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Autore: Nina Ninetta    27/08/2013    2 recensioni
June è una ragazza ventenne rimasta a casa per ripassare l'esame universitario di Diritto Romano che l'attende di lì a qualche giorno. Quando tuttavia scende la notte, l’energia elettrica salta a causa di un improvviso e violento temporale estivo che lascerà l’intera cittadina al buio. June soffre di acluofobia, la sua paura più grande quindi è la totale mancanza di luce, un terrore viscerale che le attanaglierà lo stomaco come un serpente. Pur di non restare da sola scenderà a compromessi con sé stessa: accettare la compagnia del suo odiato vicino di casa.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#3
April o June? Questo è il problema!

 

Mi lasciai scivolare con la schiena contro il muro, una mano schiacciata contro la parete per non ruzzolare a terra come una pera cotta, l’altra stretta in quella di Steve, a cui sobbarcai la maggior parte del mio peso per non infierire sulla caviglia malconcia.
Lo osservai in silenzio cercare a tentoni la pila che aveva fatto cadere, pregando affinché la trovasse e, soprattutto, che non si fosse rotta. La trovò e quando l’accese la luce traballò un pochino, poi divenne fissa e mi sentii sollevata. La luce mi fece lo stesso effetto dell’ossigeno puro, come se fossi rimasta chiusa in una stanza senza aria.
Si piegò sulle ginocchia puntando il raggio di luce sulla caviglia, quindi allungò la mano per toccarla, ma istintivamente la ritirai. Non so da quanto tempo mi stavo pizzicando il labbro inferiore. Lui sospirò:
«Voglio solo accettarmi che non sia rotta» aveva sempre quel fare superiore che detestavo e mi faceva sentire ancor più piccola e vulnerabile. E mi faceva infuriare:
«Non lo è» sbottai «E’ solo slogata»
«Ah davvero?» mi puntò la luce in faccia, con quel sorriso sghembo, gli occhi mi si chiusero infastiditi, troppo abituati al buio «E da quando sei diventata un ortopedico?».
Scandì l’ultima parola come se si stesse rivolgendo ad un completo idiota. Per dargli dimostrazione che io avevo ragione e lui torto distesi la gamba e lui tornò con la luce sulla caviglia, intorno alla quale chiuse tre dita. Quel contatto mi fece salire un brivido su per la gamba, lungo la spina dorsale, provocandomi un vuoto allo stomaco.
Lo detestai ancor di più, come se fosse colpa sua per quella mia reazione imprevista e … eccitante. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo profilo, aveva un’espressione seria, attento ad analizzare lo stato di salute della mia caviglia. La luce creava giochi di ombre e pallore sul suo viso sbarbato.
Era come se lo vedessi veramente per la prima volta.
Un rombo di tuono echeggiò forte, come se avesse voluto introdurre a modo sua la pioggia, fitta e intensa, che venne giù con una forza spaventosa. Sussultai portandomi una mano intorno alla gola, ero così tesa che sarei scattata come una molla anche solo per una mosca che mi volava troppo vicino. Voltai il capo per guardare oltre la porta d’ingresso, ancora aperta, l’acqua era così densa che non riuscivo a vedere neanche il cancello all’entrata del vialetto. Tornai a guardare Steve e i nostri occhi si incontrarono, teneva ancora la mano sulla caviglia dolente, adesso il dolore era pulsante, ma decisamente più sopportabile, la tirò via, ma rimase chinato sulle ginocchia, la torcia abbandonata sul pavimento:
«Non è rotta» disse «Bene»
«Te lo avevo detto!» adoro affermare questa frase.
Ma infondo quale donna non la ama?
Lui sorrise e scosse il capo, toccandosi la nuca, forse era un gesto consueto, forse era l’equivalente del mio pizzicare il labbro inferiore.
«E’ meglio metterci del ghiaccio sopra, prima che diventi una mongolfiera» voleva essere una battuta carina, ma io non ricambiai il suo sorriso, gli chiesi invece:
