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Autore: Nina Ninetta    05/09/2013    2 recensioni
June è una ragazza ventenne rimasta a casa per ripassare l'esame universitario di Diritto Romano che l'attende di lì a qualche giorno. Quando tuttavia scende la notte, l’energia elettrica salta a causa di un improvviso e violento temporale estivo che lascerà l’intera cittadina al buio. June soffre di acluofobia, la sua paura più grande quindi è la totale mancanza di luce, un terrore viscerale che le attanaglierà lo stomaco come un serpente. Pur di non restare da sola scenderà a compromessi con sé stessa: accettare la compagnia del suo odiato vicino di casa.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#6

Chiaroscuro
 


Era come se una vocina dentro di me gridasse in continuazione la parola buio.
E’ buio, diceva. Accendi la luce, proseguiva.
«April, calmati, si è solo…»
«Io non mi chiamo April, va bene? Io non sono il tuo pony»
«Era una femmina»
«La tua pony o come cavolo si dice, va bene?» non riuscivo a vederlo, sentivo che era lì a pochi centimetri da me, ma non lo vedevo e questa cosa mi inquietava ancor di più «Mi chiamo June, va bene? E mi dispiace per la TUA pony, ma non sono la sua reincarnazione o-o-o non lo so! So solo che mi chiamo June e che questa cavolo di torcia deve riaccendersi!»
«Probabilmente è scarica, non …»
«Come scusa?» ci fu un attimo di silenzio, in effetti la mia domanda era abbastanza stupida, devo ammetterlo
«Ho detto che è scarica e non …»
«Pile. Certo, le pile! Hai delle pile di riserva? Io dovrei averle da qualche parte, solo che non ricordo bene dove… aspetta, forse sono qui…» mi allungai verso il cassetto del comò e lo aprii, infilando la mano per cercare fra varie cianfrusaglie: penne, fogli volanti, smalti, rossetti e ancora penne.
«April»
«Aspetta un attimo. Sono quasi certa che le ho messe qui dentro…» ero un treno in corsa, incapace di arrestarmi, incapace di pensare se non a quelle stupide pile di ricambio, incapace di ricordami di lui, o di chi fosse. Mi afferrò per l’avambraccio e non lo lasciò mentre mi parlava ad una spanna di distanza, aveva l’alito che sapeva di birra:
«Quello che sto cercando di dirti è che non va a batterie! È scarica, punto. Ha bisogno di essere ricaricata con la corrente che, come avrai già notato immagino, manca da diverse ore» un altro tuffo al cuore, questa volta di paura, di terrore puro.
Un tuono rombò in lontananza e una luce tenue illuminò per un attimo le folti nubi in cielo e la mia camera che, come sempre mi succedeva quando sulle cose calava il buio, mi sembrava del tutto estranea, nonostante la vivessi quotidianamente. Vidi per un momento i suoi occhi fissare i miei, come se sapesse perfettamente dove stessero guardando e avvertii qualcosa spezzarsi dentro di me, cedere, abbandonarsi alla rassegnazione e le lacrime presero a bagnarmi il viso:
«Il problema è il buio» dissi singhiozzando quando ancora mi teneva per il braccio «E questa torcia era l’unica fonte di luce che… che…» lasciò la presa e con quella stessa mano mi carezzò la testa, mentre affondavo il volto nell’incavo della sua spalla
«Ti ho detto che non vado da nessuna parte» il suo tono era basso ma serio, senza alcuna sfumatura di scherno e sperai che stesse dicendo la verità.
La base del collo era calda e umida a causa dell’afa, lì l’odore del profumo che avevo imparato a conoscere in quella giornata, tutt'altro che normale, era più forte e si fondeva a quello della sua pelle. Sollevai appena il capo per guardarlo, anche senza luce mi sembrava di poter vedere i suoi occhi scuri scrutarmi il viso e poi magari fissarsi sulla bocca, le sue labbra schiuse e la fronte leggermente madida di sudore. Il suo respiro continuava a sapere di birra e la mano che fino a quel momento mi aveva accarezzato i capelli, discese con tocco leggero lungo la schiena lasciata nuda dal taglio del vestito che indossavo. Le sue dita erano delicate sulla mia pelle, appena percettibili, eppure i brividi affioravano lungo la scia tracciata dal loro passaggio. Non ricordo se chiusi gli occhi oppure no - tanto il risultato era lo stesso: nero come la pece – mentre posavo le mie labbra sulle sue, erano screpolate e secche. Rinvenni e lo allontanai con entrambe le mani che poi passai fra i capelli tirandoli all’indietro:
