e parecchio seri – si sarebbe fatta crocifiggere con i tacchi delle sue orrende scarpe Manolo Blanhik.
Sì, la nonna sapeva. E non fece nulla neanche lei.

Forse, se avessero tentato di riempire il vuoto affettivo di Cassa, lei non sarebbe tornata tra le braccia dell’alcool e della droga; ma ormai è troppo tardi per scoprirlo. Fatto è che Cassa si sentisse ancor più triste e mutilata; forse aveva nutrito la speranza che i suoi unici parenti potessero essere un simulacro della sua famiglia, o che l’avrebbero sorretta nel suo sforzo di ricordare.
Aveva sicuramente sottovalutato il dispotismo del nonno, il quale si rifiutava di esternare il proprio dolore, ritenendolo un segno di un segno di fragilità e, non riconoscendo gli indubbi problemi della nipote nell’affrontare il suo lutto, pretendeva che ella dimenticasse in toto ciò che aveva vissuto con i suoi genitori. E, purtroppo, Cassandra era i propri ricordi: cancellarli avrebbe significato eliminare Cassandra stessa.

Non capendola, lui la maltrattava additandola come debole; e l’animo di Cassa, incapace di reagire, non riusciva a tamponare anche la delusione nel rendersi conto che i suoi nonni non solo non sarebbero potuti essere immagine di una famiglia, ma avrebbero cercato di strapparle quel poco che della sua famiglia era rimasto.
Fu per questo, per questa disperazione dell’essere, credo, che Cassandra prese la prima decisione in svariati anni di apatia.

Sachiko percepì quello che stava per succedere, ma non fece in tempo ad impedirlo.
Forse non voleva vedere: aveva tentato con tanta ostinazione di far reagire Cassa, e non si rese conto che i suoi demoni interiori l’avevano catturata di nuovo.
Un pomeriggio andò a trovarla per fare i compiti assieme, come al solito. I nonni erano assenti, pare per un breve viaggio all’estero.
Trovò la porta aperta ed entrò: dopo averla chiamata a gran voce (senza ottenere risposta), colta da un orrendo presentimento, salì a velocità folle le scale: la trovò sdraiata nella vasca da bagno del secondo piano. Aveva tentato di svenarsi, ma era riuscita (probabilmente per il dolore) a tagliarsi solo il polso sinistro.
Ciononostante l’acqua era rosa e Cassa stava per perdere conoscenza.
La reazione di Sachi fu immediata: chiamò un’ambulanza e le fasciò immediatamente il polso, stringendo il braccio con un nastro a mo’ di laccio emostatico.
Cassa arrivò all’ospedale in condizioni disperate. Per fortuna se la cavò.
Passò diversi giorni all’ospedale; nessuno a parte Sachiko andò a farle visita, tranne i nonni nel giorno in cui la dimisero.
Non so per quale ragione il tribunale dei Minori non la tolse alla famiglia, visto che era chiaramente questa una delle radici del problema, ma il signor Evandri (tale era, infatti, il cognome di Cassa) aveva amicizie in alto loco che, probabilmente, evitarono tale “vergogna”.

Poco prima di tornare a scuola, Sachiko le regalò il famoso bracciale in filigrana d’argento di cui ho già parlato. Era un bell’oggetto, largo a sufficienza da nascondere tutto il polso, composto da più placche quadrate lavorate con tale perizia da mostrare diversi motivi, frutti, fiori e foglie; al centro del membro principale vi era uno spazio concavo che recava incisa la scritta (in hiragana giapponesi) “Quando avrai smesso di amarmi, ricorda che io ti amerò ancora”.

Nacquero molte voci su quell’oggetto; la prima sosteneva che fosse un pegno d’amore. Sachiko, infatti, ne sfoggiava uno identico sul medesimo polso.
C’erano anche alcune leggende parallele sul momento in cui Sachi gliel’aveva dato; la più romantica diceva che i bracciali erano appartenuti alla nonna giapponese di Sachiko, una famosa geisha, e che Sachi ne avesse passato uno a Cassa dopo la “prima notte” in cui avevano consumato il loro amore, in ricordo eterno del loro legame.
Ovviamente, la totale ignoranza sugli avi di Sachi e sulle loro occupazioni di fatto invalidava tale diceria, benché avessero certamente azzeccato sul fatto che fosse un dono pensato per ricordare ogni giorno a Cassa che la giapponese l’amava.