«Come hai fatto ad entrare?»
«Con queste» rispose, mostrandomi due chiavi tenute insieme da un vecchio portachiavi di mia madre «Il ghiaccio. Dov’è?» aggiunse, i miei occhi erano diventati due fessure
«Perché hai le chiavi di casa mia e del cancello del vialetto?»
«Non sapevo nemmeno che ce le avessi a dire il vero. L’ho scoperto stasera» sospirò rumorosamente, come a farmi intendere che stava perdendo la pazienza, il suo sorriso era scomparso «Il ghiaccio» affermò di nuovo.
Rimasi qualche secondo in silenzio, prima di riprendere con il mio personale interrogatorio, da fuori lo scroscio impetuoso del temporale:
«E perché sei venuto qui?» si passò una mano sul viso, scattando in piedi come uno di quei pupazzi a molla che saltano fuori quando apri il coperchio della scatola nella quale sono contenuti. Mi hanno sempre spaventato molto da piccola, li immaginavo a starsene tutto il tempo chiusi in un luogo angusto, in attesa di qualcuno che li liberasse. Pensieri d’infanzia.
«Sai una cosa?»  mi disse, guardandomi dall’alto, tenendo in mano la pila con la luce, lo guardai ipotizzando quello che stava per dirmi e temendo che si potesse avverare «Tutto sommato stai benone. La caviglia è un po’ malconcia, ma non morirai. Sei più nuda che vestita, ma non siamo a meno zero gradi, quindi non congelerai» a quelle parole arrossii, avevo le guance in fiamme e, credo per la prima volta nella mia vita, fui contenta di quell’oscurità «Stammi bene … April» scorsi quel sorrisetto da pugno in affaccia e feci per replicare sul mio nome, avrei voluto chiedergli se fosse imbecille di suo oppure si sforzava di esserlo ancor di più di quanto già non fosse, ma poi fece una cosa che mi raggelò il cuore, la mente e tutti i muscoli.
Spense la torcia e il buio mi avvolse come una coperta gelida.
Ad un tratto la situazione mi fu, paradossalmente, chiara come il sole: lui significava luce. Se fosse andato via lui, allora sarebbe andata via anche la luce. Ovvio. Se la corrente era saltata in casa mia, doveva esser saltata anche in tutto il quartiere e di sicuro non sarebbe rimasto al buio senza torcia, l’avrebbe portata con sé.
Annaspai nell’ombra, prima di trovare la sua gamba e aggrapparmi ai jeans che indossava. Non si era mosso dal suo posto, riflettendoci con il senno di poi, forse non aveva mai avuto intenzione di andare via, forse non mi avrebbe mai lasciata sola, forse il suo intento era quello di spaventarmi e, devo ammettere, ci era riuscito benissimo.
«E’ nel freezer» esclamai, trattenendomi dal dirgli di non andare via
«Prego?» chiese con quella voce irrisoria a cui mi sforzai di non badare, avevo bisogno di quella maledetta pila
«Il ghiaccio» spiegai con una certa impazienza «E’ nel freezer» riaccese la torcia e mi puntò la luce in faccia, proprio come aveva fatto pocanzi, ferendomi nuovamente le pupille, d’istinto voltai il viso dall’altra parte
«Oh, davvero? E io che credevo fosse nel forno!» la luce che vedevo proiettata contro il muro si abbassò e capii che aveva distolto il fascio all’altezza del mio viso, mi girai nella sua direzione ritrovandomi i suoi occhi ad una spanna dai miei. Deglutii. «Dov’è il frigorifero?» glielo indicai e si voltò indietro, la cucina era immersa nel buio più totale, quindi illumino la direzione con la torcia.
Mobili di ciliegio apparvero come per magia, un tavolo quadrato per quattro persone era coperto da un centrotavola ricamato a mano, di un bianco candido; le pareti erano decorate da piatti dipinti con minuzia dei particolari, tutti rigorosamente artigianali.
Mi lanciò un’ultima occhiata divertita, si alzò e mi posò una mano sul capo:
«Non ti muovere di qui. Torno subito» come se potessi farlo davvero, pensai, e mi parve che stesse sorridendo quando aggiunse «April» di nuovo aprii la bocca per replicare, ma lui si era già allontanato.
 