«Oddio, scusa! N-non volevo, davvero, non …» deglutii e respirai per cercare di riordinare le idee e i pensieri «… è il buio!» esclamai d’un tratto «E’ colpa del buio» quanto ero patetica in quel momento e quanto mi stavo detestando, poi lui scivolò su di me, fino a che i nostri corpi non furono distesi, l’uno sull’altro, e io mi stupii di notare che non avevo la forza di fermare le sue azioni. O forse, semplicemente, non ne avevo voglia, forse desideravamo entrambi la medesima cosa e me ne vergognavo:
«Secondo me» iniziò con quella cadenza ironica nella voce «Lo volevi eccome» la stessa mano che con gentilezza mi aveva accarezzato i capelli e poi corso giù per la schiena, adesso stava risalendo la mia coscia, non più un contatto appena accennato, ma decisamente più veemente. Sentii le dita oltrepassare l’elastico degli slip e soffermarsi sull’addome, pizzicando la pelle.
«Non posso stare con una persona che non ricorda nemmeno il mio nome» mi riscoprii a farneticare, prima di perdere ogni contatto con la realtà, era un po’ come vedere due June – o forse, paradossalmente, erano June ed April - fare a cazzotti per ostacolarsi a vicenda:
«Oh, ma io lo ricordo eccome il tuo nome …» si zittì, sfiorandomi le guance con le labbra e l’ombelico con le dita «June.»
Il mio nome sulle sue labbra assunse un’altra intonazione, qualcosa di tremendamente immorale ed invitante. Un nuovo brivido mi scosse da capo a piedi, gli afferrai il viso fra le mani e gli carezzai le guance, seguendo il contorno delle sopracciglia con i pollici, mai come in quel momento avrei desiderato vedere i suoi occhi, perdermi nel suo sguardo:
«Mi dispiace per April, il tuo pony» si lasciò sfuggire un risolino e io aggrottai la fronte
«Non è mai esistito nessun pony» rise ancora e mi accigliai di più «Ti stavo solo prendendo in giro»
«T-tu… tu sei un-»
Mi baciò, prima che potessi terminare la frase, mi bacio togliendomi il respiro e resistendo anche quando cercai di scostarlo da me, mentre le sue labbra si increspavano in un sorrisetto, la sua mano riprese a muoversi e a risalire fino ai seni e alla base del collo, che accarezzò. Fu solo allora che assaporai fino in fondo quel bacio e il suo sapore di birra che si andava fondendo al mio.
Abbassai le palpebre e questa volta l’oscurità non mi fece paura, né tantomeno le sue mani che mi denudavano senza fretta, ma con gesti netti, sicuri, e nella mente vidi il mio abito abbandonato ai piedi del letto, nascosto ben presto dalla sua T-shirt. Gli passai le mani sulla schiena, sfiorando i muscoli delle spalle, poi intrecciai le dita sulla sua nuca e lo tirai ancor più contro la mia bocca, semmai fosse possibile avvicinarci maggiormente. Scoprii che il peso del suo corpo sul mio non mi opprimeva, tutt’altro.
Come poco prima le parole scritte secoli addietro da quel poeta italiano tornarono a solleticarmi la mente "In un attimo, non si sa perché, non si sa come…" senza smettere di intrecciare la lingua alla sua, ripresi a carezzargli ora la schiena, ora l’addome glabro, fino ad afferrarlo per la cinta dei jeans "… qualcosa si rompe: una diga fra due acque" ed era proprio come mi sentivo io in quel momento: un fiume in piena che non riusciva a fermare la sua corsa, che non si sarebbe fermato fin quando non avrebbe raggiunto la sua meta, il mare per il primo, Steve Robert Smith per me.
Rimanemmo a fissarci per un lasso di tempo breve, ma carico di tensione e, soprattutto, desiderio. Respiravamo entrambi affannati e nudi, completamente nudi, circondati dal buio più profondo, eppure mi sembrava di poterlo vedere, mentre ricurvo su di me si puntellava con le mani sul materasso per non schiacciarmi, la bocca dischiusa per riprendere fiato, quello sguardo spudoratamente intenso che cercava il mio, poi lentamente si riavvicinò fondendo ancora una volta le nostre labbra, il nostro sapore, e infine i nostri corpi agognanti di piacere.
"E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano."
 