Il secondo pettegolezzo sul gioiello era straordinariamente veritiero e so anche da chi partì.
Una mia compagna di classe, tale Giovanna Refraschini, si accorse che Cassa si rifiutava di toglierlo anche quando sarebbe stato più ragionevole farlo: ad esempio alle selezioni per il torneo scolastico di pallavolo o quando, nel corso pomeridiano d’arte, si dipingeva a olio.
Una volta un ragazzo tentò di sottrarglielo per scherzo, e Cassandra si riscosse come miracolosamente dal suo torpore. Divenne rossa dalla rabbia, si protesse il polso e tirò allo sfortunato burlone un tale calcio in mezzo alle gambe che questi si accasciò a terra mugolando.
Giovanna, che era un tipo perspicace, capì che quel monile nascondeva qualcosa.
In preda a un impeto deduttorio, in puro stile Sherlock Holmes, si mise a raccogliere le prove che qualcosa non andava:
1. Cassa aveva qualcosa sul polso che voleva nascondere;
2. Cassa era stata ricoverata per alcuni giorni, ufficialmente a causa di un’intossicazione alimentare;
3. Sachiko sapeva qualcosa, ma non parlava e aveva, evidentemente, parte in quella stessa faccenda che Cassa stava tentando di nascondere;
4. Sachiko stava proteggendo Cassa col suo silenzio;
Tenendo conto di queste cose, Giovanna ci vide giusto: disse che, poiché non era il polso stesso a dover essere nascosto, Cassa voleva con il bracciale celare la cicatrice che un tentativo di suicidio recentemente aveva provocato; inoltre, sostenne (e a ragione) che Cassandra non fosse stata ricoverata per intossicazione, ma per il tentativo di uccidersi, fortunatamente non andato in porto.
Io, a conoscenza di tutta la storia, mi rendevo conto che Giovanna era stata inopportunamente acuta.
In effetti, anche perché aveva una base di prove a sostenerlo, questo pettegolezzo ebbe un successo eccezionale, tanto da essere assurto per vero praticamente da tutti.
In ogni caso, da quel gesto disperato, Cassa sembrò non riuscire più a fare a meno né dell’alcool né della droga.
Già in seconda aveva superato da tempo lo stato delle semplici canne, ed era passata da un po’ alle sostanze psicotrope e agli oppiacei pesanti.
I cocktail descrittimi da Sachiko, nei momenti in cui lo sconforto riusciva a scardinare la sua impeccabile riservatezza, erano allucinanti: mescolava la codeina al whisky, assumeva cristalli di LSD a giorni alterni e, quando né calmanti né Prozac1 né Ritalin2 e neppure l’acido riuscirono più ad acquietare i suoi incubi mentali, passò al crack.
Inizialmente lo assumeva con circospezione, visto l’elevato costo e la potenza della sostanza stessa. Ma presto iniziò a dare i primi segni d’assuefazione. E, anche in questo caso, emerse che i nonni non volevano fare nulla per aiutarla.
Quando la nonna di Cassa si rese conto che la nipote non era un prodigio di salute mentale (evidentemente tutti e due dovettero subodorare qualcosa quando la videro attaccata alla flebo all’ospedale con un polso tutto fasciato) non reagì come il marito – ossia attribuendo alla nipote e solo alla nipote stessa l’unica responsabilità della sua incapacità di reagire e sgridandola per questo – bensì come ci si aspettava che una benpensante dovesse fare. Ossia coprendo la cosa. Non cercò nemmeno di curarla, o di farla smettere. Si limitò a prendere atto della tossicodipendenza di Cassa, e arrivò al punto di dare alla nipote tutto il denaro che voleva (anche diverse centinaia di migliaia di lire per volta) pur essendo cosciente che sarebbe stato investito in qualche altra strana pillola, qualche altro sacchetto di sostanze sconosciute che avrebbe poi rinvenuto tra le cose di Cassandra.
Tutto questo per evitare di divenire oggetto di pettegolezzo nel loro esclusivo club di amici altolocati.

Sachiko, dopo il tentato suicidio, ebbe un colloquio assolutamente surreale con l’anziana coppia di coniugi. Colloquio che le fece chiaramente capire che era inutile sperare nel loro aiuto per sostenere la mente provata dell’amata.
L’anziano signore uscì recisamente dalla stanza non appena Sachi tentò di introdurre (con delicatezza estrema) il tema della depressione di Cassandra. La nonna, nervosamente, si limitò a invitarla a uscire dalla loro casa e ad informarla che la salute fisica e mentale della loro unica nipote era sotto la loro giurisdizione e non sotto la sua.