Lo osservai in silenzio trafficare nella cucina di casa mia. Mi faceva uno strano effetto vederlo lì, nella mia routine e, soprattutto, mi stupivo a provare un senso di sollievo. Seduta sul pavimento, con la porta d’ingresso aperta su una vera  e propria tempesta primaverile, di quelle che danno l’addio all’inverno e il benvenuto all’estate, mi tornarono in mente le ragazze del mio corso universitario, quelle che si portavano le mani davanti alla bocca ed esclamavano, tutte eccitate, di quanto io fossi fortunata, di quanto fossero invidiose di me, e mi scappò un risolino pensando a cosa avrebbero potuto dire se avessero saputo la situazione in cui mi trovavo in quel momento.
Era da circa due anni che Steve si era trasferito alla villetta accanto alla mia. La prima volta che l’avevo visto era stato un giorno di fine estate. Quando avevo sentito il rombo di una macchina avevo alzato gli occhi dal libro che stavo leggendo (mi pare che fosse Il Signore degli Anelli, di Tolkien) e l’avevo seguita con gli occhi passarmi davanti ed arrestarsi nel vialetto dei miei nuovi vicini. Con i vetri scuri mi era stato impossibile vedere chi vi fosse al suo interno, avrei potuto continuare a leggere e lo feci, nonostante la curiosità.
In realtà tenevo lo sguardo fisso sulle pagine aperte del libro senza comprendere una parola di quello che leggevo, ma con l’udito sull’attenti. Lo sportello dell’auto si era aperto e poi richiuso con un tonfo sordo. Per qualche secondo era stato solo il frusciare degli alberi e dell’erbetta appena tagliata del mio giardino. L’aria sapeva di terra e acqua. Chiunque fosse uscito da quella macchina sportiva – e sebbene non me ne intenda molto, intuii che doveva essere anche abbastanza costosa – mi stava fissando, lo sentivo come sentivo la brezza fresca sulla pelle nuda delle gambe e delle braccia.
Con fare scocciato ricordo di aver chiuso il libro con veemenza e di averlo guardato di sottecchi, senza girare il collo nella sua direzione:
«Ti sei perso per caso?» aveva mosso gli angoli della bocca all’insù.
Avevo solo diciassette anni quell’estate e lui mi parve da subito più grande di me di qualche primavera. L’avevo visto incamminarsi verso il selciato che divideva le nostre due proprietà, ampliando quel suo sorriso beffardo che odiavo.
Non riesco mai a distinguere una frase vera da una bugia, una battuta da un’espressione seria; non so mai se la gente, con questo sorriso dipinto sul volto, mi stia prendendo in giro o faccia sul serio. Mi fa sentire stupida.
Mi protese la mano, presentandosi come Steve Robert, il primogenito degli Smith.
Continuando a sbuffare, come se alzarmi dal dondolo sul quale me se stavo beatamente sdraiata fosse la cosa più difficile del mondo, mi avvicinai tenendo la distanza di sicurezza e ricambiai la stretta, pronunciando il mio nome.
Il suo sorriso si ampliò, come se gli avessi detto di chiamarmi Paperina! Mi irritai e tirai via la mia mano dalla sua:
«Che nome è June? June non è un nome, è un mese!»
«June è il mio nome!» avevo detto stizzita, tornando a sedermi sul dondolo e riprendendo a leggere (senza farlo davvero) sperando che lui avesse capito l’antifona e avesse tolto il disturbo. Invece rimase lì, con quel sorriso ebete a guardarmi:
«Quindi non fa differenza se ti chiamo … che ne so» ci aveva pensato prima di aggiungere «April?» lo fulminai con lo sguardo
«June è il mio nome»
«Si, questo l’hai già detto. Ma …»
«Ma adesso devo finire questo libro. Scusa» nascosi il viso dietro lo spesso libro di Tolkien, desiderando ad un certo punto di trovarmi insieme a Gandalf, Aragorn e gli hobbit a combattere gli orchi della Terra di Mezzo.
«E’ un libro bello grosso. Riuscirai mai a leggerlo tut?»
«Si» fece per aggiungere altro, quando la porta di casa sua si aprì e sulla soglia comparve la madre. Ci scambiammo un ultimo sguardo, lui sorridente, io imbronciata:
«E’ stato un piacere … April» gli risposi con gli occhi, poi mi alzai e rientrai in casa.
La voglia di leggere mi era passata, un po’ come, prima del black out, era scemata la volontà che avevo di studiare.
 