A svegliarmi non fu una sua carezza o un suo casto bacio, né la sua voce o un qualsiasi movimento gli potesse appartenere, ma un intenso raggio di sole che penetrava oltre le tende e illuminava la mia stanza. Frastornata mi issai a sedere al centro del letto, osservando l’ambiente che mi circondava con un grande punto interrogativo sul capo, sforzandomi di colmare quella sensazione di vuoto nella mente, poi lo sguardo mi cadde sulla fasciatura alla caviglia e mi sentii riempire come un bicchiere vuoto. Ogni immagine della notte precedente riaffiorò.
Mi affrettai ad avvolgermi nel lenzuolo, lasciando una lunga coda dietro di me, come un abito da sposa. Un tonfo sordo attirò la mia attenzione e vidi la torcia rotolare sotto al letto, ma la ignorai. Un pizzicore alla caviglia quasi mi fece perdere l’equilibrio, senza molta grazia riuscii comunque ad aggrapparmi al battente della porta appena in tempo, prima di ruzzolare sul pavimento. Percorsi velocemente il corridoio, fino a raggiungere la cucina, dove la luce era anche più forte che in camera e strinsi gli occhi per abituarli al chiarore intenso. Vidi i cocci del vaso che avevo cercato di rompergli in testa ai piedi della porta d’ingresso e il kit di pronto soccorso vicino al battiscopa, proprio lì, dove mi ero seduta ad attendere che lui si prendesse cura della caviglia. Ero ancora imbambolata a guardarmi attorno con – potrei giurarci – l’espressione di un pesce lesso, quando delle voci ovattate mi spinsero verso la finestra e a sbirciare oltre le tende.
Steve era nel suo giardino, lo sportello della macchina aperto, non indossava i jeans e la maglia che gli avevo visto addosso e di cui, pensai arrossendo, si era liberato nel corso della nottata, ma la tuta di una società sportiva. Deglutii, sforzandomi di comprendere almeno una parola della conversazione che stava avendo con i suoi famigliari, ma infondo non mi serviva sentire quello che stavano proferendo, mi bastava osservare per capire. Quando lo vidi abbracciare una delle sue sorelle d’istinto mi allontanai dalla finestra e le tende scivolarono al loro posto, oscurandomi la vista, poi il fragore del motore– quella dannata macchina – e quindi lo stridio delle ruote sull’asfalto, poi solo il rombo che andò scemando.
 
Tornai nella mia camera e mi lasciai cadere pesantemente sul letto, sospirando. Sul comò la bottiglia vuota della birra e quella dell’acqua, piena per due terzi, e proprio sotto quest’ultima mi parve di scorgere un foglio e il cuore accelerò i battiti. Mi affrettai a recuperarlo e in una grafia approssimativa e fugace lessi:
 

Avrei voluto svegliarti per salutarti come si deve,
ma quando ci ho provato mi hai aggredito come un doberman.
Per la cronaca, la torcia va a pile, se riesci a trovarne un paio nuove,
ti conviene sostituirle, in caso di emergenza. E, comunque, puoi tenerla, te la regalo.
Ciao… mia April.

 

Sorrisi, scuotendo il capo.
Se ne era andato e, inconsapevolmente, si era portato via con sé una parte di me. Si era portato via con sé quella April a me sconosciuta, lasciando June sola.
Piegai con garbo il foglio in quattro parti, riponendolo nel cassetto del comò, quello dove avevo cercato le pile di ricambio in preda al panico solo poche ore prima, poi un diario che avevo da tempo dimenticato attirò la mia attenzione. Era posizionato a testa in giù e subito notai che l’ultima pagina era stata strappata, d’istinto provai a verificare se quegli strappi combaciavano con il foglio che Steve mi aveva lasciato sul comò. Si, perfettamente. Sospirai, l’ultima cosa che volevo era quella di fargli sapere che tenevo una sorta di diario segreto.
Lentamente, come se scottasse, cominciai a sfogliarlo, dentro vi avevo riportato diverse citazioni di filosofi che mi avevano colpito, interi capoversi di libri letti nel corso della mia vita, frasi prese qua e là da canzoni, per lo più scritte in inglese e accuratamente tradotte, poi una citazione su tutte mi colpii come un pugno allo stomaco,  cogliendomi alla sprovvista:
 
“Amare è breve, dimenticare è lungo – cit. P. Neruda.”
 

Mi venne voglia di piangere.
 
 
FINE

 
  
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