Sachi tentava di aiutarla come meglio poteva. Le sequestrava il denaro, versava nello sciacquone tutte le sostanze sospette che le capitassero sotto mano. La portava da uno psicoterapeuta, investendo in modo proficuo il danaro che quasi quotidianamente la signora Evandri dava alla nipote.
Ma Cassa no, non reagiva. Smetteva finché non aveva nulla, ma ricominciava appena aveva la possibilità di farlo.
Sachiko, amandola profondamente, si prendeva cura di lei. Capiva che la mente di Cassa era ancora più contorta di quanto immaginasse; e che la droga non era una fuga, ma una semplice necessità. Perché le probabilità di morire non preoccupavano la ragazza, che non si sentiva veramente viva, e l’unica cosa che l’atterriva era la possibilità di trovarsi di nuovo di fronte al dolore che provava quando era lucida e si rendeva conto che riportare in vita i suoi ricordi era impossibile.

L’unica volontà effettiva di Cassandra consisteva nel voler passare più tempo possibile con Sachiko.
Quando stava con lei quel vuoto non faceva male, e lei non aveva bisogno di assumere nulla.
Ma quando Sachi era lontana, magari di notte, sola, nel suo letto, Cassa, puntualmente, si sentiva sull’orlo dell’abisso.

Perché Cassandra non moriva?
Sì, ci aveva provato, in effetti, ma perché non tentava ripetutamente fino a riuscire?
Credo che il merito fosse in massima parte di Sachiko. Pur non considerandosi viva nel puro senso del termine, quando aveva conosciuto la Giapponese il suo nulla interiore aveva iniziato a placarsi (almeno parzialmente).
Cassandra viveva solo per lei; sapeva che avrebbe sofferto se fosse morta, quindi si aggrappava a quei pochi stimoli che le rimanevano per non farla finita.

Ma, man mano che il tempo passava, ogni cosa funzionava sempre meno. Quando sia il crack che la cocaina persero il loro effetto, o comunque lo ridussero di molto, Cassa rimase un po’ interdetta,
Era conscia che le rimaneva ancora solo una cosa: e che, una volta provata quella, non le rimaneva altra soluzione perché ne sarebbe diventata sicuramente dipendente e non avrebbe mai avuto abbastanza forza di volontà per liberarsene.
Prima di cominciare a bucarsi, perciò, Cassa trascorse un periodo di relativa tranquillità, ma Sachiko non si illuse. Sapeva che erano gli ultimi residui di coscienza a trattenerla e non il desiderio di smettere del tutto con gli stupefacenti.

Infine, a metà del quinto anno, Cassa cominciò con l’eroina. A spingerla fu una gravida, pesante sensazione di solitudine: il Natale per lei era un periodo orrendo, come per tutti gli orfani. Vedeva tutte queste pubblicità e programmi TV pieni di famiglie felici, consapevole che per lei erano rimasti solo dei ricordi, o i rimasugli di essi. E che quando tornava da scuola trovava non una casa accogliente, ma freddezza e perbenismo, cattiveria e indifferenza.
Quindi, spinta dalla depressione, scelse di iniziare a bucarsi.
Sachiko capì che aveva cominciato dai segni sulle braccia, dall’indolenza ancor più accentuata e dalle classiche pupille a spillo (oltre che dallo sguardo vacuo).
Tentò di persuaderla a lasciar perdere intanto che era in tempo, ci provò in tutti i modi possibili: suppliche, proteste, scazzi feroci.
Non riuscì, ovviamente. Sachiko scoppiava spesso a piangere, in quel periodo, chiamando quella roba “L’anticamera della morte.”

La carriera di eroinomane di Cassa procedeva attraverso un’escalation incredibile di dolore e terrore: verso febbraio Cassa si iniettò una dose eccessiva e andò in overdose; ancora una volta Sachiko la trovò casualmente e appena in tempo.
Mi racconto che l’aveva trovata, fredda e immobile, sdraiata sul divano nel salotto che precedeva la sua camera; aveva ancora la siringa in mano e il laccio emostatico legato all’avambraccio.
L’ambulanza arrivò tempestivamente, e l’iter di degenza ricominciò daccapo.

Quella fu la prima e unica volta che vidi Cassa da vicino, visto che andai a trovarla in ospedale con dell’uva e un mazzo di fiori.
Fu uno spettacolo che non dimenticai mai più.
Cassa era sdraiata su un letto, di fianco a lei stava seduta Sachiko, che indossava un complicato kimono di seta grigia e azzurra e le tamponava il viso smunto con morbide salviette umide e profumate.
Cassandra giaceva semicatatonica, magrissima e quanto mai fragile. I lunghi capelli neri erano ordinatamente raccolti in due trecce che facevano da cornice al suo volto, le guance incavate; le grandi iridi celesti erano fisse sul viso di Sachi e la osservavano con uno sguardo amoroso e insieme melanconicamente interrogativo; sembravano chiederle: « Perché mi hai salvato? »
La quieta rassegnazione, la passiva accettazione del dolore che si potevano leggere in quelle iridi mi sconvolse; Cassandra pareva un angelo trattenuto a terra dalle flebo.
Non mi rivolse la parola: per lei nella stanza c’era unicamente Sachiko. Solo lei.
Forse, le stava dicendo addio.