La luce gialla della torcia, per l’ennesima volta, mi accecò e con le mani cercai di togliermi quel fascio di luce dalla faccia:
«Che fai April? Ridi da sola?»
Si, stavo sorridendo persa nei miei pensieri e nemmeno me ne ero resa conto.
«Mi chiamo June! E toglimi questa luce dalla faccia!» esclamai e lui eseguì, ridacchiando. Vidi che aveva prelevato una tavoletta di ghiaccio dal freezer che, delicatamente, mi adagiò sulla caviglia.
Il freddo mi penetrò nelle ossa come tanti aghi, non lo sopportavo, era fastidioso, ma strinsi i denti e fissai il soffitto sopra di noi, nonostante non riuscissi a vederlo a causa del buio. Quell’oscurità metteva i brividi, era come un enorme buco nero di cui non si riusciva a vedere la fine.
«April! Ehi, April!»  lo guardai sbattendo le palpebre, come se mi stessi svegliando da un lungo sonno ad occhi aperti
«Che vuoi?» sbottai innervosita. Da quando lo avevo conosciuto, non si era mai rivolto a me con il mio nome di battesimo
«Mi servono delle bende. Ce l’hai?» alzai il sopracciglio destro «E’ da tre ore che te le sto chiedendo per fasciare la caviglia, ma tu dormi!»
«Io non dormo! Ero … soprapensiero» abbassai lo sguardo sulla caviglia e la tavoletta di ghiaccio che vi era ancora adagiata, oramai il dolore era diventato un pulsare debole, intorpidito dal freddo
«Oh, davvero?» d’improvviso la sua voce si era addolcita e ne fui rapita e spaventata insieme, tornai a guardarlo, mentre carponi si allungava, fino a che i nostri visi furono così vicini da mischiare i respiri «E io ero tra questi pensieri?»
In automatico la mia mente formulò un sì muto, provocandomi un tuffo al cuore, gli schiacciai un palmo sulla faccia e lo tenni distante dalla mia:
«Sono nel mobiletto del bagno» dissi, sforzandomi di assumere un tono pacato. Mi sentivo come oppressa dal peso del suo corpo, nonostante non fosse in contatto concreto con il mio
«Cosa? I contraccettivi?» ribadì lui, tornando a quel suo tono irrisorio
«No, idiota! Le bende che mi hai chiesto!»
Ridacchiò e fece dietrofront, alzandosi con la torcia in una mano, grazie alla quale illuminò l’area circostante, soffermandosi sul corridoio che avevo percorso dalla camera a dove mi trovavo in quel momento:
«Il bagno è alla fine del corridoio» gli spiegai, adesso che si era alzato non sentivo più quel peso su di me e potevo parlare con maggiore calma «C’è un mobile bianco, apri le ante in basso. Dovrebbe esserci un kit di pronto soccorso con tanto di bende» mi lanciò uno sguardo di traverso, mi parve che stesse ancora sorridendo
«Torno subito. Non ti muovere» di nuovo quel “non ti muovere”, non capivo se lo dicesse per deridermi o se aveva davvero paura che potessi andarmene in giro a ballare.
S’incamminò e il buio mi inghiottì nella sua morsa. Il terrore tornò ad essere il mio unico compagno:
«Ehi!» tentai di chiamarlo, ma ciò che ne uscì fu solo un po’ di voce strozzata, mi schiarì la gola e riprovai «Ehi, Smith!»
«Che c’è?» chiusi le mani a pugno così strette che le unghie mi penetrarono nella carne
«Potresti parlare o …» mi sentivo una emerita imbecille « … o cantare?»
«E perché?» non sentivo più i suoi passi sul pavimento, doveva essersi fermato, forse si era voltato indietro e magari stava di nuovo ridendo di me
«Per favore» aggiunsi
 
Dopo diversi secondi di assoluto silenzio, tornai a sentire i suoi passi, accompagnati da un fischiettio. Non mi ci volle molto a riconoscere la musica che stava intonando: era la stessa che era rimbombata dalla sua casa fino alla mia, interrompendo i miei studi solo qualche ora addietro; anche dinnanzi allo specchio, mentre si acconciava i capelli nel suo bagno, lo avevo visto fischiettare.
Chiusi gli occhi e poggia la testa contro il muro, rincuorata, ora il buio faceva meno paura.


continua ...

  
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