Quando la dimisero, la fine della scuola era imminente e molti pensavano già agli esami; ma quella maturità tanto agognata Cassandra non la raggiunse mai.
Rimase cristallizzata nella propria eterna giovinezza, perché un martedì maledetto si arrampicò in qualche modo sul tetto dal balcone del soggiorno e, nonostante le urla del giardiniere che avevano fatto accorrere la servitù allarmata e la nonna, si buttò giù.
Cadde di testa sul selciato, e morì sul colpo.
Mi dicono che ci fu un’infinitesimale esitazione prima che i suoi piedi lasciassero la solida superficie delle tegole per buttarsi nell’ultimo, infinito vuoto.
Pensava a Sachiko? Chissà.

Il dolore di Sachi fu immenso. Passò tre giorni chiusa in camera sua a piangere, disperata. Quando tornò a scuola era irriconoscibile. Non era truccata come al solito, i capelli erano arruffati e avevano l’aria di non essere stati pettinati da parecchio, mentre il kimono che indossava era sghembo e stirato male.
Quando entrò in classe e vide il banco vuoto di Cassa, realizzando che non sarebbe mai più stato occupato da lei, ebbe un crollo nervoso e iniziò a mugolare, piangendo, dondolandosi avanti e indietro. Dovettero farla ricondurre a casa, dove le diedero un sedativo.
Rimanemmo tutti stupiti di fronte al modo di reagire di Sachi, che era solitamente fredda e dignitosa. Anche coloro che dubitavano che tra le due potesse esistere un rapporto d’amore si dovettero ricredere.
Ad ogni modo, gli esami furono eccezionalmente posticipati di una settimana per permettere a tutti gli studenti di partecipare alla veglia e andare al funerale.
Nonostante l’impopolarità della morta, molta gente prese parte alla cerimonia; la chiesa, quel mattino, straripava di gente.
Il funerale si fece a bara aperta, cosicché anche chi non era venuto alla veglia poté vedere Cassandra.
Mi stupii nel constatare quanto il viso smagrito della ragazza fosse sereno, così diverso dalla sua solita espressione vacua. Un piccolo sorriso increspava verso l’alto le labbra pallide, e non penso che fosse causato dal rilassamento post-mortem dei tessuti.
Sachiko era vestita tutta di bianco, colore che in Oriente rappresenta il lutto, ed era seduta in una posizione defilata, quasi non si volesse far vedere. Ma spiccava come un pugno su tutti i convenuti.
Fissava la bara, i grandi occhi scuri a mandorla sgranati, le lacrime che non smettevano di scendere, lasciando lunghi solchi di rimmel sul fondotinta.
Continuava a toccarsi il bracciale al polso sinistro. Cassa, nella bara, portava l’altro.
Molte persone fecero le condoglianze a lei, piuttosto che ai nonni.
Oltre a Sachi, la cosa più sorprendente fu Alex.
Da principio non la riconobbi nemmeno.
Indossava un elegante tailleur giacca e gonna nero con collant scuri.
I suoi capelli non erano più una criniera ribelle, ma lisci e lucenti, raccolti in un alto chignon sul sommo del capo.
Era lievemente truccata e, cosa ancor più anomala, la sua espressione era mortalmente seria: tanto che non fui solo io a non identificarla, di primo acchito.
Molti si chiesero perché fosse venuta al funerale della sua vecchia nemica.
Credo di avere una risposta: come disprezzava e insieme amava sé stessa (connubio che la spingeva a nascondersi dietro la propria maschera di perpetua allegria), Alex odiava e stimava Cassa.
Perché Cassandra era la proiezione visibile di ciò che lei aveva ricusato: la sua parte triste, tormentata.
Più che al funerale di Cassa, quindi, era andata a veder seppellire una parte di sé stessa.

***

Dopo di allora, ad ogni rimpatriata dei compagni del liceo, si evita di accuratamente di parlare di Cassandra: è come un argomento tabù e se, per caso, il suo nome salta fuori, scende il silenzio.
È stata sepolta al cimitero-parco della città, tra i suoi amati genitori. I nonni, deceduti la prima quattro anni fa e l’altro l’anno passato, invece, sono stati tumulati al cimitero monumentale.
Ancora oggi, nell’anniversario della sua morte, arrivano mucchi di fiori sulla tomba di Cassandra e, muti, si possono vedere molti ex liceali del Torquato Tasso fare silenti pellegrinaggi sulla semplice lapide scura.
Tra i fiori spiccano due mazzi.
Le rose rosse sono da parte di Sachiko.
I girasoli, invece, si dice che siano di Alex.
In mezzo a quei colori, non posso che ricordare il sorriso sul viso di Cassandra, quando giaceva nella bara.
Credo che sia riuscita, volando giù dal tetto, a veder rivivere i suoi ricordi.

***


Ritalin e Prozac= psicofarmaci. Il primo è uno stimolante (usato, tra le altre cose, per curare l’iperattività), il secondo è contro la depressione.


Chiedo infinitamente scusa per la lentezza impressionante con cui correggo e rivedo i capitoli, ma al momento ho cose piuttosto importanti di cui occuparmi, che esigono gran parte della mia attenzione.
Anche “Illegittima Eternità” procede molto più lentamente di quanto vorrei, e ciò non è incoraggiante, ma sto cercando di fare del mio meglio.
Ed eccoci giungere di nuovo allo spazio risposte alle recensioni.
Hinata Hyuuga= Ti ringrazio veramente molto per i complimenti. Mi crea sempre molta soddisfazione ricevere apprezzamenti sinceri per ciò che faccio, anche quando questo non mi soddisfa pienamente. Di nuovo grazie.
Lidiuz93= Anche qui, più che ringraziare non posso dir molto, se non, come ho già detto e ribadito ripetutamente, amo moltissimo ricevere apprezzamenti sulle mie opere. Fondamentalmente perché esse, spesso, non soddisfano me in prima persona e allora amo che qualcuno comunque riesca ad amarle. Grazie.
Ilychan= Ribadisco che le tue recensioni mi riempiono di soddisfazione, per una ragione piuttosto semplice: mi danno uno spaccato sui sentimenti personali che il singolo prova trovandosi al cospetto del personaggio. Tu fornisci tue opinioni; e amo rispondere a tono. Sì, è vero, per vivere occorre forza: soprattutto per vivere davvero. Altrimenti il tuo cuore batte, e i tuoi polmoni si gonfiano e sgonfiano, ma non stai vivendo. Stai esistendo. Ed esistere è brutto. Semplicemente. È tempo, è respiro, è sangue sprecato. Più sprecato che morire.
Però (mi si permetta una citazione), forte come la morte è l’amore. L’amore è pulita dignità.
Cassa rappresenta molto questo concetto. Nella riscrittura, ci è scivolato dentro, e lei l’ha rivestito.
Lady Ligeia= Grazie mille per i complimenti! Per me le riscritture sono un metodo per fornire precisione nelle descrizioni psicofisiche e nelle storie personali di ciascun personaggio.
Grazie di nuovo!
Hikari= Il tuo commento mi è piaciuto, perché contiene una critica velata. Una critica che tu forse hai scambiato per un complimento.
Dici che ti piacciono “una scuola, un gruppo di studenti un po' strano e una morta” , come se fossero situazioni assodate. Questo, in corso di correzione, mi ha portato a pensare che i personaggi, la storia, soprattutto Sachiko e Cassandra, fossero troppo stereotipati. Purtroppo era troppo tardi per correggere, per rivedere tutto. Mi spiace. Credo che “Istituto Torquato Tasso” rimarrà per sempre una spina nel fianco della mia produzione creativa. Non sono mai soddisfatta di niente.
I personaggi mi sfuggono, non riesco mai a definirli come vorrei io.
Dannazione.
Contessa= Come ho già detto, anche se Cassa è stata un po’ ridimensionata, non riesco a liberarmi del sospetto che sia venuta troppo carica come una saint honoré con troppa vaniglia.
Lei e Sachiko non riescono a rendermi appieno convinta. Non capisco cosa ci sia che non va; nemmeno la riscrittura basta a soddisfare il mio desiderio di perfezionismo!
Accidenti… Comunque grazie per i complimenti…
Miss Black_Lady Riddle= Come ti devo chiamare? Miss Black o Lady Riddle? Che nick complicato! Comunque grazie per essere venuta a leggere e a commentare, e soprattutto grazie per essere venuta a complimentarti! Mi fa piacere che tu li trovi concreti: magari non mi soddisfano in tutto il resto, però ho ottenuto almeno un risultato. E con tutto questo spero di riuscire, almeno in un capitolo, ad avere quello che mi sono imposta di conseguire con questa storia.
Grazie di nuovo, e tanto!

E con questo, vi dico un sincero a presto!
   
 